Umanismo VS antropocentrismo

24 11 2015

Ho sempre pensato che, sebbene i due termini siano spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, la parola “egocentrismo” andrebbe distinta chiaramente da “egoismo”, esattamente come “antropocentrismo” andrebbe distinto nettamente da “umanismo”.

L’egoismo è semplicemente il prendersi cura di sé stessi più di quanto non ci si prenda cura degli altri; insomma è un attribuzione di valore soggettivo maggiore a noi stessi. Per me, io valgo di più. Per te? Per te, tu varrai di più, ovvio. Ma per me valgo di più io.
Si tratta di un punto di vista naturale, e sostanzialmente anche sano, se seguito in modo lungimirante. Infatti un egoismo sensato, ragionevole, difficilmente ci porta a calpestare il prossimo senza alcuna cura: il prossimo che viene calpestato prima o poi potrebbe arrabbiarsi e fartela pagare, e di solito accade. Dunque siamo sicuramente sociali, e sicuramente capaci di altruismo. Ma l’altruismo, che pure ha così grande importanza nell’evoluzione della nostra specie, è comunque uno strumento piazzato nelle inconsapevoli mani dell’ego: siamo, mettiamola così, altruisti nell’egoismo.
Noi animali in un certo senso viviamo per noi stessi; noi stessi siamo l’unica compagnia che non ci sarà mai tolta, ed è giusto ed è meritorio attribuire a questo prezioso compagno le cure più amorevoli. Questo non esclude il poter amare il prossimo; e anzi di solito il modo migliore per amar sé stessi passa dall’amare anche il prossimo.

Diverso è l’egocentrismo, ovvero la posizione cognitiva. La differenza fra l’egoista e l’egocentrico è a prima vista sottile ma della massima importanza: l’egoista non crede di essere un essere speciale, crede di essere come tutti gli altri elemento di un grande gioco di egoismi in cui lui non muove che i propri pezzi, e gli altri muovono i propri. Mentre nelle proprie azioni l’egoista attribuisce la priorità valoriale a sé stesso, nella sua cognizione egli è perfettamente consapevole che gli altri sono in una prospettiva diversa, e dunque li comprende e può associarcisi, trovarvi punti di contatto senza tentare per forza di calpestarli.
La sua “teoria del mondo” è corretta, non crede di avere un valore “oggettivo” speciale.
L’egocentrico invece crede proprio di essere speciale, e che gli altri dovrebbero riconoscere questa sua specialità; che se gli altri sono sani e razionali, debbano accorgersi di tale specialità e venerarlo. Se l’egoista dice “io sono come gli altri, e come gli altri devo badare innanzitutto al mio benessere”, l’egocentrico dice “io sono meglio degli altri, e tutti dovrebbero rendersene conto e badare al mio benessere”. Insomma la differenza fra l’egoista e l’egocentrico è che il secondo fa le sue scelte di vita sulla base di una cognizione erronea.

Nella mia famiglia ci tramandiamo un anneddoto divertente che secondo me spiega meravigliosamente bene cos’è l’egocentrismo.
Protagonista ne è la mia defunta prozia: trattavasi di una classica zitella acida, per così dire; era la bimba piccola della sua numerosa famiglia, e la più viziata, purtroppo anche fino all’età adulta (mia nonna, anche quando ormai erano entrambe ottuagenarie, la chiamava ancora “la piccola”, e diceva che bisognava assecondare i suoi capricci appunto perché “era piccola”). Come tale, aveva sviluppato nel tempo un pessimo carattere ed un narcisismo sconfinato, che le aveva impedito di trovare marito; era finita così a convivere a stretto contatto con due sorelle più grandi, l’una vedova e l’altra zitella come lei; e visto che la vicinanza provoca belligeranza, le tre litigavano spesso.
L’aneddoto fa riferimento ad una frase che, mi dicono, strillò alle sorelle durante uno dei suddetti litigi:

“Ma insomma! Non capisco perché mi contrariate così! Io, fossi in voi, farei di tutto per accontentarmi!”

Sì, le fonti sono affidabili, sono sicuro che abbia detto esattamente così, e non sarebbe neanche la cosa più strana che abbia mai detto. E la frase non era intesa, chiariamolo, come una minaccia, del tipo “vedrete cosa faccio se mi contrariate”; no. Lei intendeva veramente esprimere una sua convinzione, e cioè che le sorelle fossero in dovere morale, razionale ed umano di accontentarla in tutto.
Ovviamente però le sorelle, in quanto persone, come tutte le persone hanno prima di tutto da badare a sé stesse e alle proprie necessità, quindi non v’era alcuna ragione per cui esse avrebbero dovuto “fare di tutto per accontentarla”. Mia zia, dunque, non era semplicemente “egoista”, come tutti intorno a lei la accusavano di essere; oserei dire che era anzi alquanto generosa, e sempre pronta a cercar di comprare l’affetto altrui a suon di regalini. No, non era particolarmente egoista, ma era particolarmente egocentrica, ovvero cieca all’esistenza di altre persone, con proprie personalità, desideri, bisogni, ambizioni. E con ciò non intendo che fosse consapevole dell’esistenza di altre persone, ma noncurante di essa, bensì che non se ne rendeva conto, credeva che le altre persone esistessero solo per venerarla e darle sempre ragione. La sua “teoria del mondo”, insomma, prevedeva che ella fosse al centro, e gli altri alle sue dipendenze.
Una teoria di questo genere non è “brutta” o “immorale”. Semplicemente, è sbagliata. E le azioni fatte sulla base di una teoria del mondo grossolanamente errata, come la sua, sono inevitabilmente autodistruttive; difatti, l’uomo egocentrico, contrariamente all’uomo egoista, è incapace di amare, perché è cieco all’esistenza degli altri come persone, e questo lo rende genealmente un essere molto sofferente. Mia zia in effetti fu una donna molto sola ed infelice a causa della teoria del mondo sbagliata che coltivava, pace all’anima sua.

Dunque non mescoliamo le due cose: una cosa è badare prima a se stessi e ai propri bisogni, comportamento perfettamente legittimo e razionale; un’altra è farsi la convinzione che gli altri siano stati messi a questo mondo per servire i nostri bisogni, il che, pacificamente, non è vero.
Dunque abbiamo l’egoismo che è semplicemente un’attribuzione di valore soggettivo:

“Io per me vengo prima e pongo i miei bisogni in cima alla lista delle priorità”

E poi abbiamo l’egocentrismo, che è invece è una teoria sulla struttura del mondo:

“Io per tutti sono Dio, e tutte le persone sane di mente e razionali dovrebbero adorarmi e venerarmi”.

Analogamente, voglio qui finalmente tornare al tema del titolo, e fare la distinzione essenziale fra l’umanismo e l’antropocentrismo.

Ricevo talora l’accusa di essere “antropocentrista”, e dunque, va da sé, un superato relitto seppellito dalle moderne conoscenze scientifiche (che è un’accusa abbastanza curioso, visto che di scienze naturali ne mastico).
Ma ogni volta ne rimango perplesso: ho forse mai detto che il mondo è stato creato per i bisogni degli uomini e che abbiamo autorità divina su di esso? Ho forse mai detto che la Terra è al centro del cosmo per nostra comodità? Ho forse mai sostenuto che l’universo intero è stato creato da un essere supremo che, guarda caso, somiglia proprio a noi umani? No. Io ho sempre detto piuttosto che noi umani siamo animali come milioni di altre specie animali. E come tali, facciamo prima i nostri interessi di specie, e solo in seconda battuta ci possiamo preoccupare di quello che è fuori dall’umano.

Sono dunque un umanista, ma non un antropocentrista.

Umanista:egoista=egontrico:antropocentrista. L’umanesimo è una presa di posizione valoriale:

Per me l’umanità coi suoi bisogni viene prima di ciò che umano non è”.

Non è invece una “teoria del mondo” naturalistica, del tipo

“L’uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza, e tutto il mondo è fatto esclusivamente per l’uomo e per il suo benessere”.

Quindi, se l’antropocentrismo va messo da parte perché, semplicemente, è una teoria del mondo sbagliata e superata dal punto di vista naturalistico, resta sacrosanto il mio diritto di essere umanista, che nulla implica per quanto riguarda la nostra visione naturalistica, e in nulla dipende dalla nostra visione naturalistica.
Ossequi.





Il “cambio di manovra”

22 11 2015

 

Ormai internet è pieno di gente che si improvvisa esperta di logica quando non sa manco completare sillogismi aristotelici; donde la moda di scovare e denunciare ovunque le “fallacie logiche”.

Personalmente trovo che tutto questo elencare e classificare le fallacie non sia particolarmente utile: chi sa ragionare rigorosamente non ha bisogno di stare in guardia contro le fallacie, perché gli viene naturale non commetterne e anche vederle quando gli altri le commettono.  Viceversa, chi non sa ragionare rigorosamente le commetterà sempre senza avvedersene, e non solo, finirà anche col credere di vederne dove non ce ne stanno.

Tuttavia devo ammettere che, quando si vede una fallacia, è comodo, a scopi espositivi, mostrare come sia già ben nota a scienziati e filosofi, al punto da denunciarla con il suo nome.

Oggi dunque parlerò di una “fallacia”, o per così dire un trucco retorico, con cui mi scontro spesso nei miei dibattiti. Poiché mi sembra di essere il primo a classificarla, le darò anche un nome: la chiamo il “cambio di manovra”.

Il cambio di manovra è la strategia di chi ha iniziato un dibattito sostenendo con forza un certo punto X, e quando vede che X non regge alla prova dei fatti, lo sostituisce con X1, una specie di X indebolito, facendo finta di aver sempre sostenuto X1.

L’esempio più sgamato di questa strategia lo incontro quando discuto sulla sperimentazione animale, in particolare quando dimostro agli animalisti che una certa procedura sperimentale, che ci viene presentata come la cosa più orrenda e mostruosa del mondo, in realtà va ridimensionata.

Un esempio potrebbe essere il seguente (Al, che sta per Alberto, sono io, Sc, che sta per Scemo, è l’animalista di turno):

Sc: Voi scienziati siete dei mostri! Guarda che orrori fate agli animali [inserisce foto di scimmia o gatto con apparati di rilevamento elletrofisiologici sul cranio]! Aprite il cranio di queste povere bestie e introducete degli elettrodi nel loro cervello! Questa è tortura!

Al: Ma guarda che il cervello non contiene recettori del dolore. Un elettrodo nel cervello non fa alcun male. Certo l’operazione per inserirlo sarebbe dolorosa, ma ovviamente viene fatta sotto anestesia. Questa cosa non è affatto una tortura, infatti a volte viene fatta anche sugli umani.

Sc: Ah sì? Allora fattela fare tu!

Al: No, è comunque un’operazione chirurgica, non è uno scherzo. Qualcosa potrebbe sempre andar male, inoltre richiede anestesia eccetera; lo si fa solo se la persona ha bisogno di un’operazione al cervello oppure a scopi terapeutici, e dà il consenso.

Sc: AHA! Hai visto?! Agli animali mica chiedete il consenso, glielo imponete! Siete dei mostri!

Eccoci. Notato cos’ha fatto Sc in questa conversazione?

Sc ha iniziato proponendo il punto X, ovvero “siete dei mostri perché mettete elettrodi nel cervello, e gli elettrodi nel cervello sono una tortura”; poi quando ha visto che gli elettrodi nel cervello non sono affatto una tortura, e infatti possono essere installati anche a degli umani per ragioni mediche, lo ha sostituito con X1: “siete dei mostri perché fate operazioni agli animali senza chiedere il consenso”.

Ma è completamente diverso! Sc non diceva questo all’inizio, Sc diceva che ero un mostro perché compievo torture causando immani dolori a delle povere bestie. E se X avesse retto alla prova dei fatti, sarebbe stato un punto argomentativo relativamente forte; non è bello creare immani dolori a un povero animale, e se mi dai del mostro perché causo immani dolori ad un animale è abbastanza facile farti applaudire. Ben diverso è dirmi che sono un mostro soltanto perché causo un semplice disagio ad un animale senza fargli firmare prima il consenso informato.

Prima Sc mi ha dato del torturatore. Intendeva dire seriamente che io causassi immani dolori agli animali, ha mostrato foto suggestive di bestie operate con l’intento palese di rafforzare questo punto. Poi, quando ha visto che non sono un torturatore e che il suo punto “immani dolori” era una bufala pura e semplice, ha fatto il “cambio di manovra” per  salvare la faccia, fingendo di aver sempre sostenuto l’altro punto, ben più complesso, che è quello della questione del consenso. Ora, mentre la maggior parte della popolazione sarà d’accordo che non si debbano torturare gli animali, sul punto che invece non gli si debba causare alcun disagio senza consenso, neanche al netto di un beneficio umano, probabilmente non sarebbe d’accordo; quindi non è neanche una differenza da poco quella che Sc cerca di far svanire.

In sostanza, il cambio di manovra è una forma molto raffinata di red herring: quando si è in difficoltà si cambia discorso per deviarlo su lidi più favorevoli alla propria causa. Si tratta però di una manovra per il cambio di discorso particolarmente astuta, che va riconosciuta subito e neutralizzata, ad esempio con una risposta di questo tipo:

Al: Un momento, io non ho mai detto che mettere un elettrodo nel cervello sia una passeggiata o che non comporti alcun rischio. Io ho dimostrato soltanto che non è affatto una tremenda tortura come tu sostenevi con tanto di foto drammatiche a supporto, ma al massimo un disagio. Io ritengo che al netto di un beneficio per la scienza possiamo causare qualche disagio a degli animali; altra questione è una “tortura” come quella che tu affermi esistere.

Insomma, dopo aver detto una cazzata, Sc potrebbe cercare di svicolare cambiando l’oggetto primario del discorso con uno ad esso superficialmente simile, con gli scopi di: 1) di non far vedere di aver detto una cazzata; e 2) ritornare a sostenere il suo punto primario ignorando il fatto che è già stato demolito.

Non permettetegli mai di farlo.

 

Ossequi.

 

 





L’etica della sperimentazione animale

18 09 2015
Dicono che il fronte pro-Sperimentazione Animale (pro-SA) sminuisca la questione etica o non la ritenga importante. Lo dicono in tanti da tanto, eh, una roba che ho sentito ormai un milione di volte, praticamente un luogo comune. E non posso che trovarla un’accusa quanto meno ingiusta se non del tutto campata in aria, visto che In realtà il fronte pro-SA ha steso numerosi pezzi a tema etico.
Guardate il MIO blog: parlo dell’etica dietro la sperimentazione animale continuamente, penso che qualcuno potrebbe anche essersi rotto il cazzo e oggi dica cose tipo “vabbe’, Albe’, ho capito il punto: etica della responsabilità, e adottiamo il contrattualismo quando vi sono le condizioni di applicazione. Ti ispiri essenzialmente a Hume e usi un approccio pragmatista che si può collocare nel filone dell’antirealismo morale. Basta, cambia argomento!”
E se qualcuno mi suggerisce di cambiare argomento perché s’è annoiato lo capisco, visto che sul web ho scritto molto più di etica che di scienza, se consideriamo la mole.
Ma ben pochi pro-SA leggono ciò che scrivo. Quindi accade questo: che mentre i filosofi “antispecisti” leggono quando scrivo di etica (spero con non troppo profitto), i pro-SA non lo fanno. Di più: ogni volta che un articolo a tema strettamente etico sia comparso su pagina pro-SA, è arrivata anche la folla dei maestrini con la penna rossa, tutti rigorosamente pro-SA. Non che trovassero qualcosa da sottolineare in sé, con la loro bella penna; mai nessuno è riuscito a evidenziare errori di argomentazione o logica nei miei scritti. Ma i nostri laureati in commentologia applicata rimproveravano, in generale, che si “uscisse dall’ambito di competenza”: quello in cui ho la laurea (suppongo che rabbrividirebbero sapendo che vinco concorsi letterari senza la laurea in lettere, o che attualmente lavoro in accademia ma non come biologo, in spregio alla laurea in biologia; non diciamoglielo così non piangono).
Ovviamente, nonostante nel mondo accademico ci sia oggi una fissa diffusa per il “formal training in ethics”, non c’è bisogno di alcuna preparazione formale per fare etica, tanto è vero che ogni essere umano sulla terra la fa; quindi la storia di “non uscire dal’ambito di competenza” è una stupidaggine puramente strumentale, che va letta come stante a significare questo: non è gradito che il fronte pro-SA si occupi di etica. Si tratta di una bacchettata sulle mani per un indisciplinato.
Non sorprende dunque se articoli del genere che scrivo io non compaiano mai sulle pagine pro-SA: la gente non vuole leggere su questo argomento, e l’unica volta che volevo parlarne dal vivo, non me l’hanno lasciato fare. Dunque prendiamo la cosa come crudo dato: quasi nessun pro-SA gradisce parlare o sentir parlare di etica.
Quindi la situazione assume tinte paradossali:
I pro-SA non leggono i pro-SA che scrivono di etica. Gli anti-SA, invece sì, e piuttosto regolarmente.
I pro-SA vorrebbero che i propri scienziati non scrivessero di etica, in quanto “non-filosofi”. Gli anti-SA, invece, sfoggiano Massimo Filippi, che fa di lavoro lo scienziato e mi dicono sia pure bravo, ma può indubbiamente fregiarsi anche della qualifica di filosofo (anche se come immaginerete non lo stimo particolarmente su questo fronte).
I pro-SA non vogliono mai sentir parlare a un certo livello di etica, neanche sotto minaccia con la pistola alla tempia, mentre gli anti-SA sono sempre pronti a parlarne anche quando c’entra come i cavoli a merenda.
Infine, e questa è la più bella, i pro-SA, che dimostrano coi fatti di non voler assolutamente mai sentir parlare seriamente di etica, dicono di voler che i pro-SA “tengano in maggior considerazione” la questione etica.
Una situazione semplicemente paradossale a sentirla, ma ci sono un po’ di ragioni per cui si viene a creare.
La prima è la vocazione scientifica della maggior parte dei pro-SA, che li porta a provare una specie di complesso di di superiorità o di inferiorità rispetto alle questioni filosofiche; una cosa assolutamente risibile, se consideriamo le enormi contaminazioni che storicamente sono sempre esistite fra scienza e filosofia, e il fatto stesso che in effetti la scienza è filosofia a tutti gli effetti. Lo scienziato ha tutto ciò che gli serve per fare filosofia, ovvero un cervello capace di ragionare, e farsi convincere che così non sia significa cedere su un punto estremamente importante: il diritto-dovere dello scienziato, o meglio, di qualunque umano razionale, di costruirsi un’etica da solo, senza doversi appoggiare a “esperti esterni”, com’è sua ultima e inevitabile responsabilità.
La seconda è la sensazione, che molti scienziati avvertono, che parlare di filosofia morale sia sostanzialmente equivalente a parlare del sesso degli angeli.
E qui un pochino di ragione ce l’hanno. Cioè, non è vero che la filosofia morale sia sempre sesso degli angeli, ma effettivamente fra i filosofi c’è una certa tendenza a mettersi a parlare del sesso degli angeli. Ho già scritto in passato di come sia posta il più delle volte dai filosofi la “questione morale”, ovvero come “la questione astratta che trascende ogni questione reale”, e dunque la “non-questione”. Naturale disinteressarsi di una simile materia: non è una questione seria. “Per me gli animali hanno diritto di non essere uccisi”; ” E pemmè no!”
E adesso? Che si fa per il resto della discussione? Ci guardiamo negli occhi con aria imbarazzata? Parliamo dello sport? Facciamo la gara a chi espone la propria aria fritta in maniera più elegante?
Sembra una situazione sconveniente, eppure i pro-SA in generale trovano un fantastico punto di accordo con i filosofi anti-SA, a riguardo. Dicono loro pressappoco così:
“Cari anti-SA, non parlate di scienza, non lo gradiamo. Voi potete parlare liberamente del sesso degli angeli, però, e noi non apriremo neanche bocca per dire ‘A’ mentre sproloquiate a riguardo”.
Ed è un accordo che funziona perché vantaggioso per entrambi: il sesso degli angeli non interessa a nessuno, è un territorio incoltivabile, quindi i pro-SA non lo vogliono; d’altro canto, gli anti-SA son ben lieti di colonizzarlo senza concorrenza, visto che non avrebbero alcuna speranza di invadere quello dei fatti scientifici e lì invece posson costruire.
Attenzionissima, qui! Si può fare seriamente filosofia morale; si può fare filosofia morale a partire dai fatti. Io lo faccio. Può non piacere come lo faccio, ma lo faccio. E non son mica l’unico al mondo.
Il punto di accordo generale fra pro-SA, di solito scienziati, e gli anti-SA, di solito filosofi, è però di non farlo mai. In sostanza, è un cartello, una spartizione equa del mercato, un accordo per non farsi concorrenza.
E attenzione a quanto segue da questo accordo: non ci si deve pestare i piedi a vicenda, questa è regola assoluta. Dunque se io dico che la questione etica è una questione del sesso degli angeli, e spesso effettivamente E’ posta proprio come il sesso degli angeli ed è una discussione completamente inutile, sto violando l’accordo, perché sto facendo concorrenza, sto dicendo alla gente “mollate i filosofi, salite sulla barca degli scienziati!”.
Ma attenzione, perché se dico, d’altro canto, che la questione etica invece non è il sesso degli angeli, se dico che in effetti è così importante che io stesso mi sento chiamato in causa a trattarla, giustificando in termini di filosofia morale ogni singolo topo che c’è nelle mie gabbiette, allora anche così sto violando l’accordo e sto facendo concorrenza: “mollate i filosofi, salite sulla barca degli scienziati!”
Dunque entrambi gli atteggiamenti sono deprecabili: il pro-SA deve solo parlare di scienza, l’anti-SA solo di filosofia, e in più devono rispettare il sacro confine delle rispettive “competenze”, non esprimendo alcun parere sul valore dei rispettivi lavori e risultati. Il che spesso assume tinte ridicole, perché se io faccio sperimentazione animale va da sé che la reputo morale, e che ho motivazioni per farlo, e dunque che ho fatto un preciso, circostanziato, difendibile ragionamento morale; e, d’altro canto, è ovvio che non si possa discettare con un minimo di serietà di etica della sperimentazione animale e pretendere al contempo di ignorare completamente la natura delle esigenze scientifiche che essa va a soddisfare, come se il lavoro dell’eticista consistesse semplicemente nel costruire utopie morali da impacchettare e vendere alla gente al festival della filosofia, con in regalo il pupazzetto di Kant che dice “es ist gut” se tiri la cordicella.
Ma tant’è, finora si è scelto di far cartello.
Tuttavia voglio far presente ai pro-SA che questo cartello, con tutti i suoi vantaggi per i partecipanti, è un po’ più vantaggioso per gli anti-SA.
Abbiamo in mano i fatti, per cominciare. E stiamo promettendo di non usarli mai.
Facciamo etica tutti i giorni nel nostro lavoro. E stiamo promettendo di non usarla mai.
Viceversa, non ce la caviamo bene quando si tratta di parlare di fuffa. E stiamo riconoscendo ai fuffologi di ogni forma e colore il sacrosanto diritto di porre la fuffa come questione essenziale dell’essere.
Fatti contro fuffa: quasi sicuramente vincerebbero i fatti in un confronto aperto. Potremmo benissimo scendere in campo con tutte le armi sguainate.
Si preferisce invece la guerra fredda.
Be’, che dire, probabilmente in realtà si vince anche la guerra fredda. Ma non bisogna esser confusi su quello di cui si parla: un’etica basata sui fatti è equivalentemente un miscuglio di politica sociale, economia e scienza. Di queste cose i pro-SA già parlano fino alla nausea. I pro-SA parlano di etica, e semmai è proprio il loro parlare di etica che dà fastidio, non che non lo facciano.
Di cos’è che non parlano, o che non parlano “abbastanza” secondo gli accusatori?
Di sensibilità emotive personali della gente riguardo agli animali. Che sono anch’esse parte dell’etica della sperimentazione animale, ma di sicuro non l’esauriscono e altrettanto di sicuro non possono da sole pesare quanto tutto il resto.
Inoltre, dulcis in fundo, CE NE OCCUPIAMO ECCOME, di quell’aspetto!
‘nzomma, va …
Ossequi, che è meglio.




La questione morale

3 08 2015

La “questione morale” è quella cosa che si tira fuori quando non si ha nessun argomento sensato o significativo da mettere in piazza. Allora se ne tira fuori uno che non significa niente ma suona molto filosofico ed elegante: “c’è una questione morale”, si dice.

E come si distingue esattamente una questione morale da una questione scientifica, da una questione sociale, da una questione politica, da una questione economica, da una questione personale o da un qualunque miscuglio in qualsiasi proporzione di queste cose?

Se fosse una di queste cose, oppure una qualche combinazione di esse, si potrebbe discuterne su basi fattuali e arrivare a soluzione pratiche condivise, attraverso ragionamento e negoziazione.

La “questione morale”, invece, è qualcosa che si vuole trascenda tutte le questioni pratiche e reali. E cosa rimane quando hai trasceso tutte le questioni pratiche e reali?tumblr_na45hsuHNz1rst6h7o1_500

Indovinato: NULLA. Hai sottratto la questione a qualsiasi discussione fruttuosa e che possa portare a visioni condivise.

Io dico che i ricchi non devono essere tassati di più perché, che so, hanno diritto alla proprietà. Un altro mi dice che invece è giusto che siano tassati di più per un principio di uguaglianza.

E be’? Come lo decidi se è più giusto seguire il mio principio o il suo, visto che non puoi mettere di mezzo la questione sociale, la questione politica, la questione economica, la questione scientifica etc.? Se potessimo iniziare a discutere di tutte questi aspetti di rilevanza pratica, potremmo arrivare magari ad una decisione. Ma se non possiamo, allora non ci resta che parlare del nulla, enunciare principi che ci siamo inventati sul momento o che abbiamo copiato a qualcun altro o rimaneggiato e che magari suonano bene. Tutto lì, parlare del nulla.

Ma a parlare del nulla, specie se riesci a farlo dandoti un tono sapiente e usando tanti paroloni, ci sono molti vantaggi. Il più importante?
Puoi dire quello che cazzo vuoi senza che nessuno possa contraddirti.

Può essere fatto in maniera molto teatrale: “tutti gli esseri senzienti hanno diritto a vivere!”; suona bene, no? Minchia, che bello. Molto filosofico. E esattamente qual è la ragione per cui dovremmo decidere di fare nostro questo principio?

Boh, mah, chissà. “La ragion pura pratica dialettico performativa come fosse antani”.

Woooow. E che je voi di’? Di più: se l’altro si lascia spiazzare, potresti perfino portarti a casa una vittoria mediatica!

Nel dibattito sulla sperimentazione animale, ad esempio, tutti quelli che non usano argomenti pseudoscientifici, e che riconoscono dunque l’utilità della ricerca in vivo, decidono di giocare sul terreno sicuro che non ti richiede di studiarti la scienza, e tirano in ballo la “questione morale”.
Lo fanno proprio perché non vogliono affrontare la questione scientifica (scientificamente, la sperimentazione animale è una pratica che garantisce il progresso della biomedicina), né quella sociale (a tutti i membri della società sta a cuore la propria salute e quella dei propri cari, dunque la cosa ha rilevanza sociale), né la questione politica (che discende direttamente da quella sociale), né la questione personale (quando i nostri cari si ammalano, o noi stessi ci ammaliamo, desideriamo tutti avere a disposizione cure adeguate), né tanto meno la questione economica (sia mai, ammettere che le scelte che facciamo possano avere anche ripercussioni economiche e che esse siano da soppesare e considerare! Se lo fai sei come gli schiavisti!).

Ovviamente, se hai dichiarato secondarie o irrilevanti tutte queste sfaccettature del problema, il problema è stato svuotato: non è rimasto più nulla di concreto e reale su cui discutere. La questione diventa una discussione sul sesso degli angeli.

Il problema di una discussione sul sesso degli angeli è che nessuna delle due parti può mai davvero trionfare, stringere in pugno la verità o qualunque cosa che le somigli.
Ma, ovviamente, se prima perdevi su tutti i fronti, e invece adesso sei in grado di tornare a casa con uno stallo, come quello con cui si concludono di solito le discussioni sul lato “etico” della sperimentazione animale, per te è già un progresso.

“Sull’etica ci possono essere tante opinioni diverse”, è la conclusione classica del dibattito sulla sperimentazione animale, quando il filosofo tira in mezzo la questione morale. E grazie al cazzo che ci sono opinioni diverse, è il sesso degli angeli, ovvio che tutte le conclusioni sono uguali; sono maschi, femmine, asessuati, chi cazzo lo sa.

Un discorso completamente inutile, completamente infruttuoso, completamente vuoto.

Ma quelllo è il tipo di discussioni in cui i sofisti razzolano con maggior profitto.

Ossequi





La carne è un capriccio

31 07 2015

Vegetariani e vegani non sono mai o praticamente mai gourmet o grandi chef. Il fatto stesso che facciano a meno del sapore della carne indica chiaramente che per loro si tratta di qualcosa di rinunciabile o sostituibile: e quale grande gourmet o grande chef al mondo potrebbe mai pensare che esista un sapore, un solo sapore su questa grande terra, che sia sostituibile?

Loro fanno una rinuncia, ma evidentemente una per loro facilmente accettabile. Dopotutto, tutte le nostre attività danneggiano gli animali; perché rinunciare alla cotoletta e non all’aria condizionata o al computer? Evidentemente per loro la cotoletta non è così importante; sicuramente meno del computer o dell’aria condizionata (per inciso, io l’aria condizionata non ce l’ho e quando ce l’ho la tengo spenta la maggior parte del tempo).

Ma qui sta il loro più grosso limite: dato che per loro a conti fatti quella rinuncia non è davvero importante, chiedono con estrema leggerezza a tutti di fare come loro, e si prendono il lusso di bollare il mangiar prodotti animali come una specie di capriccio e basta.

Si tratta dell’errore peggiore che si possa fare in battaglia: sottovalutare ciò che si combatte. Il cibo è cultura, è storia, è scienza ed arte. Il cibo è sensazioni, emozioni, meraviglia e nostalgia, gioia ed amarezza. Gli aromi ed i gusti si piazzano nella nostra mente, nella parte dove tutte le esperienze più significative abitano, e non se ne staccano più. Possiamo dimenticare tutto quello che abbiamo visto durante un viaggio in un paese esotico, e ancora ricordarci tutti i sapori che vi abbiamo sperimentato.

Il cibo può essere amore e passione. Evidentemente, per loro non lo è, o lo è ad un livello molto elementare. Magari gli piace, ma non lo amano; esattamente come a chiunque può piacere la musica, ma solo pochi la amano.ratatouille-teoria-03

L’incapacità di riconoscere la grandezza piena della rinuncia che chiedono è il loro limite più grande. Ed è reso ancora più grande dal fatto che, come arte, la cucina è insieme alla musica la più facile da apprezzare anche per l’incolto; quindi se è vero che chiedere di rinunciare alla carne ad uno che già magari è un barbaro gastronomico che toglie il grasso al prosciutto non è chiedergli gran cosa, è comunque un bel sacrificio perfino per lui.

Da questa mancanza di intuito psicologico derivano tutte le manovre comunicative semplicemente disastrose che mettono in atto. Partono da preconcetti assolutamente sbagliati, partono dall’idea che il sapore della carne non sia altro che un capriccio di secondaria importanza, e così lo trattanno quando parlano al pubblico; non riescono neanche a far finta di considerare l’amore per il gusto della carne qualcosa di importante nella vita delle persone, qualcosa che vive nella tradizione, nella cultura e nel cuore della gente. Pensano che il punto sia spazzare via il capitalismo con i suoi allevamenti intensivi.

Ma come si fa … Ma avete mai sentito dire a qualcuno: “oh, quanto mi piacciono gli allevamenti intensivi!”? Se domani si fa un referendum contro gli allevamenti intensivi lo si vince, ovvio che il punto non è quello, proprio per niente.

Il punto è spazzare via la torta della nonna, il ragù della domenica, la soppressata di paese. E quelli non li spazzi via facilmente, e di sicuro non dicendo alla gente che sono una specie di capricci insignificanti.

Ma il capitalismo, in quest’impresa, è il loro più potente alleato (dopotutto, lo è sempre stato): se qualcuno riuscirà mai a spazzar via ogni residuo di tradizione e cultura dal cibo, quello non potrà essere che il capitalismo. Il capitalismo adora l’uniforme ripetersi del sapore della soia, così facile, così vendibile a tutti, così vuoto d’arte, così vuoto di cuore.

Gli hamburger di McDonald’s tutti uguali, identici in ogni parte del mondo; chi si accorgerebbe mai se venissero tutti sostituiti con hamburger di soia?

Se il vegetarianesimo diverrà mai predominante, sarà perché nei nostri piatti non ci sarà più nient’altro che soia, e ormai nessuno si ricorderà più di che sapeva il pollo. Oppure il pollo sarà diventato così senza sapore che nessuno noterà la differenza fra la soia e il pollo, perché no? Siamo già abbastanza avanti su quella strada.

Oh, sì! Ci attende un grande e luminoso futuro! Senza conflitto, senza sopruso, senza contrasto … a conti fatti, senza niente.

Ossequi.

P.S.: L’articolo ha avuto un certo successo, e vari commenti sia in pagina che in giro per la rete. I più divertenti sono proprio quelli dei veg*, perché mi hanno tutti confermato il loro limite psicologico: non sono capaci di considerare la cultura gastronomica come una cosa rilevante per la vita delle persone, la sanno solo minimizzare.

E pensare che era facile mostrare che mi sbaglio. Sarebbe bastato scrivere: “sì, mi rendo conto che il sacrificio che chiedo quando chiedo di diventare vegetariani o addirittura, vegani, è molto grosso e radicale, e che non tutti possono essere disposti a farlo”.

Nah, meglio liquidare come capriccio. Deridere o sminuire ciò che è importante per le persone: io ho subito questo trattamento tutta la vita e a tutti i livelli del mio essere, posso assicurarvi che è una cosa che fa molto incazzare la gente. Si tratta proprio di una tecnica comunicativa idiota.

Niente, non c’è proprio speranza. Per questo sarebbero destinati ad essere minoranza in eterno, fatta salva la possibilità che la cultura gastronomica muoia invece di morte naturale, uccisa dalla pervasiva cultura della soia industriale …





LA SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA

17 07 2015

Ho sempre pensato che, se spiego bene il mio pensiero, certi ovvi fraintendimenti non ci saranno, e nessuno prenderà sul serio certe apparenti “contraddizioni” in ciò che dico che in realtà sono solo frutto di lettura superficiale. E, al limite, ciò è vero; una volta che si sia capito tutto perfettamente anche le apparenti contraddizioni spariranno. Non è però vero all’atto pratico, specie se il fraintendimento affonda in concezioni filosofiche millenarie e ancor oggi molto vive …

Dunque sono passati due anni dall’apertura di questo blog, eppure l’unico post finora che abbia trattato specificamente l’apparente contraddizione fra il mio essere anti-omofobico e anti-antispecista insieme è uscito qualche giorno fa; e ora esce il secondo. Perché una contraddizione, seppur solo apparente, c’è, e va chiarita.

Difatti, vedrete che il più delle volte i filosofi o pseudofilosofi antispecisti sono pro-LGBT, e viceversa i filosofi o pseudofilosofi omofobi sono generalmente specisti. E nella mente di queste persone, l’associazione fra le due cose viene naturale e spontanea. Anche noi, a breve capiremo perché per loro è tale, e poi anche perché invece non lo è affatto per me e neanche, a ben vedere, nella testa del grosso della popolazione.

Intendiamo subito che in termini pratici la questione dei diritti LGBT non ha davvero niente a che vedere con questioni come il vegetarianesimo o la sperimentazione animale: a favore dei diritti LGBT e anche della sperimentazione animale: why not? Quasi tutti i miei conoscenti la pensano così. Omofobo e anche vegano: why not? Proprio l’altro giorno ho fatto un raccapricciante incontro con un’omofoba incancrenita che si dichiarava vegana. Le due cose possono tranquillamente andare insieme nella lotta politica e nella vita di tutti i giorni.

Per questo io ho fatto riferimento ai filosofi antispecisti, e ai filosofi omofobi, o per lo meno, quelli che si divertono ad atteggiarsi a tali. Perché parliamo di persone che hanno fatto la scelta, per una settimana o per la vita, per convenienza o per amore, di occuparsi principalmente dei problemi rigorosamente astratti della filosofia.

Prendiamo i problemi su cui si accaniscono gli antispecisti e gli omofobi: i primi mettono in discussione a vario titolo la netta linea di demarcazione uomo-animale, i secondi invece insistono su una categorizzazione estremamente, e aiutatemi a dire estremamente, rigida riguardo ai sessi: maschio-femmina.

Già ora dovremmo iniziare a cogliere qual è il fulcro del paragone che sto istituendo, ma facciamo qualche altra osservazione empirica prima di arrivarci. Gli attivisti a favore dei diritti LGBT (me escluso, ça va sans dire) spesso impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione maschio-femmina, utilizzando come testa d’ariete contro di essa una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e donna sono violati; ad esempio intersessuali, androgini, transgender, o anche solo donne “mascoline” e uomini “effeminati”. Ad essi gli omofobi rispondono generalmente con una severa riaffermazione della categorizzazione, che generalmente assume la forma dell’uso improprio dell’argomento della normalità. Gli antispecisti generalmente impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione uomo-animale, utilizzando come testa d’ariete una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e animale sono violati; ad esempio i famosi casi marginali. Ad essi gli umanisti rispondono generalmente riaffermando la differenza uomo-animale e la sua rilevanza al livello metafisico, spesso usando l’argomento dalla normalità in forma impropria (me escluso, ça va sans dire).

Dovremmo cominciare a vedere dove si va a parare, sbaglio?

Essenzialmente, omofobi e “specisti” si muovono nella direzione di affermare con forza e rigore l’esistenza di linee di demarcazione ontologiche che definiscono la realtà: maschio e femmina, con tutti i loro tradizionali attributi; uomo e animale, con tutti i loro tradizionali attributi.

Antispecisti e pro-LGBT (più che altro i queer theorist, a dire il vero) si muovono nella direzione opposta: il loro è un atteggiamento strutturalmente critico delle categorizzazione ideali.

Gli omofobi ripetono ossessivamente che maschile e femminile sono assoluti ontologici. Gli antispecisti negano continuamente qualsiasi valore effettivo alla demarcazione uomo-animale.

Ecco dunque la ragione dello scontro filosofico: gli omofobi sono realisti platonici, che danno una priorità assoluta alle idee nelle loro elaborazione, mentre gli antispecisti sono nominalisti di ferro, che si spingono indefinitamente oltre nella critica alla validità delle idee nel descrivere la realtà.

“Adaequatio rei et intellectus”; raggiungere l’identità fra il pensiero e la realtà, ecco lo scopo ultimo di questi filosofi, tutti. La differenza fondamentale fra antispecisti ed omofobi è che i primi vorrebbero modificare l’idea per adeguarla in maniera perfetta alla realtà, mentre i secondi vorrebbero modificare la realtà per adeguarla in maniera perfetta all’idea.

Lo scopo di entrambi è “alto”, anche se non molto utile. Ma il problema principale sono i mezzi, necessari, che essi sono disposti ad usare per raggiungere un tale altissimo scopo.

L’idea e la realtà non sono uguali. Non lo saranno mai. La realtà è mutevole e caotica, piena di sfumature, imprevisti, eccezioni e stranezza. Il pensiero è ordinato, rigido, definito, strutturato, e tende a preservarsi uguale a se stesso.

Non potranno mai essere uguali. L’intima natura dell’uno e dell’altro lo impedisce.

Non sorprende dunque se i filosofi dell’una e dell’altra fazione, all’estremo delle loro elucubrazioni, iniziano a sembrare completamente pazzi.

L’ossessione per le idee, portata alle sue estreme e naturali conseguenze, conduce a negazione della realtà. Gli omofobi per esempio insistono a pretendere che la realtà sia quella che sta nella loro idea: maschi e femmina, tutti cisgender, tutti eterosessuali, tutti stereotipati. Messi di fronte alla realtà che quest’idea rigidissima non si applica a quello che vediamo tutti i giorni, confrontati col fatto che esistono transgender, esistono intersessuali ed esistono omosessuali, essi li catalogano come “errori” e fanno finta di niente. Il che è follia pura se ci pensiamo un momento: stanno accusando la realtà di essere sbagliata rispetto alla loro idea. Stanno accusando la natura di aver commesso un errore, rispetto a loro che invece sanno come dovrebbe andare il mondo.

L’assurdo è abbastanza evidente.

E d’altro canto è chiaro a cosa conduce anche l’atteggiamento opposto, al collasso del pensiero. La distinzione fra uomo e animale non è perfetta (e quando mai ve ne sono in natura?), ma è sicuramente una delle più rigide che la biologia ci offra, visto che Homo sapiens è l’ultimo sopravvissuto del suo genere e il suo parente più prossimo (lo scimpanzé) dista milioni di anni di evoluzione da lui. Se si nega la legittimità del processo che consiste nel formalizzare una distinzione almeno verbale fra le due realtà, descrivendo le caratteristiche comuni fra gli umani che non sono normalmente presenti nell’animale, allora finirà che non potremmo neanche dire che una pera e una mela sono due cose diverse: sono entrambe dolci, sono entrambi frutti … e poi cos’è un frutto? Non è forse un fiore modificato? Allora come facciamo a dire che un fiore è un fiore e un frutto è un frutto?

Certo, se ci chiudiamo in camera, bendiamo gli occhi e tappiamo le orecchie ignorando così l’esistenza di qualsiasi cosa che non quadri con le nostre idee, abbiamo raggiunto l’identità perfetta di pensiero e realtà negando la realtà.

Certo, una volta che abbiamo smesso di usare qualunque categoria e qualunque idea e messo da parte qualunque pregiudizio, ovverosia abbiamo smesso di pensare e ci siamo ridotti a puro istinto, abbiamo raggiunto l’identità di pensiero e realtà negando il pensiero.

In entrambi i casi abbiamo vinto, abbiamo conquistato il nostro scopo … Ma il prezzo è stato un po’ altino. Ma che importa? Anche lo scopo era alto. E bisogna capire che il filosofo, che quasi sempre è anche un metafisico, ragiona in questo modo (o per lo meno, in questo modo ragionano i miei avversari): tutto gira intorno ad una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA, che a sua volta esprime in qualche modo quella dualità di approccio che ho descritto.

Dunque tutti i dibattiti particolari, che so, le adozioni a coppie omosessuali, la sperimentazione animale, l’eutanasia infantile, l’allevamento intensivo … non sono questioni che per se stesse siano degne di attenzione. Esse sono manifestazioni particolari, occasionali, di una latente SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA concernente l’adeguazione perfetta fra l’ideale e il reale, che essa sola è degna di attenzione. Dunque se io stringo un contratto di convivenza con un uomo invece che con una donna (perché il matrimonio è soltanto questo all’atto pratico: un contratto di convivenza e supporto reciproco), in realtà io sto affrontando la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione dei sessi! Cavolo, sono più potente d quanto pensassi, con una firma su un pezzo di carta io metto in discussione la natura stessa dell’uomo! Sono un Dio, cazzo! D’altro canto se faccio il dispetto di nascondere della carne nel piatto di un vegetariano non sto facendo solo uno scherzo deficiente, come pensavo, bensì sto affermando la mia posizione sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della demarcazione uomo-animale. Questo se sono fortunato, perché c’è caso addirittura che io stia dicendo la mia sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA dell’esistenza della violenza e dell’oppressione, che rende quindi sciocca e vacua la molto-meno-suprema questione filosofico-antropologica della distinzione uomo-animale!

Suppongo che se mentre mi succhio un’ostrica mi ingoio un granello di sabbia quello sia un atto metaforico della mia scelta di campo all’interno della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA del rapporto fra l’uomo e il suo pianeta; sono diventato Galactus il divoratore di mondi.

Alla luce di questa prospettiva si spiega faclmente l’atteggiamento che i miei avversari assumono immancabilmente verso di me. Se io dico ad una conferenza sulla sperimentazione animale che per me le questioni etiche in realtà sono questioni pratiche e politiche, ecco che “l’antispecista” avvocato Prisco (che sarà contento che finalmente sia riuscito ad imparare il suo nome) mi bacchetta:  “nonnonnò! Non puoi ridurre l’etica a una  volgare questione pratica, ad un semplice insieme di provvedimenti e decisioni provvisorie e circostanziali! È una cosa più ALTA, è una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA!”  (non saranno state proprio quelle le parole, ma quello era il significato). E dato che non ci sarà modo e tempo di rispondere, non potrò mai obbiettare che se non è una questione politica, e non è pratica, né tanto meno è una semplice scelta personale, e nemmeno ovviamente è teologia perché siamo atei, ma è comunque una cosa più ALTA … Allora non mi è chiaro che cavolo è. Ma di che stiamo parlando davvero? Quando è che la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA sarà giudicata abbastanza suprema da esser degna di discussione?[1]

Naturale che in questa ottica un po’ perversa necessariamente anche le questioni dell’omofobia e dell’antispecismo sussumono sotto uno stesso concetto universale, perché entrambe manifestazioni della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione categoriale che vede contrapposti Aristotele e Platone. Ed è dunque necessario individuare un metodo risolutorio di entrambe le questioni che risponda alla medesima formulazione della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Potrei benissimo dire che la questione dei matrimoni gay non ha nulla a che vedere con l’esistenza differenziata del maschile e del femminile, è semplicemente una scelta di convenienza sociale che renderebbe più piacevole vivere nella nostra società.

Potrei benissimo dire che la questione del vegetarianesimo ha a che fare semplicemente con un calcolo dei costi e benefici, personali e sociali, materiali ed emozionali, connessi al mangiar carne e al non mangiarla; e potrei dunque spingermi alla bestemmia suprema di affermare che fra me, che mi occupo di benessere animale ma non sono vegetariano, ed un vegetariano, non c’è nessuna suprema differenza filosofico-antropologica, ma solo una differenza nel grado e nel tipo di sensibilità rispetto alle questioni in esame.

Ma questo modo di ragionare è intollerabile per il “filosofo”. Per colui che ragiona da “filosofo” (che poi filosofo lo sia o meno è irrilevante) viene naturale come il respiro ricondurre il tutto ad un’unica suprema questione di somma astrazione. Un’astrazione tale che, se sottoposta ad uno scrutinio attento, si rivela vuota.

A ciò io contrappongo la mia modesta, e proprio per ciò blasfema, proposta: e se invece ci accontentassimo di qualcosa di meno della risoluzione perfetta della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA? Se ci accontentassimo di ottenere un’uguaglianza approssimata fra pensiero e realtà, una somiglianza utile per i nostri scopi da adottarsi nei singoli casi specifici che dobbiamo affrontare?

Da quando mi occupo di biostatistica (non è un caso che questo sia diventato il mio mestiere: applicare perfette idee astratte ad una realtà mutevole e caotica …) non ho mai dimenticato la mia prima è più importante lezione: “un modello non è vero o falso, solo utile o meno utile”.

Quando descrivo i miei dati con un modello lineare sto solo dicendo che esso li descrive abbastanza bene da venire incontro a certi miei scopi.
Non sto dicendo che nella realtà le cose siano esattamente come le descrive quel modello; se volessi cambiare il modello per aderire perfettamente alla realtà avrei da lavorarci per millenni prima di poter inserirvi dentro tutte le (letteralmente) infinite variabili che lo determinano; se pretendessi invece che la realtà sia descritta perfettamente e senza alcun errore da quelle tre-quattro variabili che ho messo nel modello, farei un errore grosso come una casa, e non riuscirei mai a spiegarmi come mai quel farmaco che secondo il modello funzionava su qualche paziente invece non ha funzionato: “ah be’, la natura avrà sbagliato, mica io!”

Il mio modo di muovermi è strettamente pragmatico: cerco quella teoria che è al tempo stesso ragionevolmente “esatta”, perché contiene più informazioni possibile sulla realtà, e anche ragionevolmente “economica”, ovvero sia ancora di applicabilità abbastanza generale da essere di una qualche utilità pratica.

“Ma questa non è filosofia, è scienza!”

“Ma questa non è filosofia, è solo buon senso!”

Sapete che vi dico?

Avete perfettamente ragione!

Questo è il modo di procedere della scienza, che cerca di creare teorie che siano un compromesso fra la generalità e l’esattezza. E la scienza, come disse il saggio, “non è che buon senso accompagnato da solido ragionare”.

La scienza si sa accontentare del proprio essere approssimata. È la filosofia (o meglio, il resto della filosofia, visto che la scienza è una branca della filosofia) che non sa accontentarsi, è la filosofia che pretende che idea e realtà siano perfettamente identiche, ed è disposta a qualunque cosa pur di ottenere ciò.

Sono dunque consapevole che la mia posizione mi sistemi a margine dei dibattiti filosofici di cui sopra, per non dire fuori da essi. Ho notato in passato che gli antispecisti non mi rispondono mai, e neanche gli omofobi. La ragione principale per cui non lo fanno è sicuramente che non vogliono farmi pubblicità (perché non dimentichiamoci che ci sono battaglie politiche in corso qui, e quando c’è la politica in mezzo, la filosofia e l’amore per il confronto possono andare a farsi fottere, una lezione che ho imparato sulla mia pelle), ma è anche vero che non avrebbero nulla da rispondermi, perché io non entro nel “loro” dibattito filosofico. Piuttosto nego che il presupposto stesso di quel dibattito sia corretto, non mi interessa la loro SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Quando mi capita di confrontarmi con questi soggetti in contesti in cui non possano svicolare agevolmente, mi trovo sempre in situazioni divertenti, perché mi scagliano addosso argomenti che non sono rivolti a me, ma “all’altra fazione”!

Gli omofobi mi accusano di voler cancellare la distinzione fra uomo e donna, quando io stesso ho criticato quel tipo di estremismo molto apertamente in passato; mi gettano addosso contro-argomenti per argomenti fondati sulla critica delle idee e che io non ho mai formulato o non in quella forma. Non è con me che se la prendono, il loro avversario predestinato non sono io.

E ovviamente non sono neanche l’avversario predestinato di un antispecista, come spiegavo qui. Io non ho mai affermato “il salto ontologico” fra uomo e animale, ad esempio; non ho mai neanche affermato l’impossibilità di concedere agli animali alcuni diritti, men che meno ho mai parlato di valore intrinseco dell’essere umano. Mi attaccano con argomenti che sembrano fatti apposta per rispondere ai metafisici cattolici, e probabilmente lo sono, ma che semplicemente non riguardano il sottoscritto.

La verità vera è che per chi è immerso fino alle orecchie in quel tipo di dibattito astratto ciò che dico è semplicemente non pertinente. Il loro è un dibattito filosofico in senso stretto, il mio è un discorso che in senso stretto è pratico-scientifico. Ovviamente, in senso lato anche il mio discorso è perfettamente filosofico, più filosofico del loro volendo, ma sicuramente più fisico che metafisico. Perché anche i filosofi che con più violenza si scagliano contro le “idee” sono comunque filosofi: idee sono le loro armi e idee è il loro pane, e di conseguenza rispetto ad uno scienziato resteranno sempre più “astratti” e più “metafisici”.

Dunque, non mi vedranno mai come un avversario filosofico, ma sempre e solo come un avversario politico. Il che, se vogliamo, è un riconoscimento di valore ben più grande. Penseranno che dal punto di vista filosofico io sia “contraddittorio” e non sapranno in che squadra mettermi.

E non verrà mai il giorno in cui capiranno che io non sono in nessun squadra perché non sto giocando al loro stesso gioco

Ossequi.

[1] In parentesi, dobbiamo notare anche che se davvero poi tu imposti il discorso come dicono loro, e cioè con una rincorsa all’astrazione sempre maggiore, ti accuseranno di aver “estremizzato il ragionamento in maniera illegittima”, un’accusa che ho ricevuto mille volte in risposta al mio video su youtube. Quindi devi essere più astratto di quanto non sei, ma comunque non più di quanto lo siano loro se no stai esagerando. Insomma devi fare esattamente come dicono loro per fare bene.





La Samarcanda dell'”antispecismo”

11 07 2015

Nei miei dibattiti con gli antispecisti nostrani la critica sportami più volte è l’accusa, più o meno velata, di non sapere quello che dico, di non aver letto i filosofi antispecisti più moderni, di essere rimasto ai “vecchi” Singer e Regan and so on.

Dovete sapere che malgrado i filosofi si compiacciano tanto del loro limpido ragionamento e del fatto che non cascano nelle fallacie logiche, chi li legge e li ascolta si accorge rapidamente che alla bisogna fanno quasi sempre ampissimo e competente uso di un po’ tutte le fallacie logiche mai scoperte. Questa che mi viene rivolta è un’accusa di incompetenza attraverso la quale si svicola dal dovermi rispondere nel merito delle mie argomentazioni; tutto lì, ovvero è una fallacia ad hominem presentata con stile. Si tratta di un tipo di fallacia interessante, perché somiglia molto ad un argomento legittimo (“il mio avversario non è degno”), ma pur sempre una fallacia. Molto banale, volgare, perfino.

Mi scoccia rispondere alle accuse ad hominem perché significa assecondarle; dirò soltanto per coloro che vi fossero interessati che ho letto varie cosine dei nostri antispecisti “moderni” e che, soprattutto, vi ho discusso direttamente, che è senz’altro il modo migliore per capire cosa pensano. Ma potete fingere, se volete, che stia soltanto tirando a indovinare, o che sia stato suggerito da uno spirito etereo dell’aldilà. Fate come più vi aggrada.

Più che altro però è importante rispondere ad un’accusa più pertinente rivoltami in questo merito: di non rispondere che ai vecchi argomenti di Singer e Regan, trascurando i “moderni sviluppi dell’antispecismo”.

In realtà non è proprio esatto che io trascuri gli antispecisti 2.0, visto che ho ampiamente risposto anche ad argomenti dei filosofi nostrani, come qui, qui, e qui (e se vogliamo anche qui; ma va detto che nella mia idea di “filosofia” la psicologia spicciola non ci rientra, e dunque non ci rientra nemmeno quando, come in questo caso, la faccio io). Tuttavia, è senz’altro vero che i miei dardi sono più di frequente scagliati contro gli antispecisti della prima ondata, soprattutto Singer, che sui vari emuli più recenti.

Perché?

Perché è lì che l’antispecismo concreto è arrivato. E da lì non s’è mai mosso di un millimetro.

Prima di approfondire quello che intendo dovremmo chiarire cos’è l’antispecismo, ma anche definire cosa sarebbe è già un passo complesso, perché ce ne danno mille descrizioni diverse: l’aderenza stretta ad una filosofia morale utilitaristica, un’azione politica che vorrebbe liberare il mondo intero da ogni forma di “oppressione”, una critica concettuale alla stessa distinzione uomo-animale, varie ed eventuali.
Se dovessimo prendere queste singole correnti di pensiero e seguirle fino in fondo indipendentemente, arriveremmo a conclusioni bizzarre e spesso opposte le une alle altre. Ciò che le accomuna tutte è semplicemente un generico, scomposto, disorganizzato amore per alcune specie di animali, accoppiato ad un progetto politico fumoso finalizzato a un qualche mutamento altrettanto fumoso dei rapporti uomo animale, che generalmente implica la rinuncia alla sperimentazione animale e alle cotolette.

Questa vaghezza rende lo “antispecismo” estremamente sgusciante sul piano dialettico; ma per ogni risicato punto in difesa che esso può guadagnare usando il giochetto di rispondere “mi avete frainteso, non sapete di che parlate!” a qualsiasi critico, perde dieci punti in consistenza e forza. L’avversario da colpire quando si vuol colpire “l’antispecismo moderno” è suppergiù una nuvola di vapore: impossibile ferirla, ma neanche lei ferisce mai te.

Ed ecco, questa è una delle ragioni, la più semplice anche se non la più importante, per cui io me la prendo di più con Singer: almeno è un avversario estremamente solido e ben identificato. Singer ha tanti demeriti, ma la sua filosofia è estremamente chiara, il suo sistema morale è ben definito, i suoi assiomi esposti con chiarezza, il suo progetto esplicito e univocamente collegato ai presupposti che dichiara.

Singer, e varianti sul tema (Regan e blabla) sono ancora oggi l’unico corpo fisico chiaro dell’antispecismo.
Certo, l’antispecismo nasce come anti-, e ciò vuol dire che si pone in partenza come antagonista, come contrario: è contrario allo “specismo”, ed è dunque definito solo in negativo, per natura. Ma in Singer questo antagonismo assume una forma forte e indipendente, altamente costruttiva: si prende pure la briga di dirci quali sono gli animali di cui ci dovrebbe importare e quali no! Ci mancano solo i Dieci Comandamenti! Negli sviluppi successivi non si aggiunge molto su questo piano; piuttosto si accentua l’elemento antagonistico: l’anti-specismo diventa sempre più anti-, e quel suo essere anti a poco a poco si configura come l’unico suo elemento aggregante.

Ma anti-cosa?

Dalla risposta a questa domanda si evincerà la ragione della sua debolezza costitutiva. Esso è contro lo “specismo”, ma che cosa sarà mai questo “specismo”?

Tenterò una definizione (anche se probabilmente ci sarà chi dirà “nonnonnò, hai sbagliato gli accenti”): banalmente, l’uomo sfrutta gli animali. Ciò accade a priori di qualsiasi filosofia o ideologia, specismi e antispecismi inclusi. È un animale, dunque sfrutta gli animali, più semplice di così si muore. Le formiche sfruttano altre formiche, le zecche sfruttano i cani, i lupi sfruttano i cinghiali, i ratti sfruttano i topi eccetera eccetera. Fatte salve le modalità peculiari della sua specie, ovvero l’alto livello di socialità e di tecnica che esso può applicare ai suoi scopi, Homo sapiens sfrutta gli animali come tutti gli altri. Banale.

Ma Homo sapiens è per sua peculiarità anche un animale astratto; la sua vita interiore ha grande importanza, le idee lo accompagnano in ogni momento della sua giornata come il pelo accompagna la volpe. L’uomo è in larga misura governato da queste idee; in particolare, la sua socialità lo ha portato a sviluppare nozioni di “giusto” e “sbagliato”, nozioni morali. Tali nozioni gli sono essenziali in ogni momento della sua vita, perché determinano se egli sarà/si sentirà accettato dai suoi simili, sarà/si sentirà in pace con se stesso, e via dicendo. Dunque, dati questi vincoli ideali cui è sottoposto, ha sempre avuto bisogno di avere delle giustificazioni ideali per ciò che faceva, delle “metafisiche”. Ha dunque costruito anche un’intera metafisica che giustificasse il suo sfruttamento degli animali. Lo “specismo”, direi.

Potrebbe sembrarvi strano leggere queste frasi sul mio blog; spero che nessun antispecista mi denunci per plagio … sì, sono perfettamente d’accordo con chi nota che l’uomo ha costruito metafisiche che giustifichino i suoi comportamenti dal punto di vista morale, qualsiasi comportamento. Sono anche d’accordo che tali metafisiche, che sono il cuore pulsante dello “specismo”, vadano abbattute.

Dunque io mi potrei a pieno titolo arrogare il titolo di filosofo antispecista.

Eppure, quando arriviamo alle rivendicazioni politiche, sono agli antipodi con gli autodefinitisi antispecisti. Come mai ciò accade?

Sapete la storia di Samarcanda? Vecchioni l’ha resa famosa con una sua canzone: durante i festeggiamenti per la fine di una lunga guerra, un soldato vede nella folla la Morte che lo osserva con  occhi cattivi. Allora il soldato corre dal Re, si fa dare il cavallo più veloce che egli possiede, e scappa via dalla morte, verso Samarcanda, dove arriva tre giorni dopo. Ma ecco che lì incontra la Morte che lo attende e gli spiega: i suoi non erano occhi cattivi, era solo sorpresa; lo aspettava a Samarcanda per quella notte, ma visto che tre giorni prima era così lontano temeva che potesse non farcela in tempo.
ratatouille-teoria-03Ecco, gli antispecisti si affannano molto a demolire tutte le metafisiche morali che giustificano il nostro sfruttamento degli animali. Corrono verso la loro Samarcanda, il luogo ove tutte le metafisiche speciste sono distrutte. Ma in questa critica radicale, non sorprende, sono sostanzialmente costretti al limite a distruggere tutte le metafisiche morali, perché avendo l’uomo sempre sfruttato gli animali, ha sempre costruito metafisiche che giustificassero la cosa.

Dunque, eccoci, le abbiamo distrutte tutte. Cosa resta?

Noi e gli animali, senza nessuna noiosa metafisica di mezzo. Eccola la Samarcanda verso cui corrono disperatamente. Noi e gli animali, noi i bruchi e loro la lattuga. Noi con le posate in mano, loro nel piatto. Oggi esattamente come ai tempi dei Cro-Magnon, sfruttarli ci conviene, e smettere di farlo ci causa solo perdite. Un bilancio chiaro e netto come pochi.

E io dico, continuiamo così, funziona benissimo. E tutti mi ascolteranno, perché è vero, funziona benissimo, e perché è vero, la società nel suo complesso avrà sempre bisogno di sfruttare gli animali e dunque sempre lo farà.

Nessun antispecista ha mai risposto filosoficamente a me (eccetto una volta, e sostanzialmente dandomi ragione, come forse avrete già letto…). E come potrebbero? Sono d’accordo con loro, solo più avanti. A Samarcanda ci sono io con la mia sugosa bistecca nel piatto e i miei guanti di coniglio, e ci sarò sempre, anzi, senza metafisiche ci sto molto meglio!

Il soldato non sa cosa lo attende a Samarcanda, crede di starsi allontanando dalla Morte, mentre le corre incontro. Così loro non si accorgono che le loro armi anti-metafisiche li conducono necessariamente, piano piano, esattamente dove sto io. Si rilassano tanto, non pensano che Nietzsche e Foucault siano pericolosi; dopotutto Nietzsche era vegetariano, e Foucault era così pacioso! Ma il nietzscheanesimo, la morte delle metafisiche, è realmente quella dinamite che dichiara di essere. E sorprende la leggerezza con cui vorrebbero fare i giocolieri col TNT.

Oh, sì, l’antispecismo si è spinto abbastanza in là  nella decostruzione delle metafisiche morali (anche se c’è stato molto di meglio in passato), è piuttosto avanti sulla strada per Samarcanda; ma cosa farà quando vedrà la Morte in faccia? Cioè, cosa si aspetta mai di trovare dopo che ha tolto tutti gli orpelli al comportamento umano? Troverà ovviamente la stessa cosa di prima, ma senza orpelli: se elimino lo specismo come sovrastruttura, ritrovo sotto lo sfruttamento animale come struttura portante. A Samarcanda, un giorno forse lo vedranno, gli uomini non dormono a fianco dell’agnello, se lo pappano ancora. Se lo pappavano prima di ogni metafisica, se lo papperanno anche dopo. I cristiani hanno solo cercato di rendere la cosa più poetica dicendo che li aveva autorizzati Dio, ma pensare che senza Dio smetterebbero è ingenuo; finché gli farà comodo continueranno. Se Dio lo vietasse esplicitamente, ecco, allora forse forse diminuirebbero … Per questo i primi, più furbi “antispecisti” hanno inventato una propria metafisica che includesse un tale divieto.

Ma senza metafisica si corre fra le mie braccia. Io non ho bisogno di combattere con gli antispecisti “moderni”, quelli che stanno avanzando sulla strada dell’antispecismo come anti-metafisica. Mi basta aspettarli qui comodo comodo con la falce in mano, dopotutto sono molto più antispecista di loro! Le loro armi sono tutte affilate contro la metafisica (almeno le armi filosofiche; poi ci sono varie contaminazioni di sociologia e psicologia … a quanto pare, al giorno d’oggi “filosofo” spesso non è uno che fa filosofia, ma uno che fa psicologia e sociologia, ovvero scienza, ma male), e quindi non v’è ragione per cui dovrei sentirmene colpito: sono le stesse che uso io, anche se io in modo più radicale.

Il problema non sono quelli che si stanno muovendo sulla strada decostruttiva, che dopotutto sono sul mio stesso percorso filosofico. Il problema sono quelli come Singer e Regan, perché loro si sono fermati a mezza strada: hanno decostruito parzialmente una metafisica per sostituirvene un’altra. L’antispecismo politico, quello veramente politico, ovvero l’incarnazione concreta della dottrina filosofica antispecista in tutte le sue forme, non può e non vuole arrivare a fare a meno delle metafisiche: gli servono, perché è un’ideologia e le ideologie si nutrono di metafisiche.

L’antispecismo concreto, quello che vuol dire qualcosa di preciso in senso morale, è fermo a mezza strada da qui alla capitale; una critica ad alcune metafisiche, ma non a tutte: è tutta una metafisica esso stesso. Una metafisica semplice semplice, teologica, direi. Della teologia ha tutti i tratti essenziali: ha un Dio (la natura), la sua dottrina del peccato originale (l’uomo che ha “inventato” la violenza e lo sfruttamento), una sua via per la salvezza (il veganismo), un’apocalisse (la profetizzata vittoria finale dei vegani sul resto del mondo), dei santi martiri (i saccheggiatori di laboratori e allevamenti che non vanno in prigione per la causa) … Ed è davvero tutto lì.

Le mie tipiche armi anti-metafisiche vanno benissimo contro tutto ciò. È un bersaglio grande e facile, non v’è ragione che vada oltre. Che volete che vi dica, che Maurizi mi scrisse apertamente che secondo lui essere vegani era meglio perché diminuiva la sofferenza anche se non la poteva ridurre a zero? Sì, me lo scrisse (non credo la conversazione sia ancora reperibile, ma so che vi fidate), e avrebbe potuto dirmelo uguale anche Singer, nessun progresso radicale sul fronte della critica alla metafisica. Sono ideologie e hanno bisogno di metafisiche, è ovvio che le usino.

Sono ancora molto lontani da Samarcanda, questi antispecisti …

Ma ho tempo. E chissà che un giorno non arrivino da me e magari, perfino, mi superino! Certo, più oltre di dove sto io inizia a sparire non solo la metafisica, ma anche la fisica, e superata la grande bufala dello scetticismo in ogni sua suadente forma (decostruzionismo, nichilismo e fideismo inclusi), più avanti resta solo la morte del pensiero. La beata animalità che Nietzsche amava …

Ce ne preoccuperemo a suo tempo. Frattanto, li aspetto qui comodo comodo; tanto ho fatto abbondante riserva di ‘nduja.

Ossequi.





Matrimoni gay e “l’Argomento dalla Normalità”

5 07 2015

Come ho sottolineato più volte, questo blog è fatto per essere letto per intero, e magari pure più volte; questo perché alcune cose scritte in questo o quell’articolo sono presupposte, oppure spiegate più propriamente, in altri articoli. I rimandi sono ovunque e dovrebbero permettere al lettore attento di comprendere il senso complessivo della mia filosofia.

Per esempio, quello che scriverò in questo articolo l’ho già disseminato in altri due articoli precedenti. Dunque alcuni forse troveranno che non contenga particolari novità. Penso però che il punto che tratterò sia abbastanza rilevante da meritare un’attenzione specifica.

Che cos’è l’argomento dalla normalità?

Io chiamerò argomento dalla normalità la forma generalizzata dell’argomento dalla normalità di specie, che a sua volta è un importante contro-argomento per l’argomento dai casi marginali.

Un approfondimento sull’argomento dai casi marginali lo trovate in questo mio scritto, e include anche la mia risposta al suddetto. In estremissima sintesi, l’argomento dai casi marginali è un argomento utilizzato dai sostenitori degli animal rights, secondo il quale, poiché vi sono individui umani che hanno razionalità e consapevolezza inferiori a quelle di alcuni animali, allora dovremmo trattare tali individui umani allo stesso modo di questi animali, o viceversa.

La risposta più intuitiva e più corretta all’argomento dai casi marginali è proprio l’argomento dalla normalità di specie, formulato inzialmente dal filosofo Tibor Machan: non ha senso pensare di tarare un’intera normativa sulla base di casi estremi e/o patologici di ciascuna categoria. Noi non andremo a tarare la nostra morale su quelle quattro scimmie al mondo che riescono a capire un centinaio di parole, mettendole a confronto peraltro con quegli individui umani malati o disabili che sono incapaci di parlare o ragionare. La normativa sarà piuttosto basata sulla normalità di specie: l’uomo normale è dotato di capacità razionali che l’animale normale non possiede, e basarsi su questo dato è semplice buon senso.

Questo argomento è la più ragionevole e definitiva risposta all’argomento dai casi marginali. Ed è generalizzabile: si può infatti pensare che ogni normativa dovrebbe essere ragionevolmente tarata sulle situazioni normali, e che i casi speciali (marginali) meritino semmai un trattamento distinto.
Ma questo modus cogitandi porta sopra una scritta “maneggiare con cura” grande come il Colosseo, e bisogna capirne bene tutti i presupposti prima di utilizzarlo.

Infatti, la critica più semplice ed evidente a quello che d’ora in poi chiamerò in generale “argomento dalla normalità” è che manca assolutamente di rigore formale. Ed è una critica corretta. Ribadisco, non avete letto male, la critica è corretta: l’argomento dalla normalità (di specie o di qualsiasi altra cosa) è un argomento che non risponde a certi requisiti di rigore formale.

Immaginate di dire ad un matematico “ho un teorema, qui, non l’ho proprio dimostrato, ma mi pare che di solito funziona, tranne in un paio di casi strani!”

Rabbrividirà: un teorema non funziona “di solito”, non funziona “nella maggioranza dei casi”, men che meno funziona “nei casi normali”! Come lo decidi quali sono i casi normali e quali non lo sono, scusa? Nel ragionamento matematico si necessita di un rigore per cui se affermi un teorema vale sempre, in tutti i casi possibili ed immaginabili. Se esiste un controesempio, anche uno soltanto su milioni e milioni di casi, il teorema è falso.

Se invece siamo in fisica o in chimica o in biologia, va be’, la questione si fa diversa: possiamo, anzi, dobbiamo, iniziare ad approssimare. “Per un pendolo che fa oscillazioni molto piccole l’arco è approssimativamente uguale al seno dell’angolo”.

Non è uguale, è approssimato.

Ma per i nostri scopi, può anche andar bene; anzi, tutte le misure, nelle scienze naturali, contengono errori e sono dunque approssimazioni. Dunque in scienze naturali potremmo anche dire “più o meno le cose nella maggior parte dei casi vanno così, tenuto conto di un margine di errore accettabile per i nostri scopi”, ma in matematica dovremo dire invece: “le cose vanno così. Punto. Sempre e comunque.”

Quindi prima di utilizzare l’argomento dalla normalità bisogna fare un’importante scelta iniziale di principio: se trattare l’etica come se fosse matematica o come se fosse scienza naturale.

Perché se la trattiamo come fosse matematica, l’argomento dai casi marginali regge eccome, e l’argomento dalla normalità crolla miseramente!

E qui si giunge al dibattito più antico di tutta la filosofia: Platone Vs Aristotele. Platone, che privilegia sempre le idee come essenza di ogni cosa, e Aristotele, che invece ricerca nelle cose stesse la loro sostanza. Sulla strada tracciata da Aristotele, l’etica è una disciplina euristica e di approssimazione, poiché:

“Le azioni, quelle generali sono di più larga applicazione, quelle particolari più ricche di verità, giacché le azioni riguardano casi particolari, e occorre che la teoria si accordi con essi.”

Con Platone, la filosofia, e con essa la morale, è matematica, e dunque non può ammettere approssimazione ed eccezione; con Aristotele la morale è una “tecnica”, un modo in cui noi deliberiamo il modo più facile e bello per raggiungere i nostri fini.

In ottica Aristotelica, e solo in ottica aristotelica, vale dunque l’argomento dalla normalità. Obbiettivamente, non ha senso pretendere dall’etica lo stesso livello di precisione e rigore che pretenderemmo dalla matematica: se una direttiva morale vale nella maggior parte dei casi, la adottiamo, anche se magari non vale in tutti i casi immaginabili. E se poi c’è qualche caso in cui non vale, e va be’, si farà uno strappo alla regola, oppure si ragionerà di volta in volta se sia il caso di modificare la teoria stessa.

L’etica di Aristotele è etica pratica: approssimata, provvisoria. Come tale, è la più vicina alla realtà ed è quella che di fatto viene sempre seguita nella vita di tutti i giorni, come nella politica o nella giurisprudenza.

Purtroppo, però, Platone ha avuto dei seguaci particolarmente famosi, in particolare il tremendo Kant. Fu Kant a sostenere che l’etica dovesse essere un prodotto esclusivamente astratto-razionale, e dunque a ridurre la moralità a proprietà logico-formale degli enunciati normativi. E moltissimi gli sono andati dietro.

Ora, tutto sommato questo dibattito non mi importa più di tanto: l’etica formalizzata di matrice kantiana fallisce sempre. Nel mio articolo precedente mi divertivo a dimostrare come anche l’antispecismo singeriano abbia i suoi casi marginali, e dunque ricada in una regressione ad libitum: se ogni volta che c’è un caso marginale tu devi rigettare la classificazione e crearne una nuova che “metta dentro” anche il tuo caso marginale, allora otterrai che con ogni nuova classificazione, necessariamente imperfetta, avrai un nuovo caso marginale, e dovrai dunque estendere la regressione del tuo ragionamento morale all’infinito.

Un problema che noi etici pratici su base aristotelica non incontriamo, perché anche se il perfetto rigore formale non è rispettato, un’approssimazione può andar bene per i nostri scopi.

MA … ma c’è una cosa che voglio sottolineare mille, e duemila e tremila volte ancora:

Se non ti metti nella prospettiva aristotelica di un’etica pragmatica, flessibile e provvisoria, non puoi usare l’argomento dalla normalità.

In sostanza, quando dobbiamo stabilire un quadro normativo, generalmente siamo costretti a fare una certa violenza alla realtà, nel senso che dobbiamo costruire confini netti dove non ce ne sono in realtà. Nell’altro articolo facevo come esempio quello del ragazzo diciassettenne che magari guiderebbe benissimo, ma non può comunque prendere la patente. Non è giusto, in teoria, visto che sarebbe in grado di guidare. Solo che è più semplice per noi dare dei precisi requisiti di età per avere la patente che andare a valutare ogni singolo caso. Insomma, dal punto di vista pratico, ci conviene approssimare piuttosto che essere rigorosamente esatti.

Ma ci deve essere un guadagno pratico chiaro e molto netto in questa scelta, perché stiamo perdendo esattezza.

Questo lo devo dire necessariamente perché vedo molti omofobi usare l’argomento dalla normalità in maniera inappropriata. In particolare mi riferisco alla questione dei matrimoni gay. L’argomento più usato dagli oppositori è che tali unioni non dovrebbero essere tutelate in quanto non fertili.

Ovviamente tale argomento si sgretola nel momento in cui si faccia presente che esistono coppie eterosessuali sterili o che comunque non vogliono avere figli, e il matrimonio viene comunque concesso loro, insieme all’adozione per chi lo desidera.

Questa contro-risposta può essere considerata un argomento dai casi marginali: le coppie etero sterili come caso marginale di quelle fertili.

Usando l’argomento dalla normalità potremmo dire che le coppie sterili siano un caso “non normale” e dunque negare loro rilevanza rispetto al nucleo della nostra normativa.

Questo ragionamento non è inaccettabile in linea di principio, ma presuppone una prospettiva aristotelica. Non si può sostenere su base rigorosamente logica che una coppia etero sterile sia uguale ad una coppia etero fertile sotto il profilo “rilevante” della fertilità. Non lo è, non è fertile! Dunque sotto il profilo logico-formale non possiamo in alcun modo sostenere che la stessa norma che si applica alle coppie fertili in quanto fertili possa applicarsi a coppie che fertili non sono, quale che sia la loro composizione sessuale. Che una coppia, anche eterosessuale, sterile, non sia fertile, è un’asserzione degna del tautology club; una coppia eterosessuale sterile ed una fertile sono uguali sotto il profilo dell’eterosessualità, ma non della fertilità. Ma davvero, c’è bisogno di dirlo, che sterile fertile?

Se invece ci mettiamo in un’ottica aristotelica e pragmatica, potremmo forse sostenere che una coppia etero sterile è approssimativamente analoga ad una coppia etero fertile per i nostri scopi, che sia un “caso limite”, e dunque che sia conveniente in senso pratico assimilare le due categorie, perché essere più accurati sarebbe impossibile o difficilissimo, o comunque avrebbe un rapporto costi-benefici non accettabile. Ma quali potrebbero mai essere quegli scopi pratici tali per cui sia conveniente escludere delle coppie gay che si amano, convivono, si aiutano a vicenda ma non possono avere figli biologici, mentre invece dovremmo includere delle coppie etero che si amano, convivono, si iutano a vicenda ma non possono avere figli biologici?

E infatti è qui che sorgono le difficoltà insormontabili per l’omofobo di turno, perché di fatto non c’è nessuna ragione pratica per cui dovremmo trovare particolarmente conveniente approssimare una coppia etero sterile ad una coppia etero fertile, se davvero è la fertilità che conta.

Quando io dico che a volte conviene approssimare, do per scontato un dettaglio banalissimo ma che certi fini pensatori si dimenticano: si usa l’approssimazione, ok, ma solo laddove sia impossibile o sconveniente raggiungere un’esattezza maggiore.

E non è questo il caso! Se davvero la fertilità è ciò che conta (AMMESSO E NON CONCESSO), allora, più che trattare le coppie etero sterili come “caso limite”, è molto più semplice escluderle: ad esempio, si può imporre un test di fertilità obbligatorio positivo a tutte le coppie come precondizione per il matrimonio. O meglio ancora! Potremmo decretare che il matrimonio contratto cominci ad avere effetti legali solo ed esclusivamente in seguito alla procreazione! E soprattutto, potremmo e dovremmo negare la possibilità dell’adozione di figli, poiché essa permetterebbe di bypassare il problema della fertilità, ed è la fertilità che conta, giusto?

Dunque non c’è alcuna ragione pratica per “approssimare” una coppia etero sterile ad una fertile che non sia applicabile anche alle coppie gay. E, ripetiamolo la terza volta: un’approssimazione ha senso solo ed esclusivamente in virtù del fatto che sia più pratica rispetto all’esattezza perfetta. Se così non è, l’approssimazione si chiama in un altro modo: si chiama pregiudizio ed errore.

In sostanza, loro vorrebbero usare l’argomento dalla normalità per stabilire un rigoroso limite logico-formale per l’aderenza a certi requisiti.
Ma il problema è che l’argomento dalla normalità, dl punto di vista rigoroso, assolutista e logico-formale, è clamorosamente sbagliato. Sbagliato, sbagliato come affermare che l’arco di un oscillazione non nulla sia uguale al seno dell’angolo. Non lo è, fine della discussione.

Ora, diciamo le cose come stanno: nel diritto, ancor più che nella morale, Aristotele regna incontrastato: approssimazione, flessibilità, adattamento, fanno giustamente la parte del leone nelle scelte moralmente rilevanti. Così dev’essere, e infatti i più svegli di voi avranno già notato come anche quando io uso l’argomento della normalità di specie contro gli antispecisti, comunque non affermo MAI che sia impensabile o insostenibile che gli animali abbiano alcuni diritti. Possono e, difatti, la legge ne concede alcuni ad alcuni di essi. Semmai, lo uso come argomento contro il loro assolutismo morale, ma non lo uso per sostenere un mio assolutismo morale.

L’argomento dalla normalità non è e non potrà mai essere una mazza da piazzarsi in mano agli assolutisti morali perché possano dettare le leggi universali di come dovrebbe essere il cosmo. Non funziona così, semmai è proprio al contrario: è una souvenir per ricordar loro che alla fine tutte le nostre perfette costruzioni morali e legali sono solo un espediente per sopravvivere.

Oggi funzionano, domani chissà …

Ossequi.





Quel deficiente di Cartesio

21 05 2015

La filosofia degli animal rights ha bisogno di nemici, ovviamente. Il nemico designato è quasi sempre Cartesio; il mostro incompetente, piaga della filosofia occidentale e padre dello ‘specismo’, che ci ha convinti che gli animali sono robot incapaci di sensazioni ed emozioni. Non si può assistere ad una conferenza di qualche filosofo animalista senza sentire la frecciatina a quell’idiota patentato di Cartesio, smentito platealmente dalle recenti scoperte dell’etologia (recenti scoperte? Che gli animali abbiano sensazioni è una scoperta “recente” di cui possiamo vantarci rispetto ai nostri stupidi antenati? Ma per favore…).

E tuttavia, tutte le volte che ho domandato ai miei interlocutori di citarmi un passo di Cartesio in cui egli affermi che gli animali sono privi di sensazioni ed emozioni, ho visto occhi che si incrociano.

Cartesio non è il filosofo più brillante né il più chiaro della storia del pensiero occidentale. Ma che fosse un completo deficiente non lo credo. Il mio contributo alla discussione su Cartesio e gli animali sarà solo la seguente citazione da una lettera al marchese di Newcastle:

Se insegnate ad una gazza a dire ‘buongiorno’ alla sua padrona quando la vede arrivare, tutto ciò che potrete avere ottenuto sarà aver fatto dell’emissione di quella parola l’espressione di una delle sue sensazioni. Per esempio sarà un’espressione della speranza di mangiare, se l’avete abituata a ricevere un premio quando la pronuncia.  Similmente, tutte le cose che si fanno fare ai cani o ai cavalli o alle scimmie sono semplicemente espressione della loro speranza, della loro paura, della loro gioia; e conseguentemente possono fare queste cose senza alcun pensiero.

Grassetti miei.

Quindi secondo Cartesio gli animali potevano provare paura, gioia, speranza, ‘passioni’ in generale. Cartesio riteneva il pensiero razionale la più elevata e complessa funzionalità del cervello, non dimentichiamocelo; è per questo che invocava a sua spiegazione la res cogitans. La filosofia e la scienza di oggi hanno teso ad invertire la prospettiva: oggi quello che Chalmers chiama l’hard problem della coscienza è considerato essere la possibilità stessa dell’esperienza soggettiva, la capacità di sentire, dunque. Il pensiero razionale, rispetto a quella capacità essenziale che permette di ‘essere soggetto’, è oggi generalmente visto come un fenomeno secondario e assai meno complesso filosoficamente. Ma Cartesio non la vedeva così; a torto o a ragione riteneva più interessante la questione della capacità di pensiero razionale, cosa che secondo lui non poteva essere spiegata in termini meccanicistici.

Se sorvoliamo su questa sua ingenuità, scopriamo che ha ben ragione Dennett piuttosto a notare quanto interessante sia il pensiero di Cartesio sulla coscienza degli animali: essi sono, a tutti gli effetti, automi capaci di sentire, il che ha collegamenti molto interessanti all’attuale pensiero sull’Intelligenza Artificiale. Gli uomini sono anch’essi, come tutti gli altri animali, automi capaci di sentire (sì, è questo il meccanicismo cartesiano: anche i viventi sono macchine, uomo incluso); ma in più hanno la res cogitans, sono dunque capaci di pensiero razionale, il che li distingue dagli animali. Sono capaci, in particolare, di fare meta-pensiero, di dire ‘cogito, ergo sum’.

Al di là delle implicazioni metafisiche piuttosto fantasiose il pensiero di Cartesio era completamente diverso da quella infantile parodia costantemente presentataci dagli animalisti, e non solo: era anche molto corretto. Resta vero che la capacità più peculiare dell’uomo è il pensiero astratto, e nessun’altra specie animale possiede questa dote a livelli paragonabili di sviluppo.

Che gli animali siano capaci di sensazioni e di emozioni lo sappiamo tutti benissimo, non è una scoperta geniale degli animalisti. Cartesio non era un deficiente incapace di rendersene conto e nessuno di coloro che, come me, si oppongono alla filosofia degli animal rights, è all’oscuro del fatto che gli animali siano capaci di sensazioni ed emozioni simili in molti aspetti a quelle degli umani.

Semplicemente, non lo riteniamo il punto centrale della discussione.

Animalisti, facciamocene una ragione, vi va?

Ossequi





L’etica di Azatoth

29 04 2015

In una delle conferenze sul tema della sperimentazione animale cui partecipai l’anno scorso mi misero “in difficoltà” (chiarirò ora in che senso mi misero “in difficoltà”) con una domanda di stampo filosofico. Mi si chiese, sostanzialmente, se dato che ero a favore della sperimentazione animale (dunque ‘specista’, ça va sans dire), sarei stato favorevole anche alla sperimentazione su una nuova specie intelligente che avessimo dovuto scoprire.

La difficoltà ovviamente non era filosofica, ho una risposta molto chiara a questa obiezione, visto che l’ho ricevuta ormai un migliaio di volte in forme diverse. La difficoltà era comunicativa; stava solo nel fatto che la risposta sarebbe stata difficile da comprendere per la platea senza un adeguato contesto. Sinteticamente e d’istinto, avrei sicuramente risposto così:

“Ci penserò quando accadrà”.

Sento già le critiche che una simile risposta così semplice avrebbe istintivamente suscitato: avete fatto una domanda ardita per mettermi in difficoltà, e io ‘svicolo’.

Ma ragioniamo: sto davvero scappando vergognosamente? Devo davvero saper rispondere a quella domanda così complicata per poter sostenere una mia idea dell’etica? Se non lo faccio vuol dire che ‘svicolo’, che mi rifiuto di mettere alla prova la mia etica, o addirittura, che mi rifiuto di prendere una posizione?

No, non voglio che si dica che non prendo nessuna posizione sul fronte etico, che non propongo nessun approccio per la risoluzione dei problemi etici, perché non è vero; se così fosse, sarei inattaccabile, ma lo sarei solo perché non direi mai niente su cui essere attaccato.

Io un metodo etico ce l’ho, in generale. L’approccio con cui affronto un problema etico è essenzialmente contrattualista. L’argomentazione a sostegno di questa scelta è ben nota, ma la spiegherò comunque brevemente: se si analizzano i rapporti fra enti razionali tramite la teoria dei giochi (che è uno dei miei strumenti intellettuali preferiti) ci accorgiamo che nel lungo termine la strategia a priori più conveniente per ogni agente è quella collaborativa. Insomma, io prospero se collaboro col mio prossimo, altrimenti decado. Da qui l’implicito contratto sociale (che non è un vero contratto, ovviamente, ma piuttosto un’insieme di accordi e convenzioni implicite su cui si regge la convivenza nella società) che porta gli uomini a collaborare, aiutarsi a vicenda, obbedire a norme comuni: lo fanno per poter prosperare tutti quanti. Quindi se uno mi domanda “che ragione avrei io di essere altruista”, io gli rispondo “ti conviene, se sei altruista gli altri saranno altruisti con te e prospererai”.

L’approccio contrattualista permette di muoversi piuttosto bene nel dibattito etico, permettendoti di aggredire qualsiasi problema in modo parecchio sistematico, senza al contempo cadere vittime di eccessiva inflessibilità di pensiero. Per esempio, ecco come uso questo approccio per gestire la questione sperimentazione animale: se uno mi domanda “che ragione avrei io per non volere che si sperimenti su animali”, rispondo “nessuna”. Gli animali sono fuori dal contratto sociale, e la società deriva soltanto vantaggi dalla pratica della ricerca in vivo, quindi in ottica sociale, su base contrattualista, non v’è ragione di non sperimentare su animali. La pratica deve essere considerata legittima. L’unico argomento che si possa opporre alla sperimentazione animale è il classico “bisogna rispettare il sentimento verso gli animali”, magari accompagnato dall’altro: “coltivare la compassione verso gli animali per sviluppare anche quella verso l’uomo” (il beneficio della compassione verso l’uomo è evidente). Altre possibili ragioni contro non ne vedo, e anche queste vanno soppesate contro i benefici notevoli che se ne ricavano. Dunque la soluzione in realtà è piuttosto semplice.

Come si vede, è vero che quello contrattualista è un metodo parecchio efficace, lineare e che non ammette repliche  piglianti nei casi specifici. Cosa mi vorreste mai rispondere sul tema sperimentazione animale? È ovvio che se stiamo in una società umana ci convenga collaborare fra umani, ma non serve a nulla collaborare con gli animali, anzi, non si può perché non sono enti razionali. Dunque li si può anche “sfruttare”.

Dunque, molto semplicemente, con gli umani collaboro perché conviene più che competerci; con gli animali competo perché conviene più che combatterci. Ridotto all’osso, ma efficace.

Soprattutto, il punto di forza più grande del metodo è che dà un’effettiva motivazione per essere “buoni”: essa è principalmente (ma non solo) che gli altri siano buoni con te. L’utilitarismo, o il kantismo, o il capability approach, questo non lo garantiscono, vorrebbero farsi strada con la sola forza del loro essere “giusti”. Che è un po’ poco come motivante. Anzi, che non è niente, visto che non si può usare il concetto di giusto per definire il concetto di giusto, no?

Ma ovviamente non mi aspetto che il mio approccio sia esente da critiche; qualsiasi metodo etico ne solleva, più o meno come qualsiasi cosa facciamo in generale nella vita … ci sarà qualcuno che non lo gradisce. Ma sarà interessante vedere quali sono le critiche che dovrebbero mandare in crisi il contrattualismo (che peraltro dopo Rawls ha raggiunto livelli di elaborazione filosofica molto avanzati), e che in un certo senso ci riescono, ma in un certo altro senso, uno più rilevante, sono invece del tutto impertinenti.

Generalmente la strategia di attacco contro il mio contrattualismo, ma non solo il mio, consiste nell’identificare, o nel costruire ad arte, situazioni reali o immaginarie in cui comandamento ‘sii altruista’ non porti a convenienza per chi lo segue. In questi casi si arriverebbe a soluzioni apparentemente contro-intuitive, tipo che danneggiare il prossimo per il proprio interesse possa essere moralmente legittimo. Insomma, io uso ‘collaborare conviene’ (nota bene perché dopo ci torneremo … in realtà io dico ‘collaborare conviene di solito’) come punto di partenza della mia riflessione; i miei avversari dialettici tentano di dimostrare che non è così con contro-esempi: “ci sono casi”, essi dicono, “in cui collaborare non conviene, e conviene anzi essere traditori, sfruttatori, prepotenti”.

Esaminiamo da vicino la formulazione di queste critiche.

La prima linea di attacco sviluppata in questo modo è di solito la seguente:

“Malgrado nella maggior parte dei casi sia vero che collaborare conviene, a volte tradire porta ottimi risultati per sé stessi. Per esempio, la maggior parte dei criminali hanno una vita brutta, ma alcuni di essi hanno grande successo e ricchezza.”

Rispondere a questa obiezione è molto semplice. Il fatto che a posteriori a volte la strategia ‘tradisci e danneggia’ porti benefici non significa che a priori non sia meglio scegliere la strategia ‘collabora ’. La maggior parte dei criminali e dei violenti vive una vitaccia. Poi c’è qualcuno cui la propria attività complessivamente frutta bene, ma non suggerirei mai a qualcuno di diventare criminale per avere successo nella vita, semplicemente perché quella strategia non è la migliore a priori.

Questa linea di attacco è dunque molto debole; il fatto stesso che la società esista vuol dire che è stata favorita dall’evoluzione, il che significa che stare in società conviene, e dunque che essere prosociali conviene, in linea generale. Passiamo oltre.

La seconda linea di attacco è anch’essa abbastanza debole ma, ehi, siamo ancora all’artiglieria leggera:

“Non è detto che la strategia collaborativa premi sempre, se sei il più forte puoi anche schiacciare il tuo nemico senza preoccupartene troppo.”

Questa è un’obiezione debole perché, di solito, anche il nemico più debole prova a difendersi e nel suo difendersi può danneggiarti; meglio evitare la violenza, in generale, perché richiama altra violenza. E poi non devi considerare soltanto il danno che può farti ribellandosi, ma anche i vantaggi che potrebbe portarti invece collaborarci. Se si può collaborarci, è quasi sempre più ragionevole farlo che rischiare di lottarci.

Ma attenti, finora era facile, adesso arriva l’artiglieria pesante. Terza linea d’attacco, molto più insidiosa:

“Sì, ma io ti posso dimostrare che anche a priori non è detto che collaborare sia sempre la strategia che premia. Per esempio immagina un alieno onnipotente e onnisapiente che venga sulla terra, così potente che rispetto a lui noi siamo come formiche: lui non rischia nulla a ‘tradirci’, perché tanto non abbiamo potere su di lui e non ha nulla da guadagnare dalla nostra collaborazione.”

Quest’obiezione è piuttosto seria (o almeno, lo è in una certa ottica che considero sbagliata che poi esamineremo), ed è una rielaborazione del mito dell’anello di Gige: un onnipotente ha ancora ragioni per essere ‘collaborativo’? In realtà, un alieno completamente onnipotente non ha nessuna ragione di sentirsi obbligato a comportarsi gentilmente con gli umani perché essi non hanno alcun peso contrattuale, intellettualmente parlando per lui è ragionevole sfruttarci come per noi è ragionevole sfruttare gli animali. Il ragionamento che io facevo sopra riguardo al rapporto fra uomo e altri animali vale pari pari qui per il rapporto fra alieno onnipotente e uomo.

Ma non dimentichiamo che il ragionamento è solo uno strumento che soppesa i vari interessi che ci spingono, i nostri moventi; dobbiamo anche valutare quali siano i suddetti moventi. E fra i nostri moventi esistono sentimenti come la pietà e la compassione: forse che gli animali non usufruiscono della nostra compassione? Possiamo dunque anche noi invocare la compassione e l’empatia dell’alieno per chiedere che ci risparmi, nonostante l’immenso squilibrio di potere. Questa può essere un’arma molto forte, in realtà, perché se l’alieno prova pietà probabilmente non si metterà a sfruttarci in maniera inumana. Essendo umani noi proviamo empatia, e anche questo è un determinante del nostro comportamento, da considerarsi insieme agli altri in ogni valutazione di carattere etico.

E fin qua avevo eroicamente resistito a tutti i vostri attacchi, anche all’ultimo, insidiosissimo e che un po’ mi ha anche scalfito.

Ma adesso mi sganciate l’atomica:

“Sì, ma immagina che questo alieno onnipotente di cui parlavo sia anche privo di qualunque sentimento umano. Allora sarebbe legittimato a fare di noi quello che vuole, e la tua idea che essere altruisti convenga nel suo caso crolla!”

Chapeau. Qui mi dichiaro sconfitto.

Siete contenti? Avete stiracchiato tanto le circostanze di applicazione che il mio sistema non funziona più. Ebbene devo ammetterlo, con Azatoth il Caos Primitivo, il Dio folle che dorme al centro dell’Universo gorgogliando blasfemità, e che se mai dovesse svegliarsi potrebbe inghiottire il cosmo intero in un solo boccone, la mia idea che l’altruismo sia la scelta più conveniente non regge più. Avete trovato un caso in cui la mia idea di cosa sia un comportamento morale non si applica, e il contrattualismo come metodo decade.

Ma vorrei attirare la vostra attenzione su come siete riusciti a fare una cosa del genere, su quali estremi avete dovuto invocare per riuscirci : tanto per cominciare, Azatoth non esiste, che noi sappiamo; e poi se esistesse ovviamente nessuna morale umana ci verrebbe molto in soccorso contro di lui.

Mi avete sconfitto … ma sospetto che abbiate usato contro di me strumenti così eccessivi che nessun sistema potrebbe sopravvivere al loro uso, neanche il vostro.

Esempio, supponiamo che applichiate un altro sistema morale, non contrattualista; magari uno con fondamenta meno solide del mio (mancante di motivazioni, ad es.) ma con applicabilità nominalmente più vasta. Dirò l’utilitarismo singeriano, per semplicità, ma varrebbe uguale anche, ad esempio, per il capability approach; entrambi hanno quella certa pretesa di universale applicabilità delle proprie prescrizioni morali ereditata dal kantismo, dunque vorrebbero di essere validi sempre e comunque. Effettivamente, siccome l’utilitarismo è una trovata completamente astratta, possiamo tranquillamente affermare che in astratto valga anche per Azatoth, che anche lui ‘dovrebbe’ comportarsi seguendolo, e dunque anche Azatoth dovrebbe cercare di diminuire la sofferenza e massimizzare il piacere nell’universo, senza attribuire in ciò maggiore considerazione a se stesso che agli altri senzienti.

Però Azatoth, essendo una folle divinità primordiale senza alcuna considerazione per l’esistenza umana, non segue l’utilitarismo.

Perché? Perché non ha letto Singer?

Penso che non cambierebbe idea leggendolo. È onnipotente e gode del caos e della distruzione, come potrebbe influire sulle sue scelte la semplice enunciazione di un principio astratto, quale che esso sia? Andremo a dibattere con Azatoth di diminuire la sofferenza dell’universo? “Signor Azatoth, guardi che non è buon costume divorare l’Universo in un solo boccone, e solo perché lei è una malvagia divinità primeva non può sentirsi autorizzato a farlo!”

Non credo che funzionerebbe.

Certo, possiamo divertirci a dire o pensare che Azatoth è ‘ingiusto’ e ‘immorale’, che è ‘il male’. Ma a cosa serve dichiarare immorale o malvagio un essere così? Non è più o meno la stessa cosa che dichiarare immorali e malvagi lo scorrere dei fiumi, o la pioggia, o la gravità, o le eruzioni vulcaniche?

Siamo arrivati a tirare in ballo Azatoth per far crollare il mio sistema, ma è più o meno come aver tirato in mezzo i terremoti. Mi viene il sospetto che possiamo esserci allontanati troppo dai casi concreti che ci interessano, specie se consideriamo che un po’ tutti i sistemi morali umani collassano di fronte ad un Azatoth, e molti, come appunto l’utilitarismo, collassano anche molto prima di tirare in ballo gli Dei Esterni.

Proviamo invece a riportare il ragionamento morale alle sue origini: l’etica dovrebbe servire a dirci come comportarci, giusto? Dovrebbe fornire prescrizioni di comportamento alle persone. Invece dal tipo di argomenti che i miei critici mi agitano contro, si direbbe che serva a tutt’altro; per la precisione, sembra che debba servire a fare prescrizioni al cosmo, che parli del ‘dover essere’ in assoluto, piuttosto che del ‘doversi comportare’. Ma ha davvero senso questo allargamento? Ma chi siamo noi per poter dire ciò che deve essere e ciò che non deve essere nel cosmo? Possiamo prescrivere ai fiumi di scorrere nelle direzioni che diciamo noi?

Possiamo costringerli a farlo. Ma non possiamo prescriverglielo, non abbiamo nessuna base per dire come dovrebbero comportarsi i fiumi.  Posso costruire una diga, ma non posso dire al fiume che deve riconoscere una qualche autorità e scorrere in una certa direzione.

Scopriamo dunque che quando parliamo di morale ci tocca ridurre le nostre pretese. Non ha alcun senso fare prescrizioni su cose che sono completamente fuori dal nostro controllo, innanzitutto: poiché non sono in nostro controllo, esse non devono riconoscere in noi un’autorità. Parimenti, poiché non sono in nostro controllo, noi non siamo responsabili di ciò che esse fanno.

Ma questo discorso vale soltanto per le imperscrutabili forze della natura? Controlliamo forse, invece, il comportamento di un dittatore straniero che stermina il suo popolo? Possiamo esercitare una qualche pressione su di lui, questo sì, ma sostanzialmente non lo controlliamo, fa ciò che sceglie di fare. Ma mettiamo pure che io sia il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più potente del mondo: allora forse avrò gli strumenti che servono per minacciare questo sovrano, per costringerlo a smettere … ma ancora una volta, non avrò ‘autorità’ su di lui, starò soltanto usando la forza; non ho diritto, ho solo potere. Allo stesso modo, controlliamo forse il nostro vicino di casa? Abbiamo autorità su di lui? No. Non abbiamo, in ultima analisi, nessuna autorità, nemmeno sui nostri figli. Nessuno in linea di principio deve rendere conto a noi di ciò che fa; ogni singolo ente sulla terra in realtà nel suo profondo ci è imperscrutabile ed alieno non meno di Azatoth stesso.

Non è diverso pretendere di prescrivere comportamenti ad un vulcano o ad un nostro vicino di casa. Entrambi, in realtà, non obbediscono che ad una propria legge di funzionamento interna; che può essere parzialmente simile alla nostra, come nel caso del vicino di casa, o incomparabile, come quella di un vulcano. Ma in ogni caso non è la nostra, è la loro. Dobbiamo abbassare ancora le nostre pretese: niente al mondo deve rendere conto a noi di come si comporta, e come non deve renderne conto a noi, non deve a nessun altro.

Con un’eccezione.

Io ho pieno controllo e piena autorità su me stesso. Dunque devo rendere conto a me stesso di ciò che faccio.

Cosa dovrei fare io nella mia vita, dunque, lo decido io ed io soltanto, e solo a me devo renderne conto.

E qui si inserisce tutta la mia teoria sull’etica della responsabilità: ho doveri solo verso me stesso, e solo su me stesso ho autorità. Dunque il mio unico dovere è servire bene me stesso e i miei interessi.

Ma, sottolineo, bene.

In questo senso, e su questo background, si inserisce la proposta contrattualista, che si basa sull’idea di trovare nel consenso verso un set di regole comuni  il modo migliore per servire i propri interessi. È un bellissimo attrezzo: di solito una persona responsabile e ragionevole, che operi in direzione del proprio benessere, è anche una persona che sta in società con altruismo e rispetto del prossimo.

Sempre, comunque, in ogni circostanza possibile ed immaginabile?

Questo, accidenti, NO. È sempre possibile almeno immaginare un caso in cui non vada bene. Se cercate di applicarlo ad Azatoth non funziona. Azatoth è onnipotente e per lui l’intero esistente è privo di valore, ovvio che non abbia alcuna ragione di collaborare con gli umani.

I miei critici sembrano convinti che questo mandi in crisi il mio contrattualismo.

Come ho detto prima, in  un certo senso è vero, ma in un altro non lo è per niente. Se io proponessi il contrattualismo come legge del dover-essere del cosmo o addirittura di ogni cosmo possibile, ovviamente un solo contro-esempio in cui non valga tale legge la manda in pezzi. Ma io non ho mai avanzato questa pretesa. Non ho mai detto che in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza, in ogni luogo del cosmo, le cose debbano funzionare secondo le prescrizioni del contrattualismo.

È uno strumento, tutto lì. Funziona per certe cose, per altro non funziona. Non propongo il contrattualismo come legge assoluta del dover essere, e, spero che a questo punto sia diventato chiaro, neanche come legge assoluta dei comportamenti umani.

Ciò che propongo come legge assoluta dei comportamenti umani è un’altra, ed è l’etica della responsabilità. Ecco, qui vi sfido a trovare un contro esempio, anche solo immaginario. Non ci riuscirete: resta vero in qualsiasi universo possibile che un qualsiasi individuo cosciente abbia certi interessi, certi motivi, certe avversioni o timori, e certi mezzi da mettere in gioco orientati alla realizzazione dei suoi motivi; ed è sempre vero che la sua azione derivi da aver soppesato tutti questi contributi; ed è ancora sempre vero che, per definizione, gli convenga soppesare bene.

Anche Azatoth deve soppesare bene. Non è vero però che per lui soppesare bene conduca a “collaborare”; e in generale non vale sempre e comunque, e non ho mai sostenuto il contrario. Io dico solo che questa è una buona approssimazione che di solito funziona con le persone e che io generalmente uso, e penso che regga veramente tanto bene, anche se sottoposta a stress-test estremi.

Quindi mentre la mia etica è sempre e rigidamente un’etica della responsabilità, è un’etica contrattualista solo nella stragrande maggioranza dei casi. Non in tutti quelli immaginabili, e neanche in tutti quelli reali.

“Ma tu come giustifichi i casi marginali?”, “ma tu come ti comporteresti con gli alieni?”, “ma cosa faresti se scoprissimo una nuova specie intelligente?”, “ma se sei disposto a sperimentare su animali, allora saresti disposto a sperimentare su umani stupidi come gli animali?” eccetera eccetera … Quante volte le ho sentite queste domande.

Ragazzi, ci sono un milione di motivi per cui un gatto è diverso da un Down o da un neonato o da un autistico. E adesso vi do un’altra notizia bomba: il Down, l’autistico e il neonato sano … sono diversi fra di loro anch’essi, e questo giustifica diversi trattamenti e anche diversi livelli di diritto! Per discutere di quali siano si deve entrare nel dettaglio, e li ci si perde, non si può trovare un principio unico e categorico che ci dica come fare in tutti i casi. Possiamo provare ad applicare il contrattualismo, ma non squadrare di forza tutti i casi che incontriamo in modo che lo soddisfino. Il mio contrattualismo “specista” nelle condizioni attuali funziona; suppongo che se apparisse una nuova specie intelligente andrebbe un attimino ridefinito, ma qual è il problema in ciò?

Non dico che i problemi etici sollevati dai miei critici non siano potenzialmente interessanti, ma non smuovono di una virgola la sostanza. Io vi garantisco che il semplice contrattualismo nudo e crudo non giustificherà tutti i comportamenti umani che osserviamo né può sempre essere seguito alla lettera. Io vi garantisco che spesso va integrato. E io discuterò con voi volentieri ogni caso particolare che mi mettiate davanti in cui riteniate che il principio sia di dubbia applicabilità: può darsi che vada modificato in quei casi.

Ma vi garantisco anche che prima di lasciarlo cadere per intero non basterà qualche contro esempio. Esprimendomi in termini familiari agli scienziati, è solo un modello. Non è vero o falso, è solo utile o meno utile; quando è utile lo uso, quando non lo è più ne uso un altro. Io credo che il contrattualismo sia un bellissimo modello, ma non sono disposto a legarmi ad esso con un patto di sangue.

E questo mi porta a rispondere ancora ad un’ultima obiezione: “ma tu, Alberto, hai fatto spesso delle critiche all’antispecismo basate sul portare ad estremi assurdi le sue tesi; eppure non sei disposto a portare alle estreme conseguenze la tua teoria, il contrattualismo”.

Il punto qui è che io sono disposto a portare a qualsiasi estrema conseguenza il mio punto centrale, il concetto di responsabilità. Quello sì, provateci: regge a qualsiasi stress test; oserei dire che è esatto per definizione.

Ma non sono disposto a portare alle estreme conseguenze il contrattualismo, ovvero la forma specifica con cui applico di solito il concetto di etica della responsabilità, ma questo perché non ho mai preteso che dovesse funzionare così perfettamente. Se vi vendono un orologio subacqueo garantendovi che regge fino a 100 mt di profondità,  e voi lo portate a 150, potrebbe rompersi, ma è colpa vostra, non di chi ve l’ha venduto, non era mica fatto per 150 mt. Io vi dico che il contrattualismo di solito funziona, ma ascolto volentieri i vostri contro esempi in cui non funzionerebbe secondo voi e sono ben disposto a discuterne; non vi ho garantito che funziona sempre.

Ma i filosofi antispecisti non ragionano così. In particolare, l’argomento dai casi marginali, di cui ho già trattato, è un esempio del modo di ragionare opposto: essi criticano tutte quelle dottrine che a vario titolo attribuiscono peso maggiore all’uomo che all’animale (fra cui lo stesso contrattualismo) stiracchiando le condizioni di applicazione fino a che il sistema non si rompe (“e se abbiamo un bambino autistico down anencefalico come ti comporti?!”). A quel punto, dopo aver rotto il tuo sistema, ecco che arrivano con la loro proposta e si fanno vanto, come il mio detestatissimo Singer, di aver fatto un sistema che invece non si rompe mai.

Criticano il mio orologio perché a 1000 mt si rompe … Io direi che una resistenza fino 1000 mt è un risultato ragguardevole, ma loro sostengono che l’orologio che ti vendono loro sia migliore sulla base del fatto che invece, sempre secondo loro, non si rompe mai.

Sorvoliamo sul fatto che magari il loro orologio costa di più, e magari non mi serve scendere più in basso di 1000 mt , quindi sarebbero soldi sprecati e basta  (la seguite la metafora, sì?). Sorvoliamo su questo, diciamo che davvero il fatto che il loro orologio non si rompa mai sia utile per me.

Be’, possono aspettarsi a questo punto che io lo porti a 1001 mt per vedere se è vero che non si rompe mai. Anzi, lo porto a 2000, a 10000, a 100000, a centomila miliardi di metri: hanno detto che non si rompe mai; bene, vediamo se è vero.

E invece, come dimostravo per esempio qui, o qui, si rompe eccome.

Non solo, anche molto facilmente.

Ossequi.