Barbie e il problema dell’identità

9 08 2023

Esce Barbie, il film evento di Greta Gerwig. Un film che scatena delle controversie, particolarmente riguardo alla sua trattazione di temi come il femminismo e il patriarcato, e attira addirittura da parte di alcuni l’accusa di essere un film misandrico, che “odia gli uomini”

Personalmente credo che abbia perfettamente ragione chi rigetta, almeno in parte, questa tesi e sottolinea che Barbie non è un film sul femminismo o sul patriarcato, ma sull’identità e gli stereotipi. È stra-vero. Femminismo e patriarcato sono temi di Barbie, ma non sono il tema di Barbie. Il tema di Barbie è l’identità.

Tuttavia, è proprio lì che Barbie mostra più gravemente i suoi limiti, nonchè i limiti dell’ideologia che gli sta dietro.

Il messaggio finale di Barbie è “trova la tua identità al di là di ogni stereotipo di genere”.
Bisogna riconoscere al film una certa coerenza in questo. È vero, sì, gli stereotipi legati agli uomini, ai Ken patriarcali, sono molto più severamente criticati di quelli legati alle Barbie, e in questo c’è una chiara asimmetria. Quest’accusa è valida e fondata. Ma fermarsi lì significa mancare il punto: Barbie effettivamente ce l’ha con gli stereotipi di genere, tutti. Diciamo che ne odia alcuni un po’ più di altri, ma il messaggio è coerente.
E non è un messaggio nuovo o originale o rivoluzionario. Di questi tempi, in effetti, è il messaggio più banale di tutti, praticamente tutti i film che escono hanno lo stesso messaggio ed è il messaggio di cui si è appropriata la critica sociale progressista, che si sintetizza in: bisogna abbattere gli stereotipi, gli stereotipi sono oppressivi, gli stereotipi sono il nemico.

Ma ecco… ne siamo sicuri?

Intendiamoci: essere forzati in ogni modo a entrare in un certo schema è doloroso. Sentirsi forzare addosso un’identità è una pena infinita, quanto dover indossare a forza scarpe due taglie più piccole. Se non lo so io che sono omosessuale bipolare e in odore di Asperger. E tuttavia, proprio in quanto io in quegli schemi non sono mai riuscito a stare, so anche come ci si sente nel momento in cui ti trovi fuori da ogni schema, in cui ti sei in qualche modo “liberato”. Per un omosessuale quel momento è il coming out, e per alcuni può essere un momento molto delicato. Puoi trovarti a uscire da una gabbia in cui sei stato per anni o lustri o decadi… e ti trovi libero ma nel deserto, perché non hai indicazioni su come ricostruire la tua immagine, la tua vita e, soprattutto, ti manca il punto di riferimento più importante: una comunità di gente simile a te.
In realtà la comunità esiste, ovviamente, ma devi andartela a cercare e la parte più divertente è che, non appena ti riesca di trovare una comunità che un po’ ti somiglia… ecco che essa ti accoglie ma ti suggerisce anche caldamente di rientrare in una serie di schemi: ecco come essere un maschio omosessuale, ecco come essere una lesbica modello eccetera. Rispetti questi requisiti, di certo faciliteranno l’elaborazione della sua candidatura.

Questa mia non è da intendersi una critica ad una specifica comunità ma solo come un esempio che dice tanto, perché ogni comunità fa questo, è il prezzo per starci dentro. Ogni comunità ti fa pressione per aderire a degli schemi. A volte questa pressione è più pesante o perfino schiacciante, come nei totalitarismi, a volte è più leggera, ma non ci sono eccezioni a questa regola: si deve stare assieme, si deve cercare di trovare cosa da fare assieme, idee da condividere, musiche da ascoltare eccetera eccetera. Quindi, schemi in cui rientrare. Non sei costretto a rientrare in tutti gli schemi, ma ogni schematismo che ti renda riconoscibile e ti faccia parte di un gruppo facilita l’integrazione.
Non è per forza un male, questo: stare assieme agli altri in una comunità ci serve per definirci anche come individui, ma per stare insieme agli altri dobbiamo anche abbracciarne alcuni schemi.
E questi schemi sono quelli che poi diventano gli stereotipi, e non sono tutti quanti il male assoluto, dipende da con quanta forza siano imposti e quanto siano esclusivi e totalizzanti. Per dire, la società tende a proporre ai maschi di interessarsi agli sport competitivi, c’è un po’ di pressione in tal senso. Ok, io li odio: mi sia data la possibilità di rifiutare la proposta. Ma, personalmente, non sento come oppressivo il fatto in sé che ci sia questa proposta privilegiata rivolta ai maschi. L’alternativa è essere senza proposte o direzioni, e non è detto che non avere neanche proposte sia meglio. Per questo gli adolescenti formano branchi in cui ascoltano tutti la stessa musica e vestono tutti allo stesso modo, perché è quella la via attraverso cui si possono “identificare” e, alla fine, trovare un equilibro fra il sé la comunità. Quei quadri di riferimento, al livello di proposta, di indicazione, tornano utili.

Ma secondo alcuni questi schemi, tutti questi schemi, sono malvagi e da combattere. Greta Gerwig pare pensarla così. Il pensiero femminista cui Barbie si ispira è dichiaratamente non soddisfatto dal sapere soltanto che le donne non sono più obbligate a diventare madri, e che non ricevono più neanche grosse pressioni sociali in tal senso. A questo femminismo non basta che quegli schemi non vengano imposti, non chiede altri schemi alternativi, modelli più vari e differenziati a disposizione (altrimenti la bambola Barbie, con tutte le sue infinite variazioni sul tema, dovrebbe essere una soluzione più che soddisfacente), bensì è insoddisfatto che esistano schemi e modelli, punto. Una donna, ma anche un uomo, non deve guardare un film, leggere un libro, vedere un cartellone pubblicitario, ascoltare un podcast, e trovarvi un’indicazione su come costruire la propria identità sessuata. Se succede è il male, è l’oppressione, è… boh? Il patriarcato?

Ma qui Barbie diventa strano, perché l’umore che traspare dal film non è il senso di oppressione dovuto a stereotipi invasivi, quanto il disorientamento di chi si sente senza indicazioni. In questo senso, il monologo femminista contro il patriarcato che il film ci propone sembra curiosamente schizofrenico, o quanto meno diretto al nemico sbagliato. Il patriarcato non mette le donne in nessuna “dissonanza cognitiva”, come il film lo accusa: sotto il patriarcato le donne devono essere mamme o suore o al più puttane; dove sarebbe la dissonanza cognitiva? Mi pare chiarissimo e lineare: sei una cittadina di serie B che deve fare faccende di casa e sfornare bambini. Sotto il patriarcato il problema delle donne che “devono comandare ma non essere troppo cattive”, o che “devono avere i soldi ma non posso chiedere soldi” non esiste: sotto il patriarcato comandano gli uomini e gli uomini hanno i soldi, le donne lavano i piatti, se no che patriarcato è? Qual è questo patriarcato in cui le donne hanno il potere e il denaro? Quanto meno, uno in PESSIMA salute. Di che stiamo parlando? E d’altro canto, il discorso tira delle chiare bordate proprio al femminismo, come il problema di “riconoscere che il sistema è truccato [in favore degli uomini] e al contempo esservi grata”. La richiesta di “riconoscere che il sistema è truccato” non viene certo dal patriarcato, viene dal femminismo; il patriarcato ti vuole “grata” e basta, di certo non ti crea nessuna dissonanza cognitiva chiedendoti anche di metterlo in discussione. Greta Gerwig, insomma, pare turbata dal femminismo tanto quanto dal patriarcato. Da Barbie come dai bambolotti. Il disagio espresso da quel discorso sembra, paradossalmente, piuttosto collegato alla crisi del patriarcato: alla confusione che deriva da un mondo che il giorno prima ti dava indicazioni fin troppo dirette e severe e che da un giorno all’altro ti lascia da solo, o in questo caso da sola, a dover decidere chi diventare senza alcuna direttiva.

E questo in effetti è Barbie. La bambola, intendo. Un simbolo di infinita potenzialità, di illimitate possibilità identitarie, la donna che può essere tutto e proprio per questo non sa più chi essere. Il simbolo della piena autodeterminazione che però porta con sé anche lo smarrimento, il senso di inadeguatezza di chi si trova capitano di una nave durante una tempesta e il giorno prima era il mozzo.

Barbie è un film che confonde e che non ha una lettura semplice e univoca e che ha scatenato reazioni contrastanti, e credo che questa sia la ragione: Barbie è fondamentalmente un film contraddittorio, senza orizzonti chiari. Vuole denunciare tutti gli schemi che sono oppressivi e dannosi, eppure al fondo esprime col suo linguaggio il disagio che deriva da non avere schemi. Per questo le Barbie col “cervello lavato” dai Ken stanno così bene: hanno degli schemi molto precisi e semplici. E quando esse vengono “liberate” non è perché il monologo ha rivelato le contraddizioni della loro condizione – che non ci sono: sono univocamente subalterne – bensì ha creato delle contraddizioni. Perché la libertà ha in sé il contraddittorio, il paradosso, l’incertezza, l’equilibrismo.

E l’unico modo in cui il film riesce a passarla liscia in questa contraddizione è perché manca completamente di pars construens. Ken rinuncia agli stereotipi della virilità e ad essere un riflesso di Barbie, ma non abbiamo diea di cosa ne sarà dopo di lui. Barbie decide di diventare umana e coltivare la propria identità, ma non abbiamo idea di come lo farà, di che tipo di donna diventerà. Se la mia esperienza dice qualcosa, per loro la parte più difficile rischia di essere proprio quella che viene adesso. E con difficile, intendo: potrebbero trovarsi a rimpiangere i tempi più semplici.
Nessuno si accorge di quanto Barbie sia confuso e non sappia cosa vuole davvero, perché il film si ferma nel momento in cui dovrebbe dare la risposta più importante: chi saranno Barbie e Ken, ora che sono usciti dagli stereotipi?
Greta Gerwig non ritiene di avere responsabilità di dare una risposta. Ci limita a dirci che è molto complicato essere umani. Cosa che sapevamo già. È sufficiente? Specie dopo che ce lo dicono tutti i film usciti negli ultimi vent’anni? Chi va a distruggere gli schemi già noti non ha la responsabilità di suggerire a propria volta una via alternativa? Basta scaricare sul pubblico questo compito a casa?

No. Per me no.





Se il MOIGE fosse femminista

30 09 2021

Voglio spendere due parole sul caso tragicomico delle accuse di sessismo verso lo scultore Emanuele Stifano, reo di aver ritratto la Spigolatrice di Sapri appena velata, di modo che se ne vede il fondoschiena più o meno come fosse nuda.

Alla fine di questo post, sarà necessario innanzitutto che vi chiediate tutti come siamo arrivati a questo.

Il nudo si è sempre utilizzato nell’arte senza bisogno di particolari giustificazioni, semplicemente perché il corpo umano è affascinante per gli artisti. Stifano scolpisce quasi sempre nudi e ha dichiarato che fosse stato per lui la spigolatrice l’avrebbe fatta proprio nuda, perché è il suo modo di lavorare (e se guardate le altre sue statue, come il Palinuro, vedrete che è vero). Perfino quella professoressa che per giustificare la tirata moralista ha dovuto tirare in ballo il “decorum” ( il buon vecchio “senso del pudore” il cui oltraggio è punito per legge e che si usa proprio per censurare i capezzoli delle donne), diventata virale su facebook per l’enorme numero di parole con cui è riuscita a dire “è un’indecenza signora mia”, ha ammesso che quell’uso del nudo è sedimentato nell’arte, forse consapevole che se lo avesse negato si sarebbe giocata qualsiasi straccio di credibilità in questo campo.

L’idea che mostrare il culo su una statua sia in sé, solo perché si è mostrato il culo (manco fosse un fallo eretto o una vagina bagnata) “sessualizzazione” è una barzelletta, è di una stupidità quasi commovente, spingerebbe a fornire un sussidio di invalidità a chi la propone.

I più furberrimi infatti se ne accorgono e inventano dunque giustificazioni più fantasiose ed elaborate per il loro “signora mia, che indecenza oggigiorno!”, tipo: “il problema non è il culo, è che un culo troppo sexy” (non come quello dei bronzi di Riace, del David, o le tette della Libertà di Delacroix, che sono tutti cessi); “il problema è che il culo non ha a che fare con il tema della statua” (mentre il pisello di fuori del David è integrale al mito biblico, e di certo non puoi rappresentare adeguatamente l’allegoria di Libertà senza mostrarne il seno); “le spigolatrici non si vestivano davvero così e non avevano il culo così allenato” (mentre i guerrieri greci notoriamente andavano in guerra seminudi e avevano il pene di un bambino di otto anni). Argomenti che farebbero ridere se non facessero piangere: sono gay, io, ero cresciuto in un mondo in cui la sinistra appoggiava la liberazione sessuale, in cui il progressista provocava e scandalizzava talora anche gratuitamente, e ora mi tocca vedere la schiera dei progressisti trasformatisi in zelanti guardiani del “decorum”… O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo.

Se dovessimo prendere sul serio quelle argomentazioni, si dedurrebbe che tutti costoro siano disposti ad accettare il nudo artistico come idea, sì: ma solo come una cosa del passato, defunta, che sta nei testi e nelle sculture antiche; se uno si permette di fare nudo artistico oggi – e quindi applicando standard estetici contemporanei – è una specie di mostro pervertito. Che coincidenza: tutti gli standard estetici della storia vanno bene e non sono sessualizzazione… tranne quelli che piacciono a noi italiani del 2021.

Forse ai nostri critici sarebbe andato bene se Stifano avesse scolpito una donna coi fianchi un po’ più larghi e il seno più piccino, insomma imitando di maniera gli standard neoclassici? Domanda che non avrà risposta, ma “devi per forza farla nello stile che piace a me se no è immorale” è comunque una pretesa che non puoi avanzare ad un artista: Stifano scolpisce nudi ispirandosi all’idea del corpo perfetto, e dunque renderà il corpo perfetto secondo standard che sono più o meno consapevolmente i suoi e del suo tempo: non ottocenteschi, non greco-classici. Certo, avrebbe potuto voler usare uno stile che evocasse nella mente l’immagine esatta della donna ottocentesca di ceto basso, magari ispirandosi a dipinti e sculture del tempo, e quindi creare la donna ottocentesca perfetta secondo l’uomo dell’ottocento, insomma darci una rievocazione ottecentesca, insomma ottocentare l’ottocento con l’ottocentazione dell’ottocento ottocentizzato… Avrebbe potuto. Invece ha fatto una scelta artistica diversa: enfatizzare quello che lui vede come corpo femminile archetipico. Ovviamente, non è davvero “archetipico” nel senso di universale e atemporale… ma nessuno degli archetipi femminili ritratti nell’arte classica è davvero al di sopra del suo tempo, l’arte è influenzata dal suo contesto anche quando si ispira all’idea di eterno, e quando il millenial pensa al corpo femminile in quanto tale non gli viene certo in mente quello della Primavera di Botticelli.

È quasi penoso vedere tanti omini e donnine arrampicarsi sugli specchi per dare interpretazioni diverse dell’opera, ma è davvero così semplice: è un nudo artistico, si è sempre fatto e non è che rappresentare un culo è più o meno sessista a seconda dei canoni estetici cui quel culo risponde; al massimo può renderlo sessista una posa provocante, un contesto ambiguo… ma non certo il fatto che sia bello o brutto, secco o ciccione, sodo o cadente.

In effetti, la Venere Callipigia citata da alcuni è già un esempio di una statua molto più erotica, ambigua e seducente della Spigolatrice, pur se non ha “il culo di una pin-up”. Sì, avete letto bene, tutti voi che dite che NON BISONNIA PARAGONALLLEEE SONO TOPPO DIVESSE; forse avete ragione, sono molto diverse: nella Venere c’è dell’erotismo, la posa è morbida e lei si guarda proprio le chiappe richiamando l’attenzione su di esse, mentre la spigolatrice è rigida come un palo, una posa quasi militare (sicuramente una scelta artistica precisa, visto che celebra il Risorgimento) che è estremamente anti-sesso. La verità è che tutto questo preteso “erotismo” e questa immaginaria “sessualizzazione” non discendono in alcun modo dalla posa o dall’espressione ritratti nella statua; essi derivano, nell’anima dei critici, dalla sola somma di due fattori: nudità e avvenenza. Se una donna è nuda ed è bella, automaticamente è “sessualizzata”. Mi raccomando, potete stare nude solo se siete brutte. E se qualcuno di voi si sta chiedendo se forse il vero pervertito non sia colui che di fronte ad un bel nudo femminile è capace solo di pensare alle scopate che ne discendono, mi spiace: siete maschilisti.

In realtà quella che nudo+bellezza=porno è una posizione del tutto insostenibile, e visto che i critici non possono affrontare direttamente questo snodo, il fatto che l’opera sia chiaramente un nudo non-erotico, perché farebbe naufragare la polemica in un oceano di peti mentali, allora ci si gira intorno. La trovata più brillante è quella di chi cerca di imitare (parodiare) Wilde e dice “la statua è innanzitutto brutta”, e poi aggiunge subito dopo “ed è anche immorale” (sì, esattamente come avrebbe fatto Wilde! Wilde coniugava sempre giudizi estetici e condanne morali). Come se il bacchettone fosse in realtà un esteta, come se le ragioni dell’immoralità affondassero in quelle della bruttezza, così fai lo slalom fra le – a quel punto ovvie – accuse di moralismo censorio che ti saresti guadagnato di diritto. No, lo sapete benissimo che non è vero, non la trovate né solo né principalmente “brutta”; ne siete principalmente offesi. Se davvero la riteneste solo brutta, se davvero il vostro fosse solo un giudizio di gusto, non giustifichereste le accuse pagliaccesche di sessismo verso l’autore, come quelle di Laura Boldrini, invece siete tutti a bordo di quella barca infame. Siete come quelli che quando sentono del black humor arruffano le penne e dicono “non mi piace non perché è immorale, ma perché non fa ridere!”. Tesoro, la ragione per cui non ti fa ridere che sei troppo impegnato a scandalizzarti, perché sei un cazzo di moralista bacchettone rompipalle, non perché se troppo intelligente e hai un gusto particolarmente raffinato, come vorresti farci credere.

… Ma visto che sempre di moralismo bacchettone si tratta, c’è qualche differenza fra questo moralismo di sinistra e il classico moralismo cristiano-conservatore tipo MOIGE, o è proprio la stessa cosa sotto un’altra veste?
Una differenza c’è: che dal punto di vista etico questo metodo qui è molto peggio, e la chiave di lettura per capirlo ce la dà la cheerleader di ogni battaglia cazzona, Lorenzo Tosa. Leggiamo le parole di questo genio:

“[…] non posso credere che qualcuno davvero non riesca a capire la differenza enorme tra libertà sessuale e sessualizzazione della donna.
La differenza tra la scelta delle donne e la scelta dell’artista (stranamente uomo).
Che non capiate la differenza tra una donna che, liberamente, sceglie di mostrarsi nuda o svestita senza dover chiedere il permesso a nessun uomo o marito o dover rendere conto a bigotti e bacchettoni e una statua che dovrebbe rappresentare una contadina dell’800 e ideali risorgimentali, e non certo gli stereotipi estetici di un maschio contemporaneo o un catalogo di Victoria’s Secret.”

Ecco il pezzo che ci mancava! Vedete, il vero problema, se ci fossero dubbi, non è il fatto che un artista del 2021 usi standard estetici del 2021 – anche se, dai, che il problema sia quello come scusa pare quasi convincente, se uno ha il QI a due cifre – piuttosto è che l’autore è un uomo. Se la stessa identica statua l’avesse fatta una donna, Tosa sarebbe lì in prima fila a difendere l’alto valore etico, artistico ed emancipatorio dell’opera.
Dando così una luce tutta nuova al concetto stesso del “fare due pesi e due misure”.
Nel pensiero morale classico fare due pesi e due misure è considerata la più abominevole aberrazione morale, perché contravviene alla base di ogni ragionamento etico: il principio di equità. Ma se quella distorsione la travesti da lotta progressista per l’uguaglianza, se ad essere ingiustamente discriminato e vittima di gratuito pregiudizio è il Mostro del momento, ovvero il famoso “maschio bianco eterosessuale” (parliamo di archetipi! Ma sarà eterosessuale, Stifano?), ecco che fare due pesi e due misure non solo è giustificato, ma è perfino nobile, doveroso, e sono sicuro che possiamo tirar fuori un Foucault, un Derrida o qualche altro filosofo francese per spennellare questa idiozia di una patina di finezza intellettuale.

E se qualcuno di voi ha un brividino nel vedere che si stia vendendo per elementare discorso morale la madre di tutte le aberrazioni morali, ovvero il giudicare un atto non in base a intento e impatto ma sulla sola base dell’identità di chi lo compie, se lo tenga stretto quel brivido, perché questa è l’etica che ci vende la sinistra nel 2021, e va sorvegliata strettamente perché tenterà, tenta già, di imporla a tutti.

Caro Emanuele, il mio suggerimento è: la prossima volta resta anonimo e firmati Emanuela. Non solo potrai continuare a ritrarre uomini in tutte le pose e velature che desideri (mai stato un problema, sono solo maschi dopotutto), ma potrai anche ritrarre le donne in qualsiasi posa desideri, anche piegate a novanta con un uccello in bocca e uno dietro ed un tatuaggio sul culo che dice “FUCK ME”; sarà empowering.

Almeno per un po’; perché la triste verità è che qui neanche le donne sono davvero al sicuro…

Ossequi





Montanelli era pedofilo?

16 03 2019

 

No.

Questa era la risposta breve e per quanto mi riguarda, se vi basta, chiudete qui.

 

Altrimenti vi do una spiegazione più lunga.

Sapete che ogni tanto internet fa delle “scoperte”, no?

Le scoperte sono generalmente una roba che si sapeva da almeno cinquant’anni, ma che l’altro ieri è stata condivisa su facebook da qualcuno di famoso che a sua volta l’ha scoperta due giorni fa ed è convinto di aver inventato internet.

La scoperta in questione è che un famoso giornalista italiano, Indro Montanelli, defunto diciotto anni or sono, aveva “comprato” e sposato in Etiopia una moglie locale, una ragazza di dodici anni.

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Monumento a Montanelli vandalizzato da alcune attiviste femministe.

Lui non si sforzò mai di nascondere la faccenda e addirittura ne parlò con nonchalance (forse in effetti eccessiva) in un’intervista in TV, durante la quale una femminista (che in seguito divenne nota per l’omofobia e per il supporto a Berlusconi), tale Elvira Banotti, lo accusò di aver stuprato una bambina. Alcune attiviste femministe hanno fatto la “scoperta” e hanno dunque deciso, visto che andare a dirgliele a Montanelli non era più possibile, di imbrattarne una statua di rosa. Con un risultato che se chiedete a me è pure carino.

Ora, siccome sto per parlare di un argomento altamente isterogenico faccio subito due chiarimenti. Chi legge per favore vi ponga attenzione perché non li ripeterò due volte:

 

  • Non mi interessa santificare Montanelli.
  • Non mi interessa dare una giustificazione acritica del suo comportamento.
  • Non mi interessa dare un giudizio di valore sulla pratica del madamato né del colonialismo in senso lato.
  • Non mi interessa nemmeno dare addosso alla Banotti, seppure sarebbe un’occupazione delle più piacevoli.

 

Se questi sono i temi che vi interessano smettete di leggere qui perché non li tratterò.

Tratterò esclusivamente quell’unico tema che è nel titolo, e cioè se il comportamento di Montanelli possa essere classificato come pedofilo. Lui si giustificò molto semplicemente dicendo che, a quell’età, in Abissinia erano già donne. È questa difesa accettabile?

Ecco la mia risposta.

Dicevo che quest’argomento è isterogenico. Ricordate che gli integralisti cattolici piantarono, e ancora oggi ci piantano, grane pazzesche sul terribile GENDER nelle scuole e sulla stepchild adoption? Notate come ogni tre per due gridano alla minaccia della pedofilia che ormai secondo loro sarebbe praticamente ovunque in occidente?

Ecco, in realtà però tutta la loro campagna contro l’educazione sessuale nelle scuole si basò sulla minaccia della pedofilia, o più in generale: dell’esposizione del bambino al sesso; ma il fatto che la suddetta campagna abbia anche avuto un notevole successo, così come che sia stata giocata la carta pedofilia in prima battuta, è prova provata dell’esatto contrario di quanto vorrebbero suggerirci: in realtà la nostra società è incredibilmente sensibile, non a caso ho usato il termine “isterica”, sul tema della sessualità infantile, e anche adolescenziale. E lo è oggi molto di più che in passato. Il fascismo non era certo un regime progressista, eppure, o forse proprio per quello, Montanelli agiva con benedizione fascista, e in generale la pratica di far sposare le figlie molto giovani, secondo gli standard odierni, è vecchia come il mondo: Maria Antonietta si sposò a quattordici anni, per fare un esempio. Anche oggi, nella nostra Italia l’età del consenso per avere rapporti sessuali è quattordici anni, una delle più basse d’Europa ma non la più bassa: ci supera la Spagna con tredici anni. E queste non sono trovate moderniste della lobby gay e delle femministe, l’esatto contrario: sono residui di epoche passate, e femministe e gay sono forse quelli più impegnati nel cercare di farceli cancellare.

Mi preme insomma sottolineare che la battaglia per ritardare ancora e ancora e ancora l’età della maturità sessuale non è una battaglia conservatrice o reazionaria; un conservatore genuino, verosimilmente, vorrebbe tornare a vedere gente che si sposa e sforna figli a quattordici anni. È, piuttosto, un tratto tipico delle civiltà occidentali modernizzate e “progressiste”. E su questo fronte, invece di farci più flessibili, ci stiamo facendo sempre più moralisti. Ha raggiunto toni da farsa il caso di Asia Argento, che dopo essere stata molestata da Weinstein, è stata accusata di molestie da Jimmy Bennett, un ragazzo che ai tempi in cui ebbero il presunto rapporto sessuale era probabilmente consenziente… ma non ha importanza, perché aveva sedici o diciassette anni (scusatemi, non ricordo di preciso) e dunque era minorenne, e in molti stati USA questo basta a configurare lo stupro. In una svolta quasi parodistica, Bennett è stato poi accusato di molestie da una sua ex con la stessa scusa: lei era minorenne e lui no. Poco importa che fossero ben al di sopra dei quattordici anni che stabilirebbe, invece, la legge italiana…

Insomma, rispetto alla California, noi italiani siamo un popolo di maniaci pedofili. E provateci voi a dire che non è così: i primi che vi salteranno al collo saranno femministi e queer. Non siamo abbastanza avanti e moderni noi italiani, nella caccia alle str… pardon, nella battaglia ai mostruosi pedofili!

E uno di questi mostruosi pedofili parrebbe essere (stato) Indro Montanelli, perché “una dodicenne è sempre e comunque una povera infante, indipendentemente dal contesto culturale, dal luogo dall’epoca”.

E questa è una mostruosa CAZZATA. È così chiaramente non vero.

Una lezione di biologia, ora: che cos’è l’infanzia, in senso biologico?

Si tratta di quel periodo nella vita di un individuo sessuato durante il quale esso non ha la maturità biologica per riprodursi.

I confini di questa condizione sono molto chiari: un giorno non sei in grado di riprodurti, pochi giorni dopo il processo è compiuto e ne sei perfettamente capace. E se quel momento è meno facile da identificare per i maschi (Platone diceva “deve crescergli il pelo sul viso”, se no è pedofilia), nelle femmine corrisponde al menarca.

Volete davvero qualcosa che non cambi da cultura a cultura? Beh, la biologia non cambia da cultura a cultura, quindi eccovi accontentati: l’infanzia di una bambina è, in qualsiasi cultura, tutto ciò che c’è prima del menarca. Dopo è una donna.

E molto di frequente a dodici anni una il menarca lo ha già avuto.

“Ma come, Alberto?! Stai dicendo che una ragazzina di dodici anni è sempre psicologicamente matura per avere rapporti sessuali, o addirittura per sposars?!”

Assolutamente NO. Sto dicendo che spesso ha avuto il menarca, è quindi è BIOLOGICAMENTE matura, è BIOLOGICAMENTE una donna. E dunque sempre BIOLOGICAMENTE non sei un pedofilo se sei un maschio etero e ne sei attratto: verosimilmente avrà anche già il seno, il pelo nei posti giusti, i fianchi formosi. Non esattamente le caratteristiche per cui i pedofili escono pazzi. E questo vale davvero in qualsiasi cultura e tempo e luogo, perché è biologia.

Ovviamente, al di là della biologia, in senso psicologico una dodicenne può benissimo non essere matura. Ma quello è appunto un fatto psicologico: per via delle condizioni culturali in cui è vissuta, è rimasta psicologicamente bambina e dunque esserne attratti assume una sfumatura pedofilica sempre in senso psicologico, nel senso che implica un rapporto di superiore maturità mentale di un partner rispetto all’altro.

Ma ecco dove ha perfettamente ragione Montanelli: questo ultimo aspetto dipende dalla cultura.  In Etiopia a quei tempi (forse anche oggi?) vigeva una cultura che trattava le ragazze sin dopo il menarca come donne, dunque pronte ad avere rapporti sessuali e a sposarsi. In quel contesto culturale lì, insomma, la dodicenne era donna a tutti gli effetti, e non puoi sentirla definire “bambina” dalla Banotti di turno o sentirti dare di pedofilo perché ci sei stato, è assurdo.

Che l’universo progressista si sia gettato a spolpare l’osso di dare di pedofilo ad uno sepolto da vent’anni, solo perché si è adattato ai canoni di una cultura diversa, rivela molte delle contraddizioni di questo universo. Un universo che combatte il razzismo e lotta per l’accettazione della diversità… Ma si deve prima o poi confrontare con una diversità che non si manifesta nel modo in cui si cuoce la pasta, ma nel modo in cui consideriamo, per esempio, il rapporto fra età e sesso. E lì si rivela che in realtà non riusciamo ad uscire dalle nostre categorie e siamo pronti a dichiarare che interi popoli e intere culture sono popoli e culture pedofile.

Forse avremmo dovuto castrare chimicamente tutta l’Africa?

 

Ossequi.





Parliamo di Incel

2 06 2018

Il tema è diventato molto di moda. Non posso esimermi dal dire la mia a riguardo…

Detesto dover dare troppo background su un problema che vorrei approfondire. Sarò dunque molto conciso in questa parte, e googlate, se siete disorientati dal termine del titolo: il “movimento” Incel è quello costituito dai cosiddetti Involuntary Celibate, Celibi involontari. In sintesi, gente, prevalentemente di sesso maschile, che non riesce ad avere una vita sessuale. In realtà generalmente chi si autodefinisce incel ha problemi un po’ più profondi e caratteristiche più peculiari di così. Specificamente, direi che l’aspetto più interessante dell'”ideologia” incel è una complessa e cervellotica teoria sociobiologica secondo la quale la loro (indubbiamente sgradevole) situazione deriva da una serie di limiti biologici. Per farla breve, le donne sono “ipergamiche”, ovvero aspirano a fare sesso con maschi che siano attraenti (ricchi e/o belli) almeno quanto loro o di più. I maschi invece saranno ben disposti a far sesso anche con donne non particolarmente attraenti, sempre per ragioni biologiche.  Questo farà sì che, come usano dire loro, se le donne vengono lasciate libere di scegliere, finirà che il 10% degli uomini farà sesso col 90% delle donne, il che condanna loro, uomini poco attraenti, ad uno stato di minorità naturale.

La peculiarità, che avrete notato, di questa visione del mondo delle relazioni è la visione rigidamente “commerciale” della cosa, che dunque non lascia spazio all’intimità o al sentimento. Probabilmente è proprio questo il vero, più grosso problema degli incel. Quello, e una grossa dose di misoginia che non li rende esattamente dei bocconcini appetitosi per le fanciulle. E anche il fatto che occasionalmente un incel faccia una sparatoria costituisce un po’ un problema di immagine.

Ma fin qui, fino al dire che gli incel hanno spesso dei problemi psicologici seri, e che tutto questo teorizzare astruso non fa altro che alimentare circoli viziosi psicologici che sono concausa del loro status, ci arrivano tutti. Ancor più facile è dare del pazzo ad uno che ammazza dieci persone perché non scopa. Appunto, è molto facile e lo fanno già tutti.

Io, invece, voglio sempre andare un passo in là. Non mi posso fermare a dire che questi tizi sono semplicemente dei pazzoidi con dei disturbi di personalità, che i loro problemi non sono veri problemi, che dovrebbero prendere la cosa diversamente eccetera. Anche perché la risoluzione di un problema non può passare dal rinnegarlo. Si consideri, per far già piazza pulita di alcune semplificazioni un po’ sciocche, che qui parliamo spesso di gente che a quarant’anni è vergine; ecco, se arrivi a quel livello lì non è neanche strano che ti venga voglia di fare una carneficina, dai di matto. Il drive sessuale è uno degli istinti primari dell’uomo, è irrinunciabile; se non riesci a soddisfarlo come e quanto vorresti ci stai male, e se non riesci a soddisfarlo mai hai una situazione di disagio patologico, una malattia.

Ora, se a quarantacinque anni non hai mai toccato un partner (e non per scelta deliberata), e riesci a prenderla con filosofia…  beh, io ti faccio la òla, rappresenta un tipo di tempra spirituale ai limiti del superuomo. E d’altro canto se hai questo tipo di tempra spirituale, mi aspetterei che qualche contatto con l’altro sesso tu lo abbia avuto, prima.

Diciamo che con gli incel c’è il grosso rischio di confondere il discorso logico col discorso psico-logico. Dal punto di vista psicologico, le problematiche degli incel sono chiare, ed è chiaro anche il ruolo che il discorso logico che essi fanno, ovvero quello fatto dei vari giustificativi della propria situazione, ha nella funzione psicologica. La dinamica è la seguente: io, incel, scorgo un’ingiustizia nella mia situazione; analizzo alcune possibili cause della suddetta ingiustizia; trovo che le cause sono tutte esterne alla mia volontà, i.e. la società, la bruttezza, il femminismo etc.; mi risolvo ad autocompatirmi per il resto della vita oppure a fare una strage.

Something gotta stop the flow. Se si vuole rompere una reazione a catena occorre individuare gli anelli deboli. Spoilerone, sono il terzo ed il quarto. Ma attenzione perché invece i primi due sono molto, molto forti e non si può pensare il fenomeno incel a prescindere da quelli.

Ok, gli errori negli anelli 3 e 4 li sappiamo. L’anello 3 è sbagliato perché se uno è incel, di solito, le cause non sono tutte esterne. In particolare, se non fai altro che scrivere quanto sono inferiori e puttane le donne, c’è caso che non saranno arrapatissime da te. Per esempio. L’anello 4 invece è sbagliato perché, in ogni caso, anche laddove uno sia vittima di circostanze avverse, non può considerarsi perciò autorizzato ad autocompatirsi e basta, o a fare stragi. La mia filosofia in questi casi è che se la vita ti butta addosso il doppio o il triplo o il quadruplo del carico rispetto ad altri più fortunati, le alternative sono due: restare schiacciato oppure diventare due, tre, quattro volte più forte degli altri. L’incel generalmente preferisce farsi schiacciare… e ama molto anche lamentarsi della cosa, che è alquanto infruttuoso. La società può avere e quasi sempre ha delle colpe nelle ingiustizie che viviamo, ma, anche quando ciò accade, nostra resta la responsabilità di lottare per la nostra felicità; scaricare la colpa sulla società  o sulla biologia o su versioni artefatte delle due per giustificare la passività(-aggressività) non può e non deve scatenare simpatie nel prossimo.

Fin qui era relativamente facile. Purtroppo però anticipavo che anelli 1 e 2 sono invece molto robusti, così robusti che preferiamo non parlarne mai. Rimedio io.

Il punto essenziale è che la situazione che si trova a vivere un incel… è veramente ingiusta. Scandalosamente ingiusta. Pur con tutte le responsabilità che egli può avere, generalmente proviene da background psicologicamente molto oppressivi, spesso sessuofobici; in alcuni casi è effettivamente bruttino, o effettivamente disastrato economicamente. Inoltre, e qui ci azzeccano molto gli incel a fare il paragone col capitalismo, nelle relazioni e nel sesso vige spesso l’effetto San Matteo: una “partenza” sbagliata porta tendenzialmente ad un accumulo successivo di altri incidenti di percorso, la famosa spirale discendente o feedback positivo. Per questa ragione il “peso della sfiga” non si limita a crescere linearmente, a diventare il doppio, il triplo, il quadruplo, ma cresce esponenzialmente: si eleva alla seconda, alla terza, alla quarta. Dunque la circostanza sfortunata da cui si è partiti rischia di trasformarsi facilmente in una sorta di maledizione a vita, perché è difficile spezzare il ciclo psicologico che l’ha attivata.

Questa è la ragione per cui, generalmente, quando vedo qualcuno bloccato nella spirale discendente la prima cosa che faccio è solidarizzare con l’ingiustizia che vive. Se uno in una sola giornata si è rotto una gamba, ha avuto un guasto all’auto, è stato mollato dalla moglie e gli ha cagato pure un piccione in testa, avrà sacrosanto diritto ad una sfuriata, e avrà sacrosanto diritto a sentirsi dire da me “certo, però, che sfiga…”

Dopodiché continua così: “certo, però, che sfiga… ora però vediamo insieme cosa possiamo fare per migliorare la situazione, ok?”

Di quel “certo, però, che sfiga”, tuttavia, siamo sempre molto avari con gli incel. E perché mai?

È un problema a due facce. Essenzialmente, però, non ci piace ammettere che il mondo sia naturalmente ingiusto. In un mondo in cui si pensa di diventare vegetariani per far bene agli animali, ovvero si rinnega il concetto stesso di “male naturale”, è difficile ammettere che, semplicemente, non vogliamo o non siamo in grado di fare molto per far del bene agli incel, che al contrario degli animali sono membri della nostra società e dunque dovrebbero essere molto più a portata del nostro aiuto. Invece sono affidati principalmente a sé stessi. Più in generale, l’effetto San Matteo è una nozione raccapricciante per il senso di giustizia umano. Sei in ospedale e vedi questa signora che c’ha la leucemia, e non solo: due anni prima ha perso un occhio, e adesso le è morto pure il figlio in un incidente d’auto. È giusto così? Ovviamente no, ma succede, e infatti è la dimostrazione che Dio non esiste e il cosmo non ha concetti di giustizia. L’effetto San Matteo ripugna ogni nozione di equità, ma è un meccanismo alla base di una moltitudine di dinamiche sociali e naturali. Con un po’ di sforzo, possiamo accettare l’idea che la natura se ne freghi del nostro concetto di equità e metta in pratica simili abomini… ma accettare il fatto che anche noi stessi funzioniamo allo stesso modo?

Giammai. Inaccettabile. Specialmente negli ambienti progressisti, nei quali affrontare i primi due anelli della catena incel può essere davvero molto difficile. Dopo aver improntato ogni proprio discorso all’idea che il comportamento etico è quello fatto nel nome dell’equità, che nella società giusta ognuno riceve secondo i propri bisogni e dà secondo le proprie capacità, che addirittura siamo così avanti che possiamo iniziare a pensare di riformare in senso “equo” pure la catena alimentare… uno dei bisogni primari dell’essere umano è in balia dell’effetto San Matteo e non sappiamo farci niente. Prima di passare alle teorizzazioni folli dei redpill, prima di autocompatirsi, prima di fare stragi, gli incel avvertono semplicemente questo senso di ingiustizia, appropriatamente, e non sanno gestirlo. A questo problema mancano adeguate risposte sociali.

In questo senso va dato merito a quelle teoriche femministe che provano a proporre, da una prospettiva diversa, una via alla “giustizia sociale sessuale” che passa attraverso i concetti di body positivity, fat pride, la critica degli sterotipi estetici e via discorrendo. Un’idea lodevole, in sé, riformare i gusti sessuali per renderli più equi, ma personalmente io ho aspettative molto più basse di costoro sul genere umano. Infatti, non credo che alcuna di queste femministe si prenderebbe il tempo di provare anche solo a conoscere un incel. In certi casi, non si può dar loro torto: alcuni di loro sono veramente inapprocciabili, anche con tutta la buona volontà… E quindi, in un certo senso non dipende neanche da chi rifiuta, il rifiuto. Dipende solo da un’ingiustizia cosmica. Non avremo mai, a mio avviso, una “giustizia sociale sessuale”, il sesso non risponde a una dinamica di giustizia, anzi, è naturalmente sperequativo.  Per ottenere un effetto perequativo occorre nuotare contro una fortissima corrente.

Potremmo ammettere almeno questo: “ci spiace, ragazzi, siamo impotenti ad ‘aggiustare’ questo bug nella nostra natura che ci preclude la possibilità di dare a tutti il sesso di cui avrebbero bisogno quando ne hanno bisogno e nelle dosi che vorrebbero, sarebbe bello ma il comunismo sessuale non lo riusciamo a metter su”.

Di solito, non si arriva neanche a questo punto qui, ovvero riconoscere che, anche se il mondo del sesso e delle relazioni non è così mostruoso quanto lo dipingono gli incel, e comunque molto molto ricco di ingiustizia e ineguaglianza e Effetto San Matteo. Non ci esce proprio di bocca, ammettere che proprio attraverso sesso e romanticismo, queste cose così fighe, possano esprimersi ingiustizie così profonde. Anzi, addirittura generalmente al sesso affidiamo, nell’immaginario collettivo, il compito di riparatore dei torti! Nei film la ragazza viene provvidenzialmente “donata” all’eroe dal destino, è messa sul suo cammino e rappresenta una via di salvezza, è il dono di Dio all’eroe. L’amore (romantico, ovviamente) è la via di uscita dalla crudeltà del mondo. Al sesso e alla vita di coppia, dunque, il compito di riparare alle ingiustizie che viviamo in tutti gli altri ambiti della nostra vita.

Come si dice, “affidare la pecora al lupo”. Pessima, pessima idea. In realtà il nodo che non si scioglie qui, e che non si può sciogliere in nessuna maniera, è che al fondo di tutti i nostri tentativi di dare ordine etico al mondo c’è l’ingiustizia cosmica. Un nodo eterno e che dunque si cerca di obliare. Nel sesso, nell’amore romantico, noi in realtà riponiamo ancora quella fede che non abbiamo più in Dio: alla fine, nella sua saggezza, farà andare tutto bene.

Ed esattamente come faceva Dio, il sesso, per ogni buon raccolto che ti regala, ti dà tre eruzioni di Pompei. E anche a Dio qualche spiga di grano bastava, per passarla liscia per tutte le sue cattiverie.

 

Ossequi.





L’orrore erotico di Junji Ito

26 03 2018

L’horror giapponese, tipicamente, si distingue da quello occidentale soprattutto per la sua maggiore attenzione agli aspetti psicologici. L’orrore made in Japan spesso non è un rappresentato da un mostro che ti insegue, quanto da un male che ti porti dentro, e non ti distrugge coi coltelli, ma col veleno.

E uno dei maestri indiscussi del genere è il mangaka Junji Ito.

Il sottoscritto lo ha scoperto per caso alcuni anni fa, incuriosito dall’aver letto il suo nome in alcune wiki. Dicevano fosse terrificante, ma i riassunti delle sue opere erano molto vaghi e non sembravano particolarmente orrorifici. Immaginate la sorpresa quando mi sono ritrovato, uomo adulto, vaccinato e non molto impressionabile, ad avere difficoltà a prendere sonno dopo aver letto una delle sue storie brevi più celebri: l’Enigma di Amigara Fault.

Trovo che il genere horror sia incredibilmente rivelatore rispetto al funzionamento della nostra psiche, e che Junji Ito sia, in tal senso, un genio (del male?) della psicologia. Dunque in questo piccolo saggio farò un breve excursus sull’autore, che illumina secondo me una serie di riflessioni interessanti sulla psiche umana, cominciando proprio da L’enigma di Amigara Fault (Attenzione: tanti spoiler).

La storia de l’Enigma è piuttosto bizzarra. La premessa è la seguente: in seguito a un forte terremoto emerge dal terreno una faglia. Niente di strano fin qui, se non che sulla parete piatta e omogenea spiccano decine o centinaia di buchi a forma di silhouette umane. I buchi in questione continuano indefinitamente all’interno della montagna, al punto che con una normale sonda non si riesce a raggiungerne il fondo. Ma la cosa ancora più strana è che questi buchi sono fatti a forma di specifiche persone. Vicino alla faglia si conoscono i due pratogonisti, Yoshida e Owaki. I due hanno saputo della faglia tramite la televisione, e hanno sentito un irresistibile desiderio di andare a vederla; una cosa comune a molti altri, tanto che intorno alla parete si è formato un assembramento di persone che sono lì esattamente per la stessa ragione-non-ragione. Appena arrivati l’incubo inizia: presto si scopre che molti di quelli che sono arrivati lì lo sono perché hanno creduto di intravedere in TV un buco che ha esattamente la loro forma. Uno alla volta, i presenti vanno alla ricerca del “proprio” buco e ci entrano, di propria spontanea volontà, sparendo nelle profondità della montagna per non essere mai più rivisti.

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Non passa molto perché Yoshida trovi anch’ella il proprio buco. Di fronte ad esso, la ragazza ha un inspiegabile attacco di panico; inizia a dire che quel buco è stato fatto per lei, che l’ha aspettata per intere ere geologiche, che lei prima o poi ci finirà dentro e resterà intrappolata come gli altri. Owaki la rassicura e dispone una serie di pietre a tappare il buco per mostrarle quanto non ci sia pericolo; e poi, come potrebbe mai la ragazza finire nel buco, se non entrandoci volontariamente, cosa che chiaramente non farebbe? Yoshida sembra tranquillizzata; i due passano due notti insieme, sta chiaramente nascendo qualcosa fra loro. Alla seconda Owaki si sveglia, Yoshida non è accanto a lui. Preda di un terribile presentimento, accorre al buco di Yoshida: la ragazza ha rimosso le pietre, si è spogliata e ci entrata dentro. Mentre si dispera, domandandosi il perché di quel gesto folle, Owaki incrocia con lo sguardo un altro buco: questo è il suo. Con calma, quasi stoicamente, scorda la tristezza, scorda in effetti qualsiasi emozione, si spoglia e vi entra, scomparendo a propria volta. Entrambi subiranno un fato peggiore della morte.

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Yoshida va nel panico davanti al “suo buco”

Non a caso questa è una delle storie più celebri di Junji Ito, nonché quella da cui parte il mio excursus. Contiene quasi tutti i temi cari all’autore. Il più potente e più sentito è il tema dell’inevitabilità del destino: finirai in quel buco, ti ha atteso da milioni di anni e lì dentro finirai. Inevitabilmente. Poi va a toccare praticamente tutti i terrori primordiali dell’uomo: l’isolamento, la claustrofobia, la nictofobia, il body horror. Ma la cosa che colpisce di più me, personalmente, è l’aspetto psicologico: l’orrore della compulsione.

La gente entra in quei buchi non perché costretta o non cosciente: vi entra perché ha un irrefrenabile desiderio di farlo, sente di doverlo fare, e vi entra di sua spontanea volontà. Yoshida è terrorizzata dal buco non perché teme che la insegua, cosa che un buco non può certo fare, ma perché sa già, al livello subcosciente, che sarà lei stessa a gettarcisi dentro, presto o tardi.

Se lo sa, perché non lo impedisce?

Ed è qui che si rivela il genio psicologico di ito. Quei buchi sono una manifestazione della forza più oscura, terrificante e potente che controlla l’esistenza umana: la marea informe, caotica e irrazionale dell’inconscio. Yoshida non vuole razionalmente e coscientemente entrare nel buco, ma il suo inconscio lo desidera con una potenza cui, semplicemente, ella non può resistere. L’inevitabilità di quel destino tragico risiede nel suo provenire non da fuori, ma dall’interno. È un male che ti sta dentro, ma non come un Mr. Hyde, che assume contorni definiti e perfino diventa indipendente da te: è un male che fa parte di te, che sei tu: Yoshida e Owaki entrano nel buco. Entrano perché lo vogliono, il loro inconscio lo vuole; e lo vuole perché deve punirli di un orribile crimine che hanno commesso in qualche vita precedente… ma questo crimine orrendo è anch’esso un crimine inconscio; non lo ricordano, non sanno neanche di che si tratta, e sappiamo che esiste solo perché… Owaki lo ha sognato. Il sogno finestra sull’inconscio. Dice qualcosa?

Tutto ciò che accade sfugge al controllo razionale, eppure sta accadendo tutto dentro di loro, ovvero nel posto sul quale dovrebbero avere il più grande controllo. Il terrore qui è scatenato dal fatto che Junji Ito ci mostra delle persone che non solo non hanno potere su ciò che accade intorno a loro (magari perché vittime di mostri, vampiri, spettri), ma che soprattutto non ce l’hanno su quello che succede dentro di loro. L’orrore sono loro.

Ci sono ancora un paio di temi importanti da sottolineare, qui; quello che trovo più interessante e più necessario a capire Junji ito è il ruolo dell’amore e della sessualità nelle sue opere.

Che ruolo ha l’amore, il calore degli altri esseri umani, ne “l’Enigma di Amigara Fault”? Owaki rassicura Yoshida e le da amore. Le dà anche un’elegante e tranquillizzante spiegazione del suo terrore per il buco: Yoshida è sempre vissuta sola, e per lei il buco rappresenta la solitudine. Ma ora non è più sola, non ha quindi più nulla da temere.

Ma Yoshida scappa silenziosa durante la notte e si infila nel suo buco di suprema solitudine. E subito dopo Owaki finisce a sua volta nel proprio buco.

L’amore qui è una promessa disattesa; il calore degli altri esseri umani non può aiutarti in alcun modo, se tu hai un buco che ti attende da quando sei nato, e hai l’ansia febbricitante di riempirlo. Yoshida e Owaki ripudiano la vicinanza reciproca in favore dell’autodistruzione, perché semplicemente questa viene da dentro di loro, e dunque è più forte dell’amore che invece sta fuori.

Ma c’è dell’altro da notare, e io mi concentrerei su questo aspetto, che vedremo anche nelle altre opere: il male, in Junji Ito, è spesso femmina. I buchi sono il male ne l’Enigma, e il buco freudianamente parlando è femmina. E esercita il suo male in modo femmineo, passivo: non ti insegue come il mostro di uno slasher movie, si limita ad attenderti, a spalancartisi davanti, ad attrarti come una pianta carnivora. E una volta che gli sei… che le sei entrato dentro, ella ti intrappola. E non ti uccide, fa molto di peggio: ti trasforma in un orrore vivente, tramuta la tua esistenza in agonia.

Ma se il male de l’Enigma è femmina metaforicamente, il male di “Tomie”, altra grande opera di junji Ito, è femmina nella maniera più esplicita; e non si può parlare di sessualità e amore in Ito senza parlare di Tomie. Tomie è la protagonista/antagonista di una lunga serie di racconti di Junji Ito; si tratta di una ragazza che ha il potere di sedurre invincibilmente qualsiasi uomo. Un solo sguardo di Tomie ti trasforma nel suo schiavo d’amore. Come usa Tomie questo potere? Per conquistare il mondo? Per ottenere denaro e fama? Nulla di tutto ciò: lei vuole solo ottenere una schiera infinita di schiavi d’amore; vuole sedurre e torturare psicologicamente qualsiasi uomo sulla terra; e questa sua fame di amanti non si ferma davanti a niente, non ha remore nemmeno nel darsi alla pedofilia e sedurre e molestare perfino i bambini. Ma il tratto più peculiare di Tomie, che la distingue dalla maggior parte delle “Sirene” e delle “Streghe” della fiction, è a cosa portano le sue azioni: gli uomini che ne cadono vittima vedono la loro passione crescere inesorabile; parallelamente, Tomie mette presto da parte la dolcezza iniziale e diventa sempre più gelida e sprezzante: maltratta, insulta, disprezza apertamente i suoi amanti, e ovviamente li tradisce con centinaia di altri. Questo, inevitabilmente, porta i suoi amanti a odiarla sempre di più e ad esserne sempre più gelosi, il che alla fine si risolve con un omicidio: Tomie viene sempre uccisa dai suoi amanti, e generalmente fatta a pezzi. Ma non ci si libera così facilmente di Tomie, per due ragioni: la prima è che la sua influenza è permanente, chi ne cade vittima una volta non è mai più capace di amare altre donne e vive tutto il resto dell’esistenza a desiderarla, spesso finendo ad autodistruggersi nel crimine. Ma soprattutto, Tomie rinasce sempre, anzi, si moltiplica: ogni pezzo di Tomie è capace di rigenerare una nuova Tomie per intero, identica alla prima. Non v’è dunque una sola Tomie, a questo mondo, bensì un intero esercito.

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Nella storia “Il Pittore”, un artista innamorato cattura la “vera bellezza” di Tomie.

Anche qui Ito ci colpisce sotto la cintura, anche qui abbiamo un qualcosa che scatena il nostro inconscio, che ci rende delle persone orrende, ci distrugge la vita… Ma qualcosa che è dentro di noi, Tomie ci entra dentro. Al contempo, Tomie è il male femmina. La sua passività è totale, ella non fa altro che farsi corteggiare, gli uomini vanno da lei, non è lei che va da loro. La passività di Tomie è portata così all’estremo che rovescia la dialettica tipica dell’horror, in cui il carnefice uccide la vittima: qui il carnefice è ucciso dalla vittima. Più e più volte, in un ciclo infinito di distruzione e autodistruzione. Tomie, a sua volta, rappresenta essa stessa quel desiderio di cui è oggetto; ella brama la propria dissoluzione, ella vuole essere uccisa e risorgere ogni volta. Ella stessa è vittima di sé stessa. E non scordiamoci che, da brava femmina, è una forza proliferante, che si replica. Ma non a caso, la sua procreazione è asessuata, e ogni Tomie odia tutte le altre Tomie, perché le vede come rivali. Metaforicamente ma anche concretamente, dunque, Tomie odia sé stessa e vuole vedere sé stessa distrutta e fatta a pezzi; l’importante è distruggere anche tutto ciò che ha intorno nell’atto.

Dunque abbiamo due mali, i buchi e Tomie, che sono entrambi femmine e passivi, e il loro unico potere, l’unico modo in cui distruggono le vite intorno a sé, passa attraverso il farsi desiderare, attraverso il subire, attraverso la sollecitazione dell’inconscio altrui, attraverso il farsi penetrare metaforico. Ed entrambi non sono mostri (almeno, non a vedersi, ma provate a scattare a Tomie una foto…), ma una volta che ti hanno catturati trasformano te in una pervertita mostruosità.

Non è un caso, a mio avviso, la scelta Di Ito di riferirsi tanto spesso alla sessualità e all’amore. Sono temi ricorrenti per lui, è la ragione secondo me è piuttosto ovvia: nella sessualità e nel sentimento l’inconscio si manifesta nella sua forma più libera e selvaggia. Attraverso l’eros si scatena la follia in una forma che è quasi considerata accettabile socialmente. Ed è un eros che nel suo farsi ossessione e febbre, sublima, si spoglia di concretezza: notiamo bene che non si vede mai, che io sappia, Tomie fare sesso. Sembra che tutti i suoi rapporti siano effettivamente privi di una sessualizzazione concreta, e si potrebbe ipotizzare che Tomie stessa sia del tutto incapace di piacere sessuale. Chiaramente non lo cerca, quello che fa è farsi desiderare eroticamente, ma mai possedere o toccare per davvero, se non per farsi uccidere. Tutti gli uomini che la incontrano dicono di essere follemente innamorati di lei, nessuno di loro dice di desiderarla sessualmente e basta. E come accennavo prima, anche un bambino cade vittima di Tomie e delle sue molestie sessuali, ma malgrado ella lo baci perfino sulla bocca, lui la chiama “mamma” (Freud qui sborrerebbe). L’erotismo vero è proprio è dilazionato, è altrove: quello che conta qui è solo il possesso; e chi si possiede meglio di un bambino? È dunque naturale che Tomie sia anche pedofila, e nella storia “Il ragazzo” Ito viola uno dei maggiori tabù del perturbante, descrivendo con raccapricciante dettaglio gli effetti devastanti di quella che è un’autentica violenza sessuale su minore; e per di più coglie il nucleo della malvagità dietro l’abuso pedofilo, che non è l’atto sessuale in sé (Tomie si “limita” in effetti al bacio in bocca, sul piano fisico) né la violenza fisica (che Tomie non pratica mai in quanto naturalmente “passiva”) ma tutto il contorno manipolatorio, la disparità di potere, l’astuzia tossica del seduttore che perverte per sempre la concezione dell’amore e del sesso del futuro adulto. Tomie manipola il bambino, lo seduce, trovando nel fatto che sia un bambino non un limite ma semmai il divertimento di una vittima ancora più facile da plagiare.

Il tema dell’amore perverso, dell’amore come possesso e dipendenza, come ossessione, come follia, torna ripetutamente in Junji Ito (che comunque risulta felicemente fidanzato, a scanso di equivoci). Anche nell’altra opera per cui è forse più famoso, la raccolta di racconti “Uzumaki” (“Spirale”). In Uzumaki il male assume forma, letteralmente: una forma geometrica, quella della spirale. La pacifica città di Kurozu-Cho viene maledetta dalle spirali, collegate a tutta una serie di terrificanti eventi. Un uomo diventa ossessionato dalle spirali al punto da passare tutto il proprio tempo libero a fissare spirali, finché un giorno non si suicida in una lavatrice, trasformandosi così, fisicamente, in una spirale. La moglie, dal canto suo, sviluppa una fobia per le spirali, tale che si suicida nel tentativo di rimuovere le spirali dalle proprie orecchie.

Anche la scelta di questa specifica forma non è casuale: la spirale è il simbolo dell’autodistruzione. La spirale dell’alcol, la spirale della droga. A Kurozu-Cho la gente inizia ad essere divorata dall’interno da spirali, da vortici di autodistruzione che è impotente a fermare perché non vuole fermare davvero: l’unico a rendersi conto di ciò che sta succedendo è Shuichi, un ragazzo un po’ strano che è capace di “vedere” le spirali maledette, ma non viene mai ascoltato e dunque non può far altro che assistere impotente alla distruzione che si sparge incontrollata, alla discesa nella follia del mondo che lo circonda.

La storia forse più famosa di questa raccolta è “la Cicatrice”, in cui una bellissima ragazza di nome Azami inizia ad essere divorata viva da una cicatrice a forma di spirale che ha sulla fronte. Anche qui l’orrore fisico riflette quello psicologico: Azami conosce Shuichi, ma questi vede subito, grazie al proprio sesto senso, la spirale sulla sua fronte, anche se è ancora piccolissima: ne è terrorizzato, scappa da lei è le ingiunge di abbandonare subito Kurozu-Cho per salvarsi. Ma è troppo tardi, Azami è già maledetta. La sua spirale, la spirale psicologica di Azami, è un amore malsano per lo stesso Shuichi che si sviluppa immediatamente, non appena lo vede. Non solo i tentativi di lui di allontanarla falliscono, ma fanno solo aumentare l’ossessione di lei, che addirittura si trasferisce vicino a lui per potergli fare stalking meglio. La spirale non fa che crescerle dentro l’anima, e allo stesso tempo le cresce dentro il corpo, scavando un profondo buco sulla sua fronte. Parallelamente, è vittima della spirale di Azami anche il povero Okada, un ragazzo che invece è innamorato in modo malsano di lei e, nelle sue stesse parole, se ne sente “risucchiato”.

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Azami divorata dalla spirale.

Alla fine, al culmine dell’ossessione, Azami usa Okada per riuscire ad avvicinarsi a Shuichi. L’inganno riesce, ma l’obbiettivo della spirale non è certo dar vita ad un rapporto: solo divorare tutto. La Spirale, che ormai ha divorato tutto il viso di Azami, risucchia dentro di sé anche Okada, uccidendolo, dopodiché, mentre Shuichi si rifugia su un albero, divora completamente la stessa Azami, che viene ridotta al nulla. Ritorna l’inconscio scatenato che si manifesta attraverso un’inestinguibile passione, un irrefrenabile desiderio narcisistico di possesso sessuale dell’altro che consuma tutte le persone coinvolte. Anche qui, la voce della ragione, Shuichi, si rivela del tutto impotente ad aiutare gli altri; e anche se riesce per ora a salvare sé stesso, non potrà riuscirci per sempre, soprattutto quando la spirale inghiottirà veramente ogni cosa…

Quindi l’amore per Ito è una promessa disattesa (l’Enigma), oppure una pulsione distruttiva e autodistruttiva mirata al possesso del prossimo (Tomie), una tossicodipendenza che ti risucchia via la vita (Uzumaki). Junji ito non offre niente di meglio?

Un pochino sì: qualcosa c’è nella storia “Twisted Souls”, sempre parte della serie sulle spirali. Due ragazzi vivono una storia d’amore tormentata perché ostacolata dalle rispettive famiglie, Romeo e Giulietta style. Anche stavolta Shuichi vede chiaramente la maledizione della spirale aleggiare sugli eventi. Un giorno i due amanti commentano su come le loro famiglie siano “avvinghiate” nel loro odio reciproco, e osservano per caso due serpenti intrecciati fra di loro: “combattono, come le nostre famiglie”, commentano lì per lì. Poi si rendono conto che non stanno affatto combattendo: sono maschio e femmina. Stanno facendo sesso. I due serpenti cadono nel vuoto, ancora avvinghiati fra di loro.

Sotto consiglio di Shuichi, i due decidono di lasciare la città. Finalmente una cosa sensata, pensano Shuichi e il lettore, ma le loro famiglie li fermano, li inseguono e infine li braccano su una spiaggia. Di fronte alla prospettiva di essere separati per sempre, i due ragazzi fanno qualcosa di folle e fisicamente impossibile: trasformano i propri corpi in forme nastriformi e si annodano inestricabilmente fra di loro, come i serpenti di prima. Nessuno potrà mai più separarli, nemmeno loro stessi. Le rispettive famiglie ora capiscono che il punto non è separarli, ma salvarli: ma è troppo tardi: come una specie di serpente a due teste, i visi malinconici, i due si gettano in mare per non essere mai più rivisti.

L’amore qui appare ancora come qualcosa di potenzialmente devastante e autodistruttivo, ma senza rinunciare, stavolta, ad un certo romanticismo di fondo: è chiaro che i due protagonisti vogliono soltanto potersi amare, genuinamente. Ma è altrettanto chiaro che la maledizione della spirale qui ha due facce: da un lato si manifesta nell’odio reciproco delle famiglie, dall’altro nell’amore dei due, che per reazione diventa malsano. Puoi vivere il tuo amore anche se le tue famiglie ti ostacolano, sembra dirci la storia, ma il prezzo sarà di annodarsi insieme, di diventare un unico inestricabile groviglio, una mostruosità a due teste… e scappare nel mare, esclusi da tutto e da tutti, profondamente infelici. Ma insieme.

Come potrebbe questa storia non toccare le corde del cuore di un omosessuale italiano? La fuga da una società malsana diventa un amore malsano, simbiotico, dal quale ormai è impossibile divincolarsi, anche volendolo. L’altro diventa tutto, si vive e si muore insieme.

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I due amanti si “intrecciano”.

Per trovare un vero messaggio di speranza bisogna cercare una storia che parli esclusivamente di passioni d’amore: “Gli incroci”. In una città del Giappone, perennemente immersa nella nebbia, vi è la moda di praticare la crucimanzia: ci si ferma agli incroci nei giorni di nebbia e si domanda al primo passante qualcosa sul futuro di un amore; la formula è tipicamente “il mio amore porterà frutto?”, e la risposta è considerata affidabile, a mo’ di oroscopo. Purtroppo fra gli incroci, nei giorni di nebbia, si aggira un bel ragazzo vestito di nero dall’aria inquietante. I suoi pronostici sono sempre cattivi, e soprattutto si avverano sempre, in effetti sono più che altro delle maledizioni. Per esempio un giorno, Reishi, amica dei protagonisti Midori e Ryuusuke, fra cui c’è dell’attrazione, domanda al ragazzo degli incroci se l’amore dei suoi due amici porterà frutto. Il ragazzo le risponde che dovrebbe preoccuparsi del proprio, di amore. Da quel momento in poi Reishi si scopre follemente innamorata di Ryuusuke, che però non ricambia, arrivando al punto di perseguitarlo ovunque vada; a poco a poco l’ossessione la divora, inizia a perdere la salute, il viso si fa emaciato. Di fronte all’ennesimo rifiuto, Reishi si taglia la gola con un tagliacarte. Il tema ormai ricorre chiaro: l’amore che diventa la spoglia sotto la quale si nasconde un inconscio tormentato, una desiderio sopito di autodistruzione che culmina con la sua realizzazione massima: il suicidio.

La differenza qui è che Ryuusuke decide di contrastare il bel ragazzo vestito di nero con i suoi stessi mezzi: si veste di bianco e si aggira per gli incroci “intercettando” le vittime prima che incontrino il ragazzo vestito di nero, e dando loro ottimi consigli e parole di incoraggiamento. Un bel ragazzo vestito di bianco che ti dice qualcosa di bello, per contrastare un bel ragazzo vestito di nero che ti maledice e avvelena. Forse per la prima volta leggo in Junji Ito di forze spirituali positive che si scontrano con quelle di segno opposto e possono perfino vincere.

Ed è qui che sorge spontanea la domanda: nel mondo di Junji Ito è ammesso un inconscio positivo, che non cerchi di avvelenarci e distruggerci, ma invece di aiutarci? Sembrerebbe di sì, ma forse semplicemente a Ito non interessa molto parlarne, perché lui scrive horror e gli preme farci rabbrividire, non di farci sorridere. Il più delle volte, almeno.

La forza salvifica dell’amore vero fa capolino qua e là anche nel suo mondo così malvagio e caotico; di solito viene nascosto o assimilato da pulsioni malsane che lo rendono invisibile o addirittura lo convertono nel male assoluto… Ma a volte è comunque lì…

Forse si capisce meglio il punto di vista di Junji Ito sull’amore se si leggono i fumetti comici che ha dedicato ai suoi gatti e alla sua fidanzata: Junji Ito è un amante dei gatti, ovvero dell’indipendenza e dell’autonomia. Forse per questo ci mette in guardia da un amore che ti annulla e ti rende dipendente dall’altro, e da una sessualità predatoria che ti rende schiavo.

Consiglio recepito, Junji, consiglio recepito…





L'”avvocata” e altre parole che non mi piacciono

27 06 2016
Tempo addietro leggevo un articolo di una femminista che lamentava come, nei sondaggi, anche intervistati che si identificavano pienamente con tutte le battaglie femministe rifiutavano la denotazione di femminista. La ragione, diceva l’autore in soldoni, è che laggente sono scemi e non capiscono cosa significa femminismo.
No, la ragione vera è che la gente si rompe i coglioni di leggere cose come questa virgolettata qui sotto. Il tema è l’uso di certe forme femminili che tendono a suonare stonate nella popolazione, come ministra, sindaca, avvocata (brrr), chimica, fisica.
 “continuare a escludere dall’uso le forme femminili è di fatto discriminatorio, perché questa scelta non si fonda su ragioni linguistiche, ma nasconde un pregiudizio. È come affermare, indirettamente, che determinati ruoli rimangono una prerogativa maschile”.
L’articolo originale è qui.
Dunque, in sintesi, se a me “avvocata” fa cagare sangue è perché ho un pregiudizio sessista contro le avvocate donne. E’ da notare, però, che nella frase predente ho scritto “avvocate”, letteralmente senza accorgermene lì per lì. Dunque “avvocate” mi piace, ma “avvocata” no. Ricordiamocelo per più tardi.
Ora, ovviamente, se parliamo di sessismo inconscio, così inconscio che non si vede mai se non quando dico “giovane avvocatessa” invece di “giovane avvocata”, la sua esistenza è qualcosa di infalsificabile. Posso affannarmi a cercare di dimostrare che non ho pregiudizi contro le avvocate, ma si potrà sempre dire che sotto sotto, al livello impercettibile ci sono (povero Popper).
Sono disarmato di fronte a questo tipo di accusa, un sessismo così inconscio potrebbe teoricamente essere dentro di me, seppur la sua esistenza o inesistenza mi pare di ben poco rilievo pratico se si limita al fatto che non dico “avvocata”. Tuttavia, questo me lo si deve riconoscere, se questo sessismo sottile esiste in me, è un sessismo stranissimo.
Non ho nessun problema a parlare di avvocate, al punto che mi “sfugge” nel discorso. Avvocata invece al momento mi fa l’effetto di un chiodo fra le palle. Quindi le avvocate mi piacciono solo se sono tante? Non assumerei un’avvocatessa, però ne assumerei due?
Personalmente mi viene molto naturale, parlando di ricercatrici nel settore chimico, parlare di chimiche; e curiosamente mi suona bene anche al singolare, “una chimica”. Ma “ingegnera chimica” mi fa venire il cagotto. Dunque, stando al ragionamento di cui sopra, io ho dei pregiudizi nascosti contro gli ingegneri chimici donna ma contro le ricercatrici che si occupano di chimica invece no; nonostante nella mia testa abbiano tutt’e due a che fare con roba che puzza e scambia elettroni e indossino tutt’e due occhialoni protettivi. Che altro, vediamo… ah, sì, non avrei nessun problema ad avere un’idraulica donna; strano, non mi sembrava un lavoro tradizionale da donne; se devo immaginarmi una donna avvocato mi viene molto più facile che a immaginarmene una idraulico; ma a quanto pare il pregiudizio vero ce l’ho contro le avvocatesse, non contro le idrauliche; e questo nonostante debba ammettere che una donna vestita da idraulico un po’ in testa mi stoni, al livello subconscio. Vuoi mettere una donna in salopette e abiti sporchi con un’elegante signora in tailleur? Credo di essere una delle dieci persone al mondo più lontane dai pregiudizi sessisti, ma devo ammettere che l’idraulica in salopette mi causa un impercettibile senso di stonatura che non mi causa la donna avvocato in tailleur. Se un sottilissimo pregiudizio ce l’ho, sarà contro le donne idraulico, non contro le avvocate. Avrei problemi ad avere una ministra, invece, a quanto pare. Non sono sicuro se avrei problemi ad averne più d’una però, perché ministre mi suona già più carino.
Ok, basta con le stronzate, è evidente che non può logicamente esserci un pregiudizio culturale alla base di un pattern così caotico e insensato. Dicono che escludere certe forme del femminile non ha senso; nell’articolo sopra si cita ad esempio l'”avvocata nostra” nel Salve Regina (trascurando il fatto che le preghiere generalmente non rappresentano una forma di linguaggio colloquiale, ma piuttosto un registro arcaico e altamente formale), dicendo che se ha senso nella preghiera non si vede perché non dovrebbe averli in tribunale.
A parte che ci sono ottime ragioni per aspettarsi registri diversi se sei un cristiano che supplica quella che per te è la figura più sacra dopo la Trinità in una preghiera preformulata, piuttosto che se stai facendo due chiacchiere con gli amici … posso benissimo riconoscere all’autrice della frase almeno un punto importante: non c’è nessun senso in questa scelta! Come non c’è nessun senso nel fatto che io parli indifferentemente di avvocate o avvocatesse, ma mai di un’avvocata. E’ semplicemente la gradevolezza interamente soggettiva del suono a determinare le mie preferenze linguistiche, così come quelle di chiunque altro. O forse altri fattori soggettivi che intervengono di volta in volta; magari, dico magari, nel mio caso non ho problemi a parlare di idraulica proprio perché ho dei pregiudizi contro l’idraulico donna, e allora sottolineo il fatto che è donna con una -a in desinenza proprio per la “stranezza” dell’idea, cosa che non sento il bisogno di fare quando invece parlo di un avvocato donna come di un’avvocatessa o semplicemente di un avvocato; magari proprio perché in quel ruolo lì una donna mi pare perfettamente intercambiabile ad un uomo non la declino al femminile. Non dico che sia così, ma guardandomi dentro è una possibilità ragionevole, sicuramente più sensata che pensare che abbia pregiudizi contro le avvocate donne. In ogni caso non sono io a volere trovare una logica particolare dietro l’uso di queste parole e addirittura una discriminazione più o meno volontaria.
Quando dico “avvocatessa” o “avvocato” per parlare di donne sono completamente innocente di sessismo. Forse non lo sono del tutto quando parlo di un’idraulica, invece. Tuttavia mi tocca sentirmi dire da certe femministe che siccome non dico “avvocata” allora sotto sotto sono un po’ sessista. Perdonate se mi viene da mandarla un po’ affanculo una persona che mi lancia accuse del genere completamente ad mentulam canis?
Sì, sono sicuro che lo capite tutti. E allora forse prima di andare a dire che la gente è scema e non capisce il significato della parola femminismo o di essere piena di pregiudizi sotterranei ma così sotterranei che non si vedono se non quando si parla di cazzate di nessun rilievo pratico, sarebbe il caso di rivedere certe questioni di immagine interne al femminismo, guardarsi un attimino allo specchio prima di lanciare accuse all’esterno, insomma.
Perché alla fine su questo aspetto, come su quello dell’asterisco di cui parlai in un articolo ormai vecchio, la mia idea è che si tratti di questioni e battaglie assolutamente idiote che però fanno danni collaterali in termini di immagine del movimento.
Per me i problemi sono ben altri. E attenzione, non lo dico come gli omofobi che parlano dei matrimoni gay, che dicono che non bisogna farli perché ci sono problemi più importanti e poi paralizzano il parlamento tre mesi a lavorare su una cosa che si poteva risolvere in una settimana, dimostrando che invece per loro i problemi sono proprio quelli e non “ben altri”.
Io dico che sono davvero ben altri, io dico che “avvocata” o “avvocatessa” non è proprio un problema di sessismo. E sono così convinto che i problemi siano ben altri, che tutto sommato sono disposto perfino a cedere e usare “avvocata”, se proprio una mi dice che ci soffre così atrocemente a sentirsi chiamare avvocatessa. Non riuscirete a convincermi, mi spiace, che questa questione è degna di essere annoverata fra i “problemi delle donne in Italia”; ma se proprio vogliamo ostinarci a trattarla come tale, dobbiamo aspettarci un certo tipo di reazioni nella gente che sono del tutto ragionevoli e normali.
Per la precisione, dobbiamo aspettarci che la gente si faccia l’impressione che le donne in Italia non abbiano problemi veri e seri di cui occuparsi, e per questo pensino a ‘ste minchiate qua, e che le femministe e i femministi godano a cercare di vedere maschilismo e discriminazione anche dove chiaramente non ce ne sta per il gusto di fare le vittime.
Queste false impressioni (almeno, la prima è falsa, sulla secondo inizio a nutrir dubbi), contrariamente a sciocchezze come l’uso di avvocatessa in luogo di avvocata, danneggiano veramente la condizione delle donne nel nostro paese nonché l’immagine del movimento femminista. Che poi, diciamolo, per quanto riguarda l’immagine del movimento femminista in realtà me ne sbatto anche un po’ il cazzo, ma confesso che, in un paese pieno di donne maltrattate e spesso non protette adeguatamente dalla legge, in un paese dove il sesso femminile è ancora assurdamente sottorappresentato in politica, in un paese in cui l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza è messo in forse da una legge ridicola sull’obiezione di coscienza, e potrei continuare a elencare problemi femminili come tutti ben sappiamo, sentirmi dire che esiste il problema del maschilismo nell’avvocatessa… ecco, devo dirlo, mi pare perfino irrispettoso verso i problemi seri.

Sono sicuro che mi perdoneranno per questo mio limite tutte le avvocate che hanno tentato il suicidio per l’onta di essere state chiamate avvocato. Cercate di capirmi, ho il pene; sono disposto ad assecondarvi se me lo chiedete ma purtroppo questo genere di assurde sofferenze non le posso comprendere appieno. Posso capirne altre, magari, ma sull’avvocata avete beccato il mio limite di empatia.

 

Ossequi.




Per l’utero in affitto

4 12 2015

 

Ultimamente con quest’utero in affitto ci avete anche sfracassato un po’ i maroni.

La storia la sappiamo, gli astuti comunicatori dietro Sentinelle in Piedi (ed altri nomi dello stesso gruppo) non sapevano come fare per bloccare il riconoscimento anche dei diritti più basilari delle coppie LGBT, per intenderci quelli garantiti del DDL Cirinnà attualmente in discussione in parlamento. Quindi si sono inventati un avversario nuovo e più facile, la gestazione per altri, chiamata spregiativamente “utero in affitto”, e con abile mossa si sono inventati che la stepchild adoption nel DDL Cirinnà comporta l’utero in affitto. Come ciò accada non si sa, visto che l’utero in affitto è utilizzato prevalentemente da coppie eterosessuali, che le lesbiche, che sono più o meno metà delle coppie omosessuali, non hanno bisogno di affittare l’utero avendone già due, che la maggior parte delle coppie comunque non ha i soldi per pagare il costosissimo utero in affitto, e infine che è già reso illegale in Italia dalla legge 40.
Ma in fondo, i giochi di prestigio son belli per questo: avevano in mano un fazzoletto e ti hanno fatto apparire una colomba. Non sarebbe divertente se capissi anche come hanno fatto, no?! Loro avevano in mano il DDL Cirinnà e adesso ti fanno comparire l’utero in affitto. Geniale, non c’è che dire.

Ma che i cattolici si inventino stronzate per danneggiare il popolo LGBT non è una novità. La novità piuttosto è sentire i richiami di alcuni esponenti del mondo femminista e LGBT stesso (nomi celebri, peraltro: Mancuso e Concia! I VIP, quelli noti per non aver mai portato a casa un cazzo di niente di risultato politico per la comunità LGBT) che invitano le coppie di gay maschi, potenziali fruitori della gestazione per altri, a “fare un passo indietro” sull’argomento, o a “fermarsi”.

Scusate? Cosa mi sfugge?

Abbiamo già visto che la gestazione per altri è una faccenda prevalentemente eterosessuale, che è già (ingiustamente) vietata in Italia, e che la stepchild adoption non la rende legale. Finora non ho mai sentito nessuno nel movimento LGBT collegare la gestazione per altri alle Unioni Civili o al matrimonio gay, è una cosa che fanno solo i cattolici. Cosa significa che i gay dovrebbero “fare un passo indietro” sull’utero in affitto, come dice Mancuso? Se già non ne parliamo mai, e non colleghiamo mai la questione alla stepchild adoption, cosa dovremmo fare di meno, visto che già facciamo zero?

Ah, forse ho capito. Vorreste, signora Concia e signor Mancuso, che noi ci aggregassimo a quella conventicola di mentecatti che spala merda sulla gestazione per altri senza avere la più pallida idea di che sta dicendo e perché. Dovrei insomma mettermi a dire che l’utero in affitto è una pratica barbara che sfrutta le donne e strappa i bambini dalle braccia delle mamme o altre poetiche espressioni per titillare gli stereotipi familisti del pubblico. Così son tutti contenti.

Uhm … Potrei farlo. Magari lo faccio.
Fatemici pensare …

NO.

È vero, l’utero in affitto non c’entra con le Unioni Civili e manco col matrimonio gay né tanto meno con le adozioni (se venisse approvato il matrimonio egalitario, al massimo accadrebbe che i gay potrebbero fare a riguardo la stessa cosa che fanno gli etero: sposarsi per dare diritti ai figli concepiti in provetta). È vero, non conviene e non ha senso mescolare le due faccende, e infatti non ho intenzione di farlo.

Tuttavia l’utero in affitto è una pratica in realtà moralmente ineccepibile, e io non sono disposto a fare il torto di scagliarmici contro, neanche se ciò servisse a evitare un altro torto, quello che vien fatto ogni giorno alle coppie gay. Non posso farlo per una questione di coscienza; e poi perché non è proprio cosa da me stare a sentire idiozie in silenzio, figurarsi se posso darne avalli ufficiali! Non è che solo perché l’utero in affitto non mi riguarda i discorsi che sento a riguardo diventano meno idioti, e io mantengo e ho intenzione di mantenere sempre un pessimo rapporto con l’idiozia.
E poi c’è il mio gigantesco problema personale: la mia gravissima allergia alla retorica mielosa. Se sento parlare di “bambini strappati al rapporto unico e speciale con la loro dolce mammina tanto amata da Pasolini” mi viene uno sfogo sul braccio, non dipende da me.

Quindi, signor Mancuso, al limite io resto fermo sul mio passo 0, ma non arriverò mai a fare il passo -1 e dirmi contro l’utero in affitto, perché non lo sono.

Anzi, visto che ci siamo, e che sentiamo ormai in ogni dove ciarlare di utero in affitto senza cognizione di causa, visto che mi ci trascinano faccio anche il passo 1, e spiego perché, fermo restando quanto detto sinora sulla materia e sulla scarsa attinenza che ha con il DDL Cirinnà, sono a favore dell’utero in affitto senza sé e senza ma. E intendo, utero in affitto, non gestazione per altri. Intendo roba in cui si paga, compreso? Io dare a te soldi, tu avere gravidanza per me. Io sono d’accordo al 110% che ciò si possa fare, senza riserve di sorta.

E d’altro canto, siccome io non vedo da me i motivi per cui non si dovrebbe poter fare, mi toccherà affrontare quelli che sparano gli integralisti cattolici, coadiuvati per l’occasione da veterofemministe bigotte e misandriche (non ho detto omofobe, perché di solito l’omofobia delle veterofemministe si declina solo contro l’omosessualità maschile, ed è dunque da considerarsi un atteggiamento antimaschile prima che omofobico).

Primo:  “I figli non sono un diritto!”
Rivelazione grandiosa, adesso vi spiego cos’è un diritto: un diritto è quella cosa che la società si impegna con tutte le proprie forze a garantirti. Se la società decide di impegnarsi perché tutti abbiano collane di diamanti, la collana di diamanti è un diritto. Se decide di impegnarsi perchè chiunque lo desideri abbia un figlio, avere un figlio diventerà un diritto. E volete che ve la dica tutta? Avere un figlio per molti è un incidente sgradito, ma per molti altri è un’esperienza importante che fa parte dei propri progetti di vita. Se potessi progettare una società perfetta, garantirei a chiunque lo desideri di avere un figlio, come garantirei a chiunque di avere un amore, di avere un bel lavoro e una bella casa eccetera. Purtroppo di solito non possiamo garantire tutto questo, ma ciò non significa che provarci, quando è possibile, sarebbe sbagliato o sgradevole.
Che poi, che ipocrisia! Gli stessi che vanno in TV a esibire un uso scellerato dei diritti riproduttivi, fino ad avere una cosa come dodici figli, rimproverano di essere capriccioso chi vorrebbe averne uno. Come disse il poeta: ma andate a cagare.

Secondo: ci dicono che con l’utero in affitto ci sono “i poveri bambini strappati alle madri”, su cui ci stanno facendo la testa a pallone, dandoci a intendere che questi bambini siano traumatizzati a vita e rovinati per sempre, del tipo che da adulti rischiano di diventare come Adinolfi.
Cazzata.
Nulla sorprende di più della capacità che hanno avuto i cattolici di far passare per ragionevolezza scientifica una solenne cazzata concepita palesemente ed esclusivamente per stuzzicare pulsioni emotive ed immaginario romantico. I bambini, specialmente quelli prematuri, vengono abitualmente “strappati alle braccia delle madri” appena nati, eventualmente tenuti in incubatrice o sottoposti a massaggio neonatale da operatori esperti, è cosa del tutto ordinaria. A proposito, per chi non lo sapesse,  il massaggio neonatale è una tecnica di manipolazione usata sui neonati prematuri per simulare la stimolazione tattile che ricevono in ambiente intrauterino, e che favorisce il loro corretto sviluppo neurale. Quindi un operatore preparato può perfettamente sostituire la madre non solo per quanto riguarda le coccole, ma perfino per quanto riguarda i movimenti fisiologici dell’utero. E, d’altro canto, perché non dovrebbe esserne in grado? Lo so che ci piace immaginare il rapporto umano come una sorta di magia spirituale, ma il neonato dalla madre riceve esclusivamente le seguenti cose: un certo nutrimento ed un certo preciso set di stimoli sensoriali. Se sintetizziamo un analogo del suddetto nutrimento, e riproduciamo meccanicamente lo stesso tipo di stimolazione sensoriale, ciò che il bambino avrà ricevuto da noi sarà del tutto indistinguibile da quello che riceve da una madre.
Quindi non mi dite stronzate che “la mamma è insostituibile”; la mamma è perfettamente sostituibile, e infatti è sostituita molto di frequente. Vi dice qualcosa la parola “balia”? Una donna che allatta il bambino quando la madre biologica non può per svariate ragioni (non ha il latte, ha i capezzoli rientranti …); nell’ottocento era pratica comune e ancora oggi lo è in paesi in via di sviluppo, e nessuno parla di “poveri bimbi strappati alle madri”. Perché ciò è perfettamente normale, il bambino deve solo abituarsi fin da appena nato al contatto col cosiddetto primary caregiver, l’accudente primario, che di solito è la madre ma può benissimo essere chiunque altro gli fornisce ciò di cui ha bisogno: cibo, cure e un certo tipo di stimolazione sensoriale.

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No, queste cose non succedono.

Capisco che la gente ami coltivare l’idea romantica che il rapporto fra il neonato e la madre biologica sia unico e speciale e predestinato nel orso degli astri, e fin quando resta solo una “idea romantica” per quanto mi riguarda può anche tenersela; se però questa idea romantica pretende di diventare scienza e peraltro di determinare le nostre scelte politiche, allora questa bella idea romantica diventa un dannoso cancro, e mi tocca demolirla: un bambino può essere cresciuto con perfetta efficienza da genitori di qualsiasi sesso e genere e di qualsiasi gradazione di parentela o non-parentela con il suddetto. Questo perché l’accudimento di un neonato è una cosa semplice e meccanica, funziona sulla base di studiati e riproducibili meccanismi fisiologici. Non è affatto scritto negli astri che la madre biologica sia qualcosa di speciale; come se non sapessimo, peraltro, che esistono madri stronze e dannose esattamente come esistono padri stronzi e dannosi …

E poi lasciatemi fare una piccola riflessione estemporanea: sappiamo che le donne possono fare i militari, le calciatrici, i premier e i presidenti della repubblica e i premi Nobel. Però si continua a pensare che gli XY non siano in grado di cullare un marmocchio come lo fanno le XX. Le femministe non si interessano di questo palese pregiudizio antimaschile, perché sono troppo occupate a difendersi contro quelli antifemminili; i maschilisti d’altro canto non si preoccupano delle discriminazioni antimaschili perché sono troppo occupati a cercare di ravvivare quelle antifemminili. E così nessuno fa caso alle gigantesche discriminazioni e pregiudizi cui per retaggio culturale è da sempre sottoposto il maschio. Nessuno parla di “bambini strappati ai padri”, tutti parlano di bambini strappati alle madri; e sì, certo, perché il padre mica è genitore, è solo donatore occasionale di sperma. Diventa genitore soltanto quando serve alla Chaoqui per insultare le lesbiche. Il maschio è il nuovo “sesso debole”, a occhio e croce, visto che le donne possono fare tutto quello che fanno i maschi, ma i maschi non possono fare tutto quello che fanno le donne.

Comunque, fermo restando che i fatti, tanto per cambiare, non sono affatto dalla parte degli integralisti religiosi neanche sulla questione utero in affitto, e non c’è una sola ragione storica o scientifica per pensare che la madre biologica sia insostituibile, c’è anche l’altro argomento prêt-à-porter usato in questi casi: si “sfrutta il corpo della donna”!

Fatemi capire bene: una donna si offre di portare avanti la gravidanza per te. Firma un contratto. Viene profumatamente pagata. Mi sapete dire dove sta esattamente lo “sfruttamento”?!

Certo,una donna può essere sfruttata attraverso l’utero in affitto. Come può essere sfruttata da segretaria, da donna delle pulizie, da ricercatrice, da prostituta e da raccoglitrice di olive. Vietiamo alle donne di raccogliere olive, adesso, così eradichiamo lo “sfruttamento”?

Gli argomenti che tirano in ballo lo “sfruttamento della donna” sono analoghi a quelli usati contro la prostituzione, e sono allo stesso modo campati in aria. Chi “vende il proprio corpo”, per dirla con le parole dei perbenisti, non è necessariamente disperato, ho conosciuto prostituti perfettamente soddisfatti del proprio lavoro. Una mia amica addirittura mi ha fatto leggere un articolo su una prostituta tenuta sostanzialmente in schiavitù dai suoi “datori di lavoro”, con l’idea di dimostrarmi che la tratta di esseri umani nel mercato della prostituzione esiste … ma in realtà la cosa interessante di quell’articolo era il modo in cui la faccenda era iniziata: la ragazza aveva inizialmente scelto di fare la prostituta. Solo poi si era trovata intrappolata dal racket. Quindi , certo che si può fare la prostituta per scelta, è innegabilmente vero che ciò accada! Ed è possibilissimo affittare l’utero per scelta, è innegabilmente vero che ciò accada.

Certo, è vero che esistono situazioni di sfruttamento, anche violento, ad esempio nel caso della prostituzione; ma mica dove esistono situazioni di sfruttamento si abolisce un mestiere, è un’idea che suona folle non appena proviamo ad applicarla ad un qualunque mestiere “normale”: nessuno pensa che non dovremmo più avere muratori, ovvero gente che vende il proprio corpo come forza-lavoro, perché a volte sono immigrati clandestini ricattati e sfruttati dai datori di lavoro; non si spiega per quale ragione invece ciò dovrebbe essere valido quando si vende il proprio corpo ai fini di procurare soddisfacimento sessuale o supporto alla procreazione.

Il trattamento di riguardo riservato agli ambiti della sessualità e della riproduzione in realtà trova giustificazione in un vecchio adagio reazionario e sessista ben radicato nella popolazione: l’idea che il nostro corpo, soprattutto nella sua identità sessuata, tutto sommato non ci appartenga, che sia di Gesù, o della collettività. Be’, io penso invece che ci appartenga e che le donne siano perfettamente in grado di decidere da sé come gestire il proprio. E se una donna nella disperazione si rivolge all’utero in affitto per scappare dalla povertà il problema non è certo l’utero in affitto, semmai è la povertà, e non si risolve vietando l’utero in affitto, si risolve cancellando la povertà.  La donna potrebbe essere costretta a fare un lavoro sfiancante o che trova degradante e non desidera fare perché è a corto di alternative e altrimenti morirebbe di fame. Bene, allora lasciatemi fare una deduzione elementare su cosa accadrà se noi le impediamo di fare quel lavoro: uhm … morirà di fame, forse? Le abbiam fatto un bel favore a vietarglielo!

I problemi di legalità, di sfruttamento e di violenza nell’ambito della gestazione per altri si risolvono esattamente come si risolvono quelli nell’ambito della raccolta di olive: con lo stato che mette in campo i suoi migliori mezzi di contrasto all’illegalità, non certo tagliando la testa al toro con il “vietiamo tutto”.

Ora, oltre ai “poveri bimbi strappati in lacrime alle mamme” (perché si sa che i neonati non sono noti per piangere continuamente che piova o ci sia il sole) e “si sfrutta il corpo delle donne” (che invece dovrebbe restare sotto chiave, affidato alla sapiente protezione di preti e mariti), che sono roba tanto ridicola che mi dà fastidio rispondervi, non ho mai sentito altri “argomenti” contro questa pratica orrida, barbara, mostruosa, tremenda, perfida, nazista e puzzona.

Ma davvero, se venite a sapere di qualche argomento serio lo ascolto volentieri! Son tutto orecchi e non ho nulla da fare durante il ponte! Basta che non mi dite che “il problema è lo scambio di denaro, i bambini così sono venduti senza amore (ammmmoreh ❤ )”, perché anche se vi chiamate Fiorella Mannoia e siete gay friendly, la mia soglia di sopportazione per le melenserie retoriche prive di senso resta estremamente bassa.

Oddio, contenti, Adinolfi, Concia e Mancuso? Mi avete tirato per i capelli a parlare dell’utero in affitto. Fortuna che ho la mia tisana alla camomilla per questi momenti …

 

Ossequi.





Prove tecniche di teocrazia

3 12 2015

Scioccante e rivelatrice la levata di scudi del mondo cattolico integralista contro la docente che ha deciso di cambiare sesso.

Scioccante perché, tenetevi forte, perfino in Iran, una teocrazia islamica, il transgenderismo è ammesso e legale.

Rivelatrice perché in realtà abbiamo già insegnanti transessuali in Italia da anni, e per molti anni nessuno ha detto niente. Per quanto non sia un’esperienza di tutti i giorni, rientra tutta nel range della “normalità”. Solo oggi è diventata uno scandalo pazzesco, grazie agli strali di odio e al terrorismo psicologico dei talebani de ‘noartri. E il fatto getta luce ulteriore sulla già cristallina strategia degli adinolfiani: essi giocano sui pregiudizi sessisti ed omofobici preesistenti nella popolazione, cercando di farli emergere nuovamente al massimo livello di pericolosità.

Bisogna dire che gli italiani obbiettivamente vivono una dissonanza cognitiva: in media rispettano idealmente la dignità delle persone omosessuali e transessuali, al punto che ci convivono fianco a fianco; sono figli, amici, colleghi, genitori e parenti: l’italiano medio non odia il gay perché ne conosce uno. E tuttavia afferma tranquillamente che i gay non dovrebbero avere i suoi stessi diritti.

Tutto ciò ci ricorda Himmler che, nel discorso di Posen, spiegava al suo pubblico di gerarchi le ragioni del segreto attorno alla Shoah:

“Ed ecco che se ne arrivano, tutti i nostri ottanta milioni di tedeschi, e ciascuno di essi ha il suo bravo ebreo. E dicono: ‘gli altri tutti porci, ma ecco un ebreo di prima classe’.”

Ovviamente, però, se tutti quanti conoscono un bravo ebreo o un bravo gay o un bravo musulmano o un bravo transessuale, non è vero che sono tutti porci, e neanche la maggioranza. E qui sorge la contraddizione: perché, se davvero mi rispetti come umano tuo pari, mi dai pari diritti, è ovvio.
Noi LGBT infatti mettiamo in luce continuamente questa contraddizione, e diciamo agli italiani “guardate che, visto che idealmente ci considerate persone vostri pari, dovreste anche rispettarci concretamente attraverso diritti  e tutele”.
Gli integralisti cattolici del GIENDER, dal canto loro, si muovono in direzione opposta, ma dobbiamo rendergliene atto, col medesimo rigore logico: “italiani, visto che non siete disposti a rispettare concretamente gli LGBT, dovreste anche ammettere che sono pericoli per la società e che dovrebbero essere rinchiusi nei manicomi”. Che come discorso fila bene. In effetti l’incoerente qui è, come al solito, il middle voter, che nella dissonanza cognitiva sguazza beato e vorrebbe restarci ad libitum.

E, per corteggiare il middle voter moderato, gli integralisti cattolici cercano di presentarsi come moderati a propria volta. Salvo qualche pazzesco scivolone.

Per esempio, in questa deliziosa intervista, Satan… cioè, l’avvocato Gianfranco Amato (per l’occasione ribattezzato Giuliano da “Il Giornale”, evidentemente avvezzo a trattare con Amato di ben altra levatura se non morale, almeno politica) ammette con suprema lucidità che

“con i gay parificati ai neri e agli ebrei, dire che un uomo non può sposare un altro uomo equivarrà a dire che va impedito il matrimonio fra l’uomo bianco e la donna nera”.

Be’, sì, più o meno qui ha ragione. Siamo chiari, in realtà la legge Mancino già ora non è applicata quasi mai; basti dire che abbiamo la Lega Nord in Italia per rendersi conto del fatto che la Mancino già ora ha un valore quasi esclusivamente simbolico, e consideriamo che se va in porto la Scalfarotto sarà ulteriormente indebolita attraverso il salva vescovi. Quindi, malgrado godrei come una scrofa a vedere certe facce in prigione, non accadrà mai. Ma anche se concretamente lo scenario paventato da Amato non si realizzerà certo con la Scalfarotto, concettualmente il suo ragionamento, ancora una volta, non fa una grinza: se io dicessi che i matrimoni interrazziali sono un abominio sarei a tutti gli effetti un razzista, esattamente come dicendo che i matrimoni gay sono un abominio sarei un omofobo. Lineare.
E infatti Amato ci dice chiaro e tondo che omofobo lui lo è al 100%, e ci rende più chiaro il concetto istituendo un parallelismo logicamente ineccepibile fra la sua omofobia e il razzismo. Potrebbe quasi sorprendere il candore e l’onestà con cui dichiara al mondo di coltivare un’ideologia del tutto sovrapponibile all’Apartheid, ma io mi concentro maggiormente sul suo rigore logico, che è perfetto nella sua malizia. Sostanzialmente ci dice: “odio i gay, voglio discriminare e insultare i gay, voglio sottoporli allo stesso trattamento dei neri durante l’Apartheid, e voglio che me lo lasciate fare senza nessuna conseguenza”. Ma com’è moderato, lui!
Certo non si può dire che non sia stato chiaro e coerente. Peccato che adesso si è trovato dei consulenti di immagine che gli hanno fatto notare che non può dire quello che pensa in questo modo, altrimenti sono sicuro che ci regalerebbe molte altre perle …
E d’altro canto, qualche sospetto di essere di fronte a gente non proprio moderata ci era già venuto sentendo Costanza Miriano sperticarsi in lodi per Wladimir Putin, meritevole di aver de facto reso impossibile l’associazionismo gay e ogni manifestazione per i diritti LGBT nel suo paese.

Ma, se dopo aver letto dichiarazioni abominevoli come questa stessimo coltivando ancora dubbi su chi sono le persone come Amato, ecco che ora al banco di prova ci dicono chiaramente quale sarebbe la prima azione ufficiale se dominassero l’Italia: i transessuali insegnanti li licenziamo o li escludiamo a priori dall’insegnamento perché sono “pericolosi”.

Come gli ebrei ai tempi delle leggi razziali, e allo stesso livello delle teocrazie islamiche attuali o, perfino, peggio.

Quindi, ricapitolando: gay e transessuali non dovrebbero sposarsi e avere figli, non doverebbero poter insegnare, in più per loro dovrebbero essere sospesi i diritti costituzionali di manifestazione e di associazione. Se ci mettiamo dentro pure quello che scrisse Ratzinger nella sua famigerata lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, non abbiamo neanche diritto all’alloggio.

Fortuna che loro sono i moderati che rispettano la dignità degli LGBT, se no che facevano, ci buttavano direttamente nei forni?

 

 

Ossequi.





LA SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA

17 07 2015

Ho sempre pensato che, se spiego bene il mio pensiero, certi ovvi fraintendimenti non ci saranno, e nessuno prenderà sul serio certe apparenti “contraddizioni” in ciò che dico che in realtà sono solo frutto di lettura superficiale. E, al limite, ciò è vero; una volta che si sia capito tutto perfettamente anche le apparenti contraddizioni spariranno. Non è però vero all’atto pratico, specie se il fraintendimento affonda in concezioni filosofiche millenarie e ancor oggi molto vive …

Dunque sono passati due anni dall’apertura di questo blog, eppure l’unico post finora che abbia trattato specificamente l’apparente contraddizione fra il mio essere anti-omofobico e anti-antispecista insieme è uscito qualche giorno fa; e ora esce il secondo. Perché una contraddizione, seppur solo apparente, c’è, e va chiarita.

Difatti, vedrete che il più delle volte i filosofi o pseudofilosofi antispecisti sono pro-LGBT, e viceversa i filosofi o pseudofilosofi omofobi sono generalmente specisti. E nella mente di queste persone, l’associazione fra le due cose viene naturale e spontanea. Anche noi, a breve capiremo perché per loro è tale, e poi anche perché invece non lo è affatto per me e neanche, a ben vedere, nella testa del grosso della popolazione.

Intendiamo subito che in termini pratici la questione dei diritti LGBT non ha davvero niente a che vedere con questioni come il vegetarianesimo o la sperimentazione animale: a favore dei diritti LGBT e anche della sperimentazione animale: why not? Quasi tutti i miei conoscenti la pensano così. Omofobo e anche vegano: why not? Proprio l’altro giorno ho fatto un raccapricciante incontro con un’omofoba incancrenita che si dichiarava vegana. Le due cose possono tranquillamente andare insieme nella lotta politica e nella vita di tutti i giorni.

Per questo io ho fatto riferimento ai filosofi antispecisti, e ai filosofi omofobi, o per lo meno, quelli che si divertono ad atteggiarsi a tali. Perché parliamo di persone che hanno fatto la scelta, per una settimana o per la vita, per convenienza o per amore, di occuparsi principalmente dei problemi rigorosamente astratti della filosofia.

Prendiamo i problemi su cui si accaniscono gli antispecisti e gli omofobi: i primi mettono in discussione a vario titolo la netta linea di demarcazione uomo-animale, i secondi invece insistono su una categorizzazione estremamente, e aiutatemi a dire estremamente, rigida riguardo ai sessi: maschio-femmina.

Già ora dovremmo iniziare a cogliere qual è il fulcro del paragone che sto istituendo, ma facciamo qualche altra osservazione empirica prima di arrivarci. Gli attivisti a favore dei diritti LGBT (me escluso, ça va sans dire) spesso impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione maschio-femmina, utilizzando come testa d’ariete contro di essa una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e donna sono violati; ad esempio intersessuali, androgini, transgender, o anche solo donne “mascoline” e uomini “effeminati”. Ad essi gli omofobi rispondono generalmente con una severa riaffermazione della categorizzazione, che generalmente assume la forma dell’uso improprio dell’argomento della normalità. Gli antispecisti generalmente impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione uomo-animale, utilizzando come testa d’ariete una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e animale sono violati; ad esempio i famosi casi marginali. Ad essi gli umanisti rispondono generalmente riaffermando la differenza uomo-animale e la sua rilevanza al livello metafisico, spesso usando l’argomento dalla normalità in forma impropria (me escluso, ça va sans dire).

Dovremmo cominciare a vedere dove si va a parare, sbaglio?

Essenzialmente, omofobi e “specisti” si muovono nella direzione di affermare con forza e rigore l’esistenza di linee di demarcazione ontologiche che definiscono la realtà: maschio e femmina, con tutti i loro tradizionali attributi; uomo e animale, con tutti i loro tradizionali attributi.

Antispecisti e pro-LGBT (più che altro i queer theorist, a dire il vero) si muovono nella direzione opposta: il loro è un atteggiamento strutturalmente critico delle categorizzazione ideali.

Gli omofobi ripetono ossessivamente che maschile e femminile sono assoluti ontologici. Gli antispecisti negano continuamente qualsiasi valore effettivo alla demarcazione uomo-animale.

Ecco dunque la ragione dello scontro filosofico: gli omofobi sono realisti platonici, che danno una priorità assoluta alle idee nelle loro elaborazione, mentre gli antispecisti sono nominalisti di ferro, che si spingono indefinitamente oltre nella critica alla validità delle idee nel descrivere la realtà.

“Adaequatio rei et intellectus”; raggiungere l’identità fra il pensiero e la realtà, ecco lo scopo ultimo di questi filosofi, tutti. La differenza fondamentale fra antispecisti ed omofobi è che i primi vorrebbero modificare l’idea per adeguarla in maniera perfetta alla realtà, mentre i secondi vorrebbero modificare la realtà per adeguarla in maniera perfetta all’idea.

Lo scopo di entrambi è “alto”, anche se non molto utile. Ma il problema principale sono i mezzi, necessari, che essi sono disposti ad usare per raggiungere un tale altissimo scopo.

L’idea e la realtà non sono uguali. Non lo saranno mai. La realtà è mutevole e caotica, piena di sfumature, imprevisti, eccezioni e stranezza. Il pensiero è ordinato, rigido, definito, strutturato, e tende a preservarsi uguale a se stesso.

Non potranno mai essere uguali. L’intima natura dell’uno e dell’altro lo impedisce.

Non sorprende dunque se i filosofi dell’una e dell’altra fazione, all’estremo delle loro elucubrazioni, iniziano a sembrare completamente pazzi.

L’ossessione per le idee, portata alle sue estreme e naturali conseguenze, conduce a negazione della realtà. Gli omofobi per esempio insistono a pretendere che la realtà sia quella che sta nella loro idea: maschi e femmina, tutti cisgender, tutti eterosessuali, tutti stereotipati. Messi di fronte alla realtà che quest’idea rigidissima non si applica a quello che vediamo tutti i giorni, confrontati col fatto che esistono transgender, esistono intersessuali ed esistono omosessuali, essi li catalogano come “errori” e fanno finta di niente. Il che è follia pura se ci pensiamo un momento: stanno accusando la realtà di essere sbagliata rispetto alla loro idea. Stanno accusando la natura di aver commesso un errore, rispetto a loro che invece sanno come dovrebbe andare il mondo.

L’assurdo è abbastanza evidente.

E d’altro canto è chiaro a cosa conduce anche l’atteggiamento opposto, al collasso del pensiero. La distinzione fra uomo e animale non è perfetta (e quando mai ve ne sono in natura?), ma è sicuramente una delle più rigide che la biologia ci offra, visto che Homo sapiens è l’ultimo sopravvissuto del suo genere e il suo parente più prossimo (lo scimpanzé) dista milioni di anni di evoluzione da lui. Se si nega la legittimità del processo che consiste nel formalizzare una distinzione almeno verbale fra le due realtà, descrivendo le caratteristiche comuni fra gli umani che non sono normalmente presenti nell’animale, allora finirà che non potremmo neanche dire che una pera e una mela sono due cose diverse: sono entrambe dolci, sono entrambi frutti … e poi cos’è un frutto? Non è forse un fiore modificato? Allora come facciamo a dire che un fiore è un fiore e un frutto è un frutto?

Certo, se ci chiudiamo in camera, bendiamo gli occhi e tappiamo le orecchie ignorando così l’esistenza di qualsiasi cosa che non quadri con le nostre idee, abbiamo raggiunto l’identità perfetta di pensiero e realtà negando la realtà.

Certo, una volta che abbiamo smesso di usare qualunque categoria e qualunque idea e messo da parte qualunque pregiudizio, ovverosia abbiamo smesso di pensare e ci siamo ridotti a puro istinto, abbiamo raggiunto l’identità di pensiero e realtà negando il pensiero.

In entrambi i casi abbiamo vinto, abbiamo conquistato il nostro scopo … Ma il prezzo è stato un po’ altino. Ma che importa? Anche lo scopo era alto. E bisogna capire che il filosofo, che quasi sempre è anche un metafisico, ragiona in questo modo (o per lo meno, in questo modo ragionano i miei avversari): tutto gira intorno ad una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA, che a sua volta esprime in qualche modo quella dualità di approccio che ho descritto.

Dunque tutti i dibattiti particolari, che so, le adozioni a coppie omosessuali, la sperimentazione animale, l’eutanasia infantile, l’allevamento intensivo … non sono questioni che per se stesse siano degne di attenzione. Esse sono manifestazioni particolari, occasionali, di una latente SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA concernente l’adeguazione perfetta fra l’ideale e il reale, che essa sola è degna di attenzione. Dunque se io stringo un contratto di convivenza con un uomo invece che con una donna (perché il matrimonio è soltanto questo all’atto pratico: un contratto di convivenza e supporto reciproco), in realtà io sto affrontando la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione dei sessi! Cavolo, sono più potente d quanto pensassi, con una firma su un pezzo di carta io metto in discussione la natura stessa dell’uomo! Sono un Dio, cazzo! D’altro canto se faccio il dispetto di nascondere della carne nel piatto di un vegetariano non sto facendo solo uno scherzo deficiente, come pensavo, bensì sto affermando la mia posizione sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della demarcazione uomo-animale. Questo se sono fortunato, perché c’è caso addirittura che io stia dicendo la mia sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA dell’esistenza della violenza e dell’oppressione, che rende quindi sciocca e vacua la molto-meno-suprema questione filosofico-antropologica della distinzione uomo-animale!

Suppongo che se mentre mi succhio un’ostrica mi ingoio un granello di sabbia quello sia un atto metaforico della mia scelta di campo all’interno della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA del rapporto fra l’uomo e il suo pianeta; sono diventato Galactus il divoratore di mondi.

Alla luce di questa prospettiva si spiega faclmente l’atteggiamento che i miei avversari assumono immancabilmente verso di me. Se io dico ad una conferenza sulla sperimentazione animale che per me le questioni etiche in realtà sono questioni pratiche e politiche, ecco che “l’antispecista” avvocato Prisco (che sarà contento che finalmente sia riuscito ad imparare il suo nome) mi bacchetta:  “nonnonnò! Non puoi ridurre l’etica a una  volgare questione pratica, ad un semplice insieme di provvedimenti e decisioni provvisorie e circostanziali! È una cosa più ALTA, è una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA!”  (non saranno state proprio quelle le parole, ma quello era il significato). E dato che non ci sarà modo e tempo di rispondere, non potrò mai obbiettare che se non è una questione politica, e non è pratica, né tanto meno è una semplice scelta personale, e nemmeno ovviamente è teologia perché siamo atei, ma è comunque una cosa più ALTA … Allora non mi è chiaro che cavolo è. Ma di che stiamo parlando davvero? Quando è che la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA sarà giudicata abbastanza suprema da esser degna di discussione?[1]

Naturale che in questa ottica un po’ perversa necessariamente anche le questioni dell’omofobia e dell’antispecismo sussumono sotto uno stesso concetto universale, perché entrambe manifestazioni della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione categoriale che vede contrapposti Aristotele e Platone. Ed è dunque necessario individuare un metodo risolutorio di entrambe le questioni che risponda alla medesima formulazione della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Potrei benissimo dire che la questione dei matrimoni gay non ha nulla a che vedere con l’esistenza differenziata del maschile e del femminile, è semplicemente una scelta di convenienza sociale che renderebbe più piacevole vivere nella nostra società.

Potrei benissimo dire che la questione del vegetarianesimo ha a che fare semplicemente con un calcolo dei costi e benefici, personali e sociali, materiali ed emozionali, connessi al mangiar carne e al non mangiarla; e potrei dunque spingermi alla bestemmia suprema di affermare che fra me, che mi occupo di benessere animale ma non sono vegetariano, ed un vegetariano, non c’è nessuna suprema differenza filosofico-antropologica, ma solo una differenza nel grado e nel tipo di sensibilità rispetto alle questioni in esame.

Ma questo modo di ragionare è intollerabile per il “filosofo”. Per colui che ragiona da “filosofo” (che poi filosofo lo sia o meno è irrilevante) viene naturale come il respiro ricondurre il tutto ad un’unica suprema questione di somma astrazione. Un’astrazione tale che, se sottoposta ad uno scrutinio attento, si rivela vuota.

A ciò io contrappongo la mia modesta, e proprio per ciò blasfema, proposta: e se invece ci accontentassimo di qualcosa di meno della risoluzione perfetta della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA? Se ci accontentassimo di ottenere un’uguaglianza approssimata fra pensiero e realtà, una somiglianza utile per i nostri scopi da adottarsi nei singoli casi specifici che dobbiamo affrontare?

Da quando mi occupo di biostatistica (non è un caso che questo sia diventato il mio mestiere: applicare perfette idee astratte ad una realtà mutevole e caotica …) non ho mai dimenticato la mia prima è più importante lezione: “un modello non è vero o falso, solo utile o meno utile”.

Quando descrivo i miei dati con un modello lineare sto solo dicendo che esso li descrive abbastanza bene da venire incontro a certi miei scopi.
Non sto dicendo che nella realtà le cose siano esattamente come le descrive quel modello; se volessi cambiare il modello per aderire perfettamente alla realtà avrei da lavorarci per millenni prima di poter inserirvi dentro tutte le (letteralmente) infinite variabili che lo determinano; se pretendessi invece che la realtà sia descritta perfettamente e senza alcun errore da quelle tre-quattro variabili che ho messo nel modello, farei un errore grosso come una casa, e non riuscirei mai a spiegarmi come mai quel farmaco che secondo il modello funzionava su qualche paziente invece non ha funzionato: “ah be’, la natura avrà sbagliato, mica io!”

Il mio modo di muovermi è strettamente pragmatico: cerco quella teoria che è al tempo stesso ragionevolmente “esatta”, perché contiene più informazioni possibile sulla realtà, e anche ragionevolmente “economica”, ovvero sia ancora di applicabilità abbastanza generale da essere di una qualche utilità pratica.

“Ma questa non è filosofia, è scienza!”

“Ma questa non è filosofia, è solo buon senso!”

Sapete che vi dico?

Avete perfettamente ragione!

Questo è il modo di procedere della scienza, che cerca di creare teorie che siano un compromesso fra la generalità e l’esattezza. E la scienza, come disse il saggio, “non è che buon senso accompagnato da solido ragionare”.

La scienza si sa accontentare del proprio essere approssimata. È la filosofia (o meglio, il resto della filosofia, visto che la scienza è una branca della filosofia) che non sa accontentarsi, è la filosofia che pretende che idea e realtà siano perfettamente identiche, ed è disposta a qualunque cosa pur di ottenere ciò.

Sono dunque consapevole che la mia posizione mi sistemi a margine dei dibattiti filosofici di cui sopra, per non dire fuori da essi. Ho notato in passato che gli antispecisti non mi rispondono mai, e neanche gli omofobi. La ragione principale per cui non lo fanno è sicuramente che non vogliono farmi pubblicità (perché non dimentichiamoci che ci sono battaglie politiche in corso qui, e quando c’è la politica in mezzo, la filosofia e l’amore per il confronto possono andare a farsi fottere, una lezione che ho imparato sulla mia pelle), ma è anche vero che non avrebbero nulla da rispondermi, perché io non entro nel “loro” dibattito filosofico. Piuttosto nego che il presupposto stesso di quel dibattito sia corretto, non mi interessa la loro SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Quando mi capita di confrontarmi con questi soggetti in contesti in cui non possano svicolare agevolmente, mi trovo sempre in situazioni divertenti, perché mi scagliano addosso argomenti che non sono rivolti a me, ma “all’altra fazione”!

Gli omofobi mi accusano di voler cancellare la distinzione fra uomo e donna, quando io stesso ho criticato quel tipo di estremismo molto apertamente in passato; mi gettano addosso contro-argomenti per argomenti fondati sulla critica delle idee e che io non ho mai formulato o non in quella forma. Non è con me che se la prendono, il loro avversario predestinato non sono io.

E ovviamente non sono neanche l’avversario predestinato di un antispecista, come spiegavo qui. Io non ho mai affermato “il salto ontologico” fra uomo e animale, ad esempio; non ho mai neanche affermato l’impossibilità di concedere agli animali alcuni diritti, men che meno ho mai parlato di valore intrinseco dell’essere umano. Mi attaccano con argomenti che sembrano fatti apposta per rispondere ai metafisici cattolici, e probabilmente lo sono, ma che semplicemente non riguardano il sottoscritto.

La verità vera è che per chi è immerso fino alle orecchie in quel tipo di dibattito astratto ciò che dico è semplicemente non pertinente. Il loro è un dibattito filosofico in senso stretto, il mio è un discorso che in senso stretto è pratico-scientifico. Ovviamente, in senso lato anche il mio discorso è perfettamente filosofico, più filosofico del loro volendo, ma sicuramente più fisico che metafisico. Perché anche i filosofi che con più violenza si scagliano contro le “idee” sono comunque filosofi: idee sono le loro armi e idee è il loro pane, e di conseguenza rispetto ad uno scienziato resteranno sempre più “astratti” e più “metafisici”.

Dunque, non mi vedranno mai come un avversario filosofico, ma sempre e solo come un avversario politico. Il che, se vogliamo, è un riconoscimento di valore ben più grande. Penseranno che dal punto di vista filosofico io sia “contraddittorio” e non sapranno in che squadra mettermi.

E non verrà mai il giorno in cui capiranno che io non sono in nessun squadra perché non sto giocando al loro stesso gioco

Ossequi.

[1] In parentesi, dobbiamo notare anche che se davvero poi tu imposti il discorso come dicono loro, e cioè con una rincorsa all’astrazione sempre maggiore, ti accuseranno di aver “estremizzato il ragionamento in maniera illegittima”, un’accusa che ho ricevuto mille volte in risposta al mio video su youtube. Quindi devi essere più astratto di quanto non sei, ma comunque non più di quanto lo siano loro se no stai esagerando. Insomma devi fare esattamente come dicono loro per fare bene.





L’ultima roccaforte

22 06 2015

L’altro giorno mi sono infilato in un dibattito fra alcuni amici che si domandavano se la lotta contro il “gender” sia più una lotta omofobica o maschilista. Ovvero: l’obbiettivo finale degli integralisti cattolici è relegare al silenzio e all’emarginazione il popolo LGBT, o rimettere in discussione la parità dei sessi?

Io dico tutt’e due. Ma, e lo dico da LGBT maschio, l’obbiettivo più grande ed importante per loro è di gran lunga il secondo. Sì, è vero, l’omosessualità li schifa perché per loro è inconsueta, perché sono conservatori, hanno la mente chiusa, e infatti di solito sono anche razzisti, di estrema destra eccetera. Sì, questo è giusto. Ma c’è di più, il crimine dell’omosessualità non può consistere semplicemente nell’essere “inconsueta”. Il suo vero crimine è che essa infrange l’ordine, che si vuol far passare per “naturale” e invece è esclusivamente di natura sociale, che vuole la donna penetrata e sottomessa, e il maschio penetratore e dominatore.

Molti etero si disgustano al pensiero di due uomini che fanno sesso, ma si eccitano al pensiero di due donne che fanno sesso. Perché ciò? Non sono forse entrambe le cose contro la loro concezione di “natura”, ovvero contro la consuetudine penetrativa cui essi si sono abituati? Il problema non è quello, quella al massimo è un’aggravante. Il problema è che un uomo che penetra un altro uomo ricorda all’uomo che egli stesso è penetrabile. E se egli è penetrabile come una donna, è messo in crisi il rapporto di potere che lo posiziona al di sopra della donna, è messo in dubbio il suo ruolo di dominatore.

L’antisessismo è strettamente collegato alla lotta all’omofobia. Per la precisione, la fine dell’omofobia discende naturalmente dalla fine del sessismo. Gli integralisti religiosi lo sanno, e io qui mi gioco una mano o anche due di aver capito perfettamente il loro gioco, anche meglio di loro stessi: non stanno usando il maschilismo come scusa per diffondere omofobia, stanno piuttosto usando l’omofobia che già c’è in giro per tentare di ricostruire un sessismo in disgrazia. Si parte da “i bambini hanno bisogno di una mamma e un papàaaaaaaa!”, ma si vuole finire a “sposati e sii sottomessa” della Miriano; ovvero si vuole tornare a definire un rapporto di dominio a favore dell’uomo rispetto alla donna.

Il famoso “Gender” che si farebbe nelle scuole, se andate a vedere davvero che cos’è (quindi non sui siti cattolici) consiste quasi interamente nella lotta agli stereotipi di genere che vogliano la donna fragile, sottomessa e casalinga e guai se non lo è, e l’uomo tosto, virile, conquistatore e militare, e guai se non lo è.

Ha a che fare con l’omofobia, ciò? Sì, l’omofobia deriva direttamente dalla rigida, spietata suddivisione dei ruoli di cui sopra. L’omofobia coltiva e accresce l’idea che quell’unità sociale fondamentale che è la famiglia possa funzionare solo sulla base della differenza inconciliabile, e sottolineo inconciliabile, dei ruoli maschile e femminile. Infatti non si può ragionevolmente mettere in dubbio che, se un uomo può essere dolce, sensibile, accogliente e delicato quanto una donna, e una donna può essere dura, rigorosa e autorevole quando un uomo, allora le coppie omosessuali possono crescere dei figli benissimo, visto che due donne o due uomini potranno fare le stesse che farebbero un uomo ed una donna. Deduttivamente, ciò è molto rigoroso, e visto che teoricamente siamo tutti d’accordo che lo stereotipo della donna delicata e sensibile e dell’uomo tosto e autoritario è violato così spesso da essere inconsistente, la conclusione di cui sopra dovrebbe anche essere banale. Se uno è davvero antisessista, allora riterrà che le differenze di ruolo fra uomo e donna, che pure possono sussistere in un certo numero di casi, siano superabili o conciliabili, è dunque sarà anche a favore di quelle forme di famiglia che prescindono da queste differenze.

Ma questo passaggio che ragionevolmente è immediato non sempre è immediato emotivamente. Dopotutto, non abbiamo forse notato mille volte come a fronte di un numero di vegetariani sotto il 5%, la grande maggioranza della popolazione si dica contraria alla caccia? Suona assurdo, ma solo perché stiamo ipotizzando che il cervello umano non tolleri le contraddizioni, e invece spesso ci convive benissimo.

Dunque, abbiamo casalinghi che si occupano dei bambini in ogni casa, e poliziotte che malmenano i malviventi ad ogni angolo di strada, e nessuno batte ciglio; ma centocinquantamila persone si radunano in una piazza con magliette rosa e azzurre per dirci che i sessi sono troppo diversi e dunque non è possibile che un uomo faccia il mammo e una donna faccia la papà, e non possiamo dire alle femminucce che possono essere poliziotte, e ai maschietti che possono stirare le camicie.

Qual è il trucco che rende possibile questo assurdo? Si basa sul fatto che la gente è ancora diffidente riguardo alle coppie omosessuali per solleticare il pregiudizio sessista che essa già cova in principio.

Nonostante ormai sappiamo bene che donne e uomini, seppure in media differenti sotto certi aspetti, sostanzialmente sono in grado di fare le stesse cose, possiamo ancora fare finta che così non sia. Diciamo, dunque, che il matrimonio dev’essere solo fra uomo e donna, e questo è il nostro gioco di prestigio, la nostra finzione. Questo puntiglio di principio del mantenere il matrimonio “com’è sempre stato” serve al solo ed unico scopo di permettere la sopravvivenza dello schema mentale sessista, così com’è sempre stato.  Perché da “le donne sono geneticamente irriducibilmente diverse” a “le donne sono geneticamente e irriducibilmente delle lavastoviglie umane” il passo è un epsilon piccolo a piacere. Ma se due donne si sposano e crescono figli, allora l’idea che le donne siano state messe su questa terra per stare sottomesse ai maschi e dar loro eredi è definitivamente caput; non possiamo più neanche fingere che sia così, la verità ci viene sbattuta sul muso.

L’omofobia è dunque l’ultima roccaforte del sessismo. Gli integralisti cattolici cercano di difenderla, ma non pensiamo che per loro essa valga qualcosa di per sé: nei loro sogni più selvaggi ed autentici da quella roccaforte parte la Reconquista, da lì si arriva un giorno a trasformare il mondo intero in una magnifica distesa di piccole ed eleganti Stepford.

Il loro parziale successo, ancorché limitato, è significativo, e più che scoperchiare la voragine di omofobia che ancora cresce e vive in Italia (di cui tutti già sapevamo) apre il Vaso di Pandora del maschilismo che ancora cresce e vive in Italia.

Ma quello è un mondo, fortunatamente, morente. Le donne non ci stanno più a fare le casalinghe di Stepford, perfino la Miriano in realtà è una donna in carriera; e, non sorprenda, neanche i maschi ci stanno più a sentirsi dire o dare ad intendere che mamma e papà sono tutti e due genitori, ma la mamma è un po’ “più genitore” di loro.

Se finirà il petrolio o una guerra nucleare distruggerà la civiltà, allora l’umanità tornerà nelle caverne, allora la forza bruta del maschio ristabilirà i vecchi ruoli sepolti dalla storia; Costanza Miriano avrà modo di riscoprire cosa significa davvero la sottomissione e probabilmente noi finocchi torneremo al rogo.

Ma se ciò non accadrà, anche l’ultima roccaforte cadrà.

Ossequi.