Razionali, razionalisti?

10 07 2016

 

Il sito dell’UCCR, “Unione Cristiani Cattolici Razionali” è uno dei miei bersagli preferiti, lo trovo troppo divertente, seppure mi faccia in contemporanea un po’… come dirlo … Mi faccia un po’ senso, ecco. Ma non sono l’unico a trovarlo divertente, soprattutto per via dell’ovvio ossimoro di dichiararsi “razionali” e poi metter su un sito che è fra le dieci maggiori repository italiane di bufale, fallacie logiche e nonsense.

Fa sorridere anche pensare al fatto che il nome vorrebbe rappresentare uno spoof, una presa in giro, dell’UAAR, Unione Atei Agnostici Razionalisti. Gli UAAR si ritengono razionali, sì, ma anche razionalisti. Con il loro nome gli UCCR accusano delicatamente ma inequivocabilmente gli UAAR di essere razionalisti, cosa molto brutta e cattiva, ma non razionali come sarebbero  loro.

Ora, non staremo qui a sottolineare di fronte al mio pubblico, che generalmente ha una certa cultura ed intelligenza, l’ovvietà che l’UCCR non è razionale in nessun senso del termine (seppur del termine “razionale” torneremo a discettare). Piuttosto vorrei discutere due aspetti che non sono altrettanto ovvi: possiamo dire che l’UAAR sia razionalista, e che l’UCCR invece non lo sia?

La risposta a questa domanda è secondo me tutt’altro che scontata. Diciamo che l’appellativo di essere “razionale” piace un po’ a tutti; è molto neutro e sembra un complimento, tutti vogliono definirsi razionali; gli atei di ferro dell’UAAR però ci tengono a definirsi razionalisti, mentre gli integralisti cattolici dell’UCCR ci tengono a prendere le distanze da quella definizione.

Come spesso facciamo su queste pagine, partiamo da questo spunto per un discorso di respiro molto più ampio. Da questa dicotomia comunicativa fra UAAR e UCCR possiamo infatti provare a desumere una vulgata, un luogo comune, un’idea o un quadro di pensiero così diffuso da essere dato quasi per scontato nel pensiero moderno.  Cerchiamo di desumere, insomma, cosa dice quella che gli integralisti religiosi amano chiamare la “cultura dominante” (onde potersi vantare di non farne parte), e poi valutiamo se questa diffusa idea sia effettivamente fondata.

Tutti vogliono essere razionali, dato che tutto sommato non significa niente di preciso. Gli UCCR mandano affanculo tutta la comunità scientifica mondiale ma ancora si fregiano del titolo; stanti così le cose è evidente che lo usano più o meno come sinonimo di “furbo e intelligente dal mio punto di vista” e nulla di più. “Razionalisti” dovrebbe voler dire qualcosa di più preciso, ovvero un affidarsi in maniera preponderante allo strumento della ragione, un credo stentoreo nell’ordine razionale del mondo e nella capacità della mente umana di penetrarne il disegno in maniera completa. Ovviamente, lo strumento principe della ragione è la scienza, dunque il razionalista in teoria è anche uno che crede con fermezza nel metodo scientifico. L’ateo è naturalmente razionalista, o incline ad esserlo? E il credente, il credente è naturalmente irrazionalista o incline ad esserlo?

La vulgata comune è che sì, è così. Perfino gli UCCR, il cui lavoro consiste praticamente per intero nell’usare giochi di prestigio per cercare di far passare l’idea che la scienza sia sempre dalla loro, non ritengono di essere razionalisti. Avvertono, come tutti, la sensazione che “ragione e fede sono cose separate”.

Ecco la vulgata, ecco il luogo comune indistruttibile; il pensiero che ti fa fare gli applausoni se lo dici in un talk show serale, insomma. Sicuramente il credere in Dio e il credere nella ragione e nella scienza sono cose separate che procedono su sentieri separati e trattano oggetti di ricerca separati.

È a partire da questo assunto che praticamente tutti i discorsi su religione e ragione vengono affrontati oggidì. Ci sono minoranze di “incompatibilisti” più o meno radicali, convinti che fede e ragione, approcci separati e diversi l’uno dall’altro, si litighino un campo che dovrebbe appartenere ad una sola delle due. Il sottoscritto è un incompatibilista ateo, ad esempio: la scienza è ciò che serve, non c’è spazio per la fede. Gli integralisti protestanti di stampo americano, come i loro epigoni italiani aderenti di solito alle chiese pentecostali, sono invece incompatibilisti credenti: la Bibbia ci spiega il mondo, non c’è spazio per la satanica scienza. Ma a parte questi casi, più di frequente abbiamo a che fare con compatibilisti che affermano che sì, scienza e fede sono cose separate, ma che proprio in virtù della separazione possono convivere pacificamente. Dunque io credo nella creazione MA ANCHE nell’evoluzione. Credo nella morale sessuale cattolica, MA ANCHE nella coppia omosessuale.
I compatibilisti, in qualche modo, cercano sempre di tenere il piede in due scarpe. Alcuni lo fanno saltellando da una scarpa all’altra, come ad esempio Renzi e Vendola in politica, o come Vattimo in filosofia. Altri indossano la scarpa della razionalità sulla testa a mo’ di cappello e vogliono definirsi ancora razionali, come appunto l’UCCR; altri ancora fanno la stessa cosa con la scarpa della religione ma definendosi ancora credenti o quanto meno neutrali, come ad esempio molti nel CICAP.

Ci sono mille contraddizioni particolari nell’approccio compatibilista, andare ad elencare casi specifici è sparare sulla Croce Rossa, e la gente non mi legge per sentirsi dire banalità del tipo “ma che cattolico sei se sei a favore dell’aborto?” o “ma che razionale sei se ogni volta che la scienza non è d’accordo con te la scarichi nel cesso?”
Il mio punto non è il modo in cui questi attriti fra fede e ragione sono affrontati oppure svergognatamente negati; il punto è che tutti sono d’accordo che fede e ragione siano cose separate. Tutta la discussione che segue è una semplice disputa territoriale: dove si applica la fede, e dove la ragione? L’UCCR non vuole dirsi razionalista perché è convinto che ci siano ambiti su cui la ragione reclama territorio che però vanno consegnati alla fede (nel caso specifico, praticamente tutti). L’UAAR vuole dirsi razionalista perché ritiene che sia la fede che reclama spazi non suoi (anche qui, praticamente tutti).

Ma se invece fede e ragione fossero la medesima cosa? Se essere razionalisti ed essere fideisti fossero tutto sommato sinonimi, o al massimo modi diversi di guardare allo stesso approccio filosofico? Qualcuno l’ha mai considerata questa possibilità?

Sì: nel Medioevo, TUTTI. Nel Medioevo, era QUESTA la vulgata: ragione e fede sfumano l’una nell’altra, non v’è cesura né disputa territoriale alcuna.

Una delle argomentazioni più idiote usate dai credenti per sostenere che la scienza sia dalla loro anche quando non lo è è copiare-incollare un elenco di famosi scienziati credenti che gira in rete da anni, e probabilmente continuerà a girare sempre uguale anni dopo la mia morte: “visto quanti scienziati credenti? È perché non è vero che la scienza contraddice la fede”. L’argomento è chiaramente demenziale per una serie di ragioni, prima fra tutte il fatto che nella lista ci sono prevalentemente scienziati vissuti secoli fa in un mondo, quello della scienza, in cui sei le tue posizioni diventano già obsolete dopo un anno da quando sono state espresse; ma ancora più demenziale è la risposta che danno di solito gli atei a questo demenziale argomento:  “erano credenti solo perché se no lì  bruciavano!”

Chiariamoci: è vero, non conveniva a chi avesse la pelle sensibile al fuoco dichiararsi atei nel ‘600, per dire. Ma chi dica che gli scienziati del passato erano credenti solo perché costretti è uno che non ha letto niente di quello che costoro hanno scritto.

Farò un esempio per tutti; prendiamo Cartesio, da molti considerato iniziatore del razionalismo e fra le altre cose grandissimo matematico. Cartesio era un gran paraculo che non pubblicava niente senza essere sicuro al 100% di non rischiare l’Inquisizione; quindi sì, è vero che era in qualche misura costretto. Però, leggetelo tutto. Il sistema di Cartesio dipende da Dio per funzionare. Seppure Pascal “accusasse” Cartesio di aver costruito un sistema che poteva fare a meno di Dio eccetto “per fargli dare un colpetto per far iniziare a muovere il mondo”, quest’accusa è ingiusta a leggerla oggi. È vero che l’universo di Cartesio è meccanicista e può sembrare che non abbia bisogno di Dio per andare avanti, ma se guardiamo con più attenzione vediamo che Dio è la toppa che Cartesio mette su tutti i buchi del suo sistema, che altrimenti lo farebbero crollare. L’esistenza del mondo esterno, che Cartesio aveva sottoposto al suo dubbio iperbolico, viene salvata attraverso il ricorso a Dio: la garanzia che il mondo esiste è Dio; senza Dio Cartesio è impantanato come una zanzara sulla carta moschicida.

Dunque si mette diligentemente all’opera e prova logicamente l’esistenza di Dio. Come avevano fatto quasi tutti i filosofi prima di lui, peraltro!

Di prove dell’esistenza di Dio oggi non si parla più, e quando se ne parla vanno per la maggiore i miracoli. Dal punto di vista filosofico ciò è buffo, perché i miracoli per definizione non provano niente e infatti i razionali filosofi medioevali usavano un armamentario argomentativo molto più raffinato. Tuttavia è comprensibile se si ricorda la vulgata odierna su fede e scienza: la prova è un concetto scientifico, ricordiamoci che oggi fede e scienza sono considerate rigidamente separate, dunque non si può e non si deve tentare di dar prova di Dio; anche perché se sottoponi Dio al processo della prova lo sottoponi anche al rischio, o meglio alla certezza, della controprova. Per questo oggi i credenti citano prevalentemente i miracoli, ovvero non cercano di provare qualcosa di positivo muovendosi all’interno del pensiero scientifico e razionale, ma piuttosto di scardinare la logica scientifica ed il concetto stesso di prova attraverso l’eccezionale. Per la ragione, che si sforza disperatamente di dare al mondo delle regole, le eccezioni, le imprecisioni, le fluttuazioni, sono una minaccia, un’elemento di caos; ed è lì, in quello spazio pertinente al non-razionale, che i credenti cercano di ritagliare il proprio spazio in opposizione alla ragione, nella posa dichiarata o velata del nemico della ragione.
Ma questo atteggiamento, almeno da parte dei credenti un po’ più intellettualoidi, è abbastanza giovane in senso storico. Non dimentichiamoci che c’è stato un tempo in cui tutti i filosofi, che erano spesso anche scienziati  e comunque i massimi intellettuali del tempo, citavano prove positive e logiche dell’esistenza di Dio. Una di esse, quella ontologica, è semplicemente e palesemente ridicola e ammetto che mi sorprende che qualcuno possa averla seguita davvero anche solo per un momento …  Ma le altre, e mi riferisco soprattutto alla prova cosmologica della “causa prima” e quella fisico-teologica basata sull’ordine razionale del mondo, avevano una logica abbastanza stringente, specialmente la seconda.

Ora, non possiamo accusare Cartesio di essere ateo, quando infilava Dio pure nell’insalata. Nemmeno possiamo accusarlo di essere un irrazionalista: è considerato il padre del razionalismo! E nemmeno possiamo fare quello che piacerebbe ad alcuni credenti, ovvero riconoscergli di essere riuscito a conciliare l’inconciliabilità fra fede e ragione, perché sanno anche le capre che il suo sistema filosofico di fatto era un colabrodo. Il punto è un altro, e cioè che Cartesio non vedeva ancora alcuna distinzione netta fra fede e ragione; sfumavano l’una nell’altra. Cartesio risolveva i problemi logici del suo sistema invocando Dio, e il suo sistema a sua volta provava l’esistenza di Dio. Non stava cercando di conciliare fede e scienza, erano già unite nel momento in cui il sistema era stato concepito. Be’, certo, i gemellini monozigotici stavano iniziando a separarsi in quel periodo, Cartesio probabilmente lo stava vedendo ed è forse l’ultimo che tenterà seriamente di tenerli insieme come succedeva ai bei vecchi tempi. Ma nel suo sistema sono ancora uniti.

Il chirurgo che li separerà per sempre ha, ai miei occhi, il nome di Blaise Pascal. Oggi uno degli idoli dei credenti e di tanti compatibilisti, è forse l’iniziatore, o comunque uno degli avvocati più convinti, del luogo comune di cui dicevo: scienza e fede sono separate. La ragione è sovrana su questioni di ragione, ma deve riconoscere che “ci sono infinite cose al di là di essa”. Su queste cose regna invece la fede, ma attenzione, anche lei non è autorizzata a sconfinare! Il moto dei fluidi lo decide sempre la ragione!
Quali siano le questioni di scienza e quali quelle di fede a questo punto è disputa territoriale, e su questo argomento ci stiamo ammazzando a vicenda ancora oggi, ma è ormai chiaro che sono cose diverse e trattano di cose diverse. La scienza ha un suo regno e la fede ne ha un altro.

Ora guardiamo questi due soggetti: l’ultimo ad essere convinto che scienza e fede fossero una cosa sola, e il primo a dire che non è così. Guardiamoli dal punto di vista psicologico.

Domandiamoci: sono razionali?

Come tutti gli esseri umani, sono razionali a corrente alternata, ma fintanto che non avremo chiarito meglio il termine “razionale” riconosceremo loro che, a parte qualche cazzata come alcune prove dell’esistenza di Dio di Cartesio e la scommessa di Pascal, erano due cervelli abbastanza rigorosi.

Sono razionalisti?

Cartesio di sicuro, ma Pascal molto di meno. Entrambi credono che il mondo abbia un ordine razionale che può essere penetrato dalla mente umana; hanno una fiducia fortissima nella ragione, ma è solo Cartesio ad essere convinto che vi sia ragione ovunque e che essa sfumi naturalmente e comodamente nella fede. E razionalisti quasi come Cartesio erano anche tutti i filosofi cristiani medievali che prima di lui avevano tentato di provare l’esistenza di Dio; non sempre erano razionali, ma sempre erano razionalisti. Anche Anselmo quando scriveva quella robaccia ridicola della prova ontologica lo faceva evidentemente con una fiducia grandissima nel potere della ragione (forse non infinita, diciamo, quello no, ma quella penso neanche Dawkins ce l’abbia). Il famoso “intellego ut credam“, è il motto; ragiono per credere, il ragionamento mi porta naturalmente a credere. E la ragione sembrava indicare inequivocabilmente che Dio c‘era; anche perché se no come spieghiamo il fatto che ci sia questo unico mondo al centro dell’universo intorno al quale tutto gira? Come la spieghiamo l’esistenza della vita e la differenzazione della specie, senza Darwin? Dio è una soluzione abbastanza ragionevole, se proprio ci serve una spiegazione per tutto.

Ma ci serve proprio una spiegazione per tutto?

Nel loro rigido razionalismo, i filosofi medioevali erano alla ricerca continua di una spiegazione per tutto; non riuscivano a fare a meno di una spiegazione.

Questo è un punto importante all’interno del razionalismo, e va spiegato. Prendete la prova della Causa Prima sull’esistenza di Dio; la conoscete, no? Poiché ogni cosa ha una causa, la catena delle cause degli eventi andrebbe naturalmente all’indietro all’infinito; ma ciò è inaccettabile, allora è necessario postulare una causa prima incausata, Dio.
Il difetto di questa prova è evidente: se postuliamo una causa incausata stiamo semplicemente contraddicendo la premessa principale, e cioè che ogni cosa debba avere una causa; e se non è vero che tutto deve avere una causa, allora posso anche decidere che il mondo è iniziato in una grande esplosione senza nessuna causa. “Ma come? E il Big Bang cosa l’ha causato?” è una domanda legittima e naturale, ma non più e non meno legittima e naturale di “e Dio chi l’ha creato?”

Attraverso la questione della causa prima ci rendiamo conto, semplicemente, che ci sono quesiti indecidibili, domande che non hanno una soluzione, fatti che non ce l’hanno una spiegazione. Non a caso, si tratta di una delle aporie sottolineate da Kant: tanto “esiste una causa prima” quanto “non esiste una causa prima” sono soluzioni inaccettabili al problema della regressione infinita delle cause.

E Kant era proprio un nome che bisognava fare a questo punto, perché se Cartesio è l’ultimo vero razionalista puro, Kant è il primo esponente di un razionalismo nuovo, quello cui si rifanno coloro che si definiscono razionalisti oggi. Un razionalismo basato sulla critica della ragione alla ragione stessa. Il kantismo è la ragione che critica sé stessa e si riconosce limitata, e accetta in qualche misura di stare dentro ai propri limiti. È finita l’era della ragione assoluta, la ragione che ordina ogni cosa e che deve spiegare ogni cosa, ed è così ossessionata dal dover spiegare tutto che è pronta anche a spiegarlo male … per esempio rispondendo “l’ha fatto Dio” ogni volta che è in difficoltà.

Il sistema kantiano è filosoficamente molto problematico; ciò nonostante, Kant è oggi probabilmente il filosofo più amato dagli scienziati, perché il suo approccio è lo stesso dello scienziato: navighiamo a vista, lavoriamo per spiegare quello che riusciamo a spiegare, ma non illudiamoci di riuscire a soddisfare mai la ricerca infinita della ragione; lo scienziato vive per le domande molto più che per le risposte. È questa la ragione per cui quando sento dire che “la scienza non può spiegare tutto” come argomento in favore dell’irrazionalismo, sorrido sempre: tutti gli scienziati sanno che la scienza non può spiegare tutto, non foss’altro che perché non vivremmo abbastanza da riuscirci; il senso della scienza non è tanto spiegare tutto, quanto provarci sempre.

Dunque la ragione che sta dietro alla scienza moderna non è una ragione onnipotente, assoluta e onnicomprensiva. Quel tipo di ragione che vuole assolutezza a tutti i costi non può che, in pieno spirito hegeliano, degenerare nel suo perfetto contrario: irrazionalità.

Il che ci conduce finalmente a quella che è la mia risposta al quesito iniziale sul razionalità e razionalismo. Uno scienziato ateo, oggi, forse non dovrebbe dirsi razionalista, perché se ha fatto i compiti a casa di filosofia dovrebbe sapere che la ragione è uno strumento intrinsecamente limitato utilizzato da esseri intrinsecamente limitati per riuscire a gestire meglio le loro vite intrinsecamente limitate. Se il razionalismo è la fiducia senza confini nella ragione che tutto inquadra, tutto spiega e tutto fa funzionare a puntino come un meraviglioso orologio cosmico, uno scienziato ateo non può dirsi razionalista, in senso filosofico. Dovrebbe invece dirsi razionale.

Ma parliamone, adesso, del termine “razionale”, che finora abbiamo lasciato abbastanza in ombra. Ho detto prima che si tratta di una generica denotazione di cui la gente piace vantarsi, come “bello”, “intelligente”, “simpatico”. Son tutti termini che a conti fatti indicano qualcosa di molto vago. Ma si può dare un significato più preciso al termine?

Penso di sì, ma mentre al termine “razionalismo” possiamo dare una collocazione di tipo filosofico, il termine “razionalità” dobbiamo calarlo in un contesto psicologico; non è una posizione filosofica ma un atteggiamento della persona. Io intendo la razionalità come l’uso corretto e circostanziato della ragione all’interno dei suoi ambiti; insomma, quello che ispira il criticismo e il metodo scientifico. E alla base del criticismo c’è proprio il ridimensionamento della fiducia nella ragione; come diceva Pascal, la ragione deve riconoscere che ci sono cose al di là di essa. Quindi direi che in questo senso il razionalismo, che invece vuole sottomettere tutto alla ragione, non può essere razionale.

Ma attenzione, non può esserlo neanche l’irrazionalismo.

Torniamo a Pascal. Lasciamo stare per un momento il Pascal filosofico, e guardiamo al Pascal psicologico, che è praticamente il paradigma psicologico dello “scienziato credente” e delle sue contraddizioni, tormenti e a volte del suo infantilismo. Pascal ci diceva che al di là della ragione ci sono molte cose. Quasi tutte, potrei aggiungere io che su quel punto sono d’accordo; la ragione si può applicare in maniera parziale a molti problemi, ma forse non può risolverne in maniera completa nemmeno uno. Quindi ok, ci sono confini ben precisi alle potenzialità e all’uso della ragione. Ma al di là della ragione cosa c’è?

C’è il caos, c’è il dionisiaco, c’è il movimento incessante e incontrollabile della vita e delle passioni. Questo è ciò che c’è al di là della ragione. Lasciare la ragione significa scendere a patti con quel po’ di follia che attraversa come un filo invisibile tutto l’esistente. Ma Pascal non intendeva questo: al di là dell’ordine razionale basato sulla scienza, egli vedeva l’ordine religioso basato sulla fede. Un ordine non meno rigoroso, e anzi più rigoroso; non meno pervasivo, e anzi più pervasivo; non meno pretenzioso, ed anzi più pretenzioso; un ordine basato sulla rigidità del dogma, sulla gerarchia della Chiesa, sulla fissità dei testi Sacri, sul rigore dei documenti conciliari, sulla punizione attiva dei dissidenti.
Pascal il caos non lo tollerava proprio. Lo vedeva, certo che lo vedeva, mica era scemo; una persona così ossessionata dall’ordine non può fare a meno di vedere se c’è qualcosa di così fuori posto come “una canna che pensa”. Ma una persona così ossessionata dall’ordine non può neanche vedere qualcosa di così fuori posto senza andare subito a raccoglierla, piegarla per bene e infilarla in un cassetto. Ed è quello che ha fatto lui.

Proprio nella famosa scommessa emerge nella forma più chiara il tentativo di Pascal di costruire un argine all’ignoto e al caos come obbiettivo primario: la sua priorità è niente di meno e niente di più che trovare un modus operandi che massimizzi una funzione di profitto; una formula vincente per l’esistenza. Pascal non tenta di applicare a tutto la ragione strictu sensu, e in questo si differenzia da Cartesio. Ma, esattamente come Cartesio, vuole applicare a tutto un ordine gestibile.

Attenzione, ovviamente ordine e ragione sono cose diverse in senso logico; ma spesso vengono scambiate nel discorso. Per esempio, come spiegavo qui, quelli che si scagliano contro il “gender” dicono di farlo in nome della ragione, ma in realtà agiscono bellamente contro la ragione, e piuttosto sotto la spinta della brama di un certo ordine costituito riguardo ai ruoli di genere che oggi non è affatto razionale; e molti ambienti “progressisti” che si scagliano contro la scienza in realtà la scambiano semplicemente con un ordine costituito che non amano, nello specifico, l’ordine capitalistico. Questo accade perché, in senso psicologico, la ragione è una forma di ordine, o forse potremmo addirittura dire che è la forma d’ordine per eccellenza. La ragione è lo strumento principale che rende il cosmo prevedibile e gestibile. Chi è mosso da amore per la ragione di solito ama anche l’ordine (e mi ci metto dentro anche io), e viceversa di solito chi odia la ragione odia anche l’ordine. Ma non è regola assoluta; anzi, addirittura è perfettamente normale aspettarsi che l’amore eccessivo dell’ordine finisca col diventare irrazionale.

Pascal voleva mettere tutto in ordine; resosi conto che non poteva farlo con la sola ragione, allora la completò con la fede. È condivisa fra Cartesio e Pascal un’autentica “ossessione razionalizzante”, ovvero un’ossessione non tanto per la ragione ma per l’ordine che essa porta con sé; un’ossessione che è molto comune fra i filosofi anche oggi, in particolare fra quelli di scuola analitica. E all’apice dell’evoluzione di questa figura psicologica del “filosofo razionalizzante” sta Kierkegaard. In lui l’ossessione per trovare un ordine si rovescia, dialetticamente, nel suo perfetto contrario: gettare alle ortiche ogni ordine e abbracciare l’assurdità. La contraddizione è reale e insanabile in senso logico ma, in senso psicologico, fila magnificamente: nella mente di Kierkegaard la razionalità più totale è distruggere la ragione: gli estremi alla fine si toccano. O tutto è ragione o niente lo è; e il motto non è più “intellego ut credam“, bensì “credo quia absurdum“, credo perché è assurdo. In Kierkegaard è rimarchevole che ciò si verifichi all’interno di un quadro di assoluta consapevolezza, qualcosa che troveremo poi anche in Nietzsche, un altro, questa volta ateo, che passò dal venerare la ragione al gettarla alle ortiche. Ma nella maggior parte dei filosofi odierni lo scambio fra ragione assoluta e irragionevolezza assoluta si verifica silenziosamente, e in questo silenzio si nasconde il suo pericolo, poiché nella ricerca degli “assoluti” riposa il germe della distruzione di ogni adeguazione fra pensiero e realtà.

Come ci si può salvare da questo pericolo costante?

Be’, la risposta è una specie di uovo di colombo al contrario: facilissima da spiegare, difficilissima da mettere in atto.

Bisogna fare gli equilibristi: camminare sempre in bilico sul muretto che separa il caos delle cose dall’ordine dei pensieri, guardando e ponderando ogni passo, sempre pronti a tornare indietro e a correggere il tiro.

Questa non è nient’altro che la pratica giornaliera della vita, il gioco cui tutti quanti già giochiamo, volenti o nolenti. Un gioco incredibilmente difficile, basato tanto su ragionevoli scommesse quanto su imprevedibili colpi di fortuna e sfortuna; un gioco in cui siamo giocatori quanto pedine, che spesso controlliamo ma che altrettanto spesso non controlliamo.

Credo che la maggior parte dei filosofi anche odierni, come Cartesio e Pascal, lavorino incessantemente più che altro per cercare di trovare la formula vittoriosa, il trucco, il cheat, il codice segreto da infilare nel gioco che permetta di evitare di dover pensare ogni mossa con tanta fatica, di dover passare ogni momento a cercare di comprendere e gestire l’incomprensibile che abbiamo sia dentro che fuori, e infine di prendersi la responsabilità dei successi e dei fallimenti collegati alle proprie scelte.

“Cosa è morale?”; ecco una tipica domanda dei filosofi.

“Dipende da un milione di fattori: da ciò che vuoi, da ciò che senti, da chi sta intorno a te, dalle circostanze esterne e dalle circostanze interne; insomma da così tante cose che di solito è impossibile definire in maniera univoca il comportamento moralmente giusto.”; ed ecco, questa era la risposta corretta.

Ma ammettiamolo, sono molto più semplici da mettere in atto risposte tipo “è il comportamento che tu vorresti vedere divenire legge universale”, o “è il comportamento che minimizza la sofferenza complessiva” oppure ancora “è quello che dice la Chiesa”. Per quanto tutte queste risposte richiedano comunque un certo sforzo di “calcolo” dietro (legge universale in che senso? E come si misura la sofferenza? E la Chiesa, ma quale delle tante, e quale delle tante anime interne ad essa?), hanno comunque ristretto il numero di variabili da analizzare da “innumerevoli” a “numerabili”. Che, seppure a scapito della correttezza, risparmia un sacco di tempo. E in ciò, e solo in ciò, sta l’attrattiva ineliminabile di queste risposte-trucchetto.
Mentre di forma ti chiedono di usare in qualche modo la ragione per trovare le risposte che vuoi nella vita, di fatto ti  chiedono in realtà di usarla a regime minimo. E anche quando ti dicono, se te lo dicono, “ci sono cose al di là della ragione”, in realtà non si riferiscono al caos e all’imprevedibilità dell’esistenza e alla necessità di accettarli, no. Si riferiscono a fattori numerabili, ordinati, ordinabili e gestibili attraverso un utilizzo minimo delle nostre facoltà. La scommessa di Pascal: risolvere l’esistenza dell’uomo in dieci righe e un’equazione.

Se questa è la razionalità, il mio consiglio è di lasciarla perdere: siate irrazionali.

 

Ossequi.

 

 

 

 

 

 





Quel deficiente di Cartesio

21 05 2015

La filosofia degli animal rights ha bisogno di nemici, ovviamente. Il nemico designato è quasi sempre Cartesio; il mostro incompetente, piaga della filosofia occidentale e padre dello ‘specismo’, che ci ha convinti che gli animali sono robot incapaci di sensazioni ed emozioni. Non si può assistere ad una conferenza di qualche filosofo animalista senza sentire la frecciatina a quell’idiota patentato di Cartesio, smentito platealmente dalle recenti scoperte dell’etologia (recenti scoperte? Che gli animali abbiano sensazioni è una scoperta “recente” di cui possiamo vantarci rispetto ai nostri stupidi antenati? Ma per favore…).

E tuttavia, tutte le volte che ho domandato ai miei interlocutori di citarmi un passo di Cartesio in cui egli affermi che gli animali sono privi di sensazioni ed emozioni, ho visto occhi che si incrociano.

Cartesio non è il filosofo più brillante né il più chiaro della storia del pensiero occidentale. Ma che fosse un completo deficiente non lo credo. Il mio contributo alla discussione su Cartesio e gli animali sarà solo la seguente citazione da una lettera al marchese di Newcastle:

Se insegnate ad una gazza a dire ‘buongiorno’ alla sua padrona quando la vede arrivare, tutto ciò che potrete avere ottenuto sarà aver fatto dell’emissione di quella parola l’espressione di una delle sue sensazioni. Per esempio sarà un’espressione della speranza di mangiare, se l’avete abituata a ricevere un premio quando la pronuncia.  Similmente, tutte le cose che si fanno fare ai cani o ai cavalli o alle scimmie sono semplicemente espressione della loro speranza, della loro paura, della loro gioia; e conseguentemente possono fare queste cose senza alcun pensiero.

Grassetti miei.

Quindi secondo Cartesio gli animali potevano provare paura, gioia, speranza, ‘passioni’ in generale. Cartesio riteneva il pensiero razionale la più elevata e complessa funzionalità del cervello, non dimentichiamocelo; è per questo che invocava a sua spiegazione la res cogitans. La filosofia e la scienza di oggi hanno teso ad invertire la prospettiva: oggi quello che Chalmers chiama l’hard problem della coscienza è considerato essere la possibilità stessa dell’esperienza soggettiva, la capacità di sentire, dunque. Il pensiero razionale, rispetto a quella capacità essenziale che permette di ‘essere soggetto’, è oggi generalmente visto come un fenomeno secondario e assai meno complesso filosoficamente. Ma Cartesio non la vedeva così; a torto o a ragione riteneva più interessante la questione della capacità di pensiero razionale, cosa che secondo lui non poteva essere spiegata in termini meccanicistici.

Se sorvoliamo su questa sua ingenuità, scopriamo che ha ben ragione Dennett piuttosto a notare quanto interessante sia il pensiero di Cartesio sulla coscienza degli animali: essi sono, a tutti gli effetti, automi capaci di sentire, il che ha collegamenti molto interessanti all’attuale pensiero sull’Intelligenza Artificiale. Gli uomini sono anch’essi, come tutti gli altri animali, automi capaci di sentire (sì, è questo il meccanicismo cartesiano: anche i viventi sono macchine, uomo incluso); ma in più hanno la res cogitans, sono dunque capaci di pensiero razionale, il che li distingue dagli animali. Sono capaci, in particolare, di fare meta-pensiero, di dire ‘cogito, ergo sum’.

Al di là delle implicazioni metafisiche piuttosto fantasiose il pensiero di Cartesio era completamente diverso da quella infantile parodia costantemente presentataci dagli animalisti, e non solo: era anche molto corretto. Resta vero che la capacità più peculiare dell’uomo è il pensiero astratto, e nessun’altra specie animale possiede questa dote a livelli paragonabili di sviluppo.

Che gli animali siano capaci di sensazioni e di emozioni lo sappiamo tutti benissimo, non è una scoperta geniale degli animalisti. Cartesio non era un deficiente incapace di rendersene conto e nessuno di coloro che, come me, si oppongono alla filosofia degli animal rights, è all’oscuro del fatto che gli animali siano capaci di sensazioni ed emozioni simili in molti aspetti a quelle degli umani.

Semplicemente, non lo riteniamo il punto centrale della discussione.

Animalisti, facciamocene una ragione, vi va?

Ossequi