L’horror giapponese, tipicamente, si distingue da quello occidentale soprattutto per la sua maggiore attenzione agli aspetti psicologici. L’orrore made in Japan spesso non è un rappresentato da un mostro che ti insegue, quanto da un male che ti porti dentro, e non ti distrugge coi coltelli, ma col veleno.
E uno dei maestri indiscussi del genere è il mangaka Junji Ito.
Il sottoscritto lo ha scoperto per caso alcuni anni fa, incuriosito dall’aver letto il suo nome in alcune wiki. Dicevano fosse terrificante, ma i riassunti delle sue opere erano molto vaghi e non sembravano particolarmente orrorifici. Immaginate la sorpresa quando mi sono ritrovato, uomo adulto, vaccinato e non molto impressionabile, ad avere difficoltà a prendere sonno dopo aver letto una delle sue storie brevi più celebri: l’Enigma di Amigara Fault.
Trovo che il genere horror sia incredibilmente rivelatore rispetto al funzionamento della nostra psiche, e che Junji Ito sia, in tal senso, un genio (del male?) della psicologia. Dunque in questo piccolo saggio farò un breve excursus sull’autore, che illumina secondo me una serie di riflessioni interessanti sulla psiche umana, cominciando proprio da L’enigma di Amigara Fault (Attenzione: tanti spoiler).
La storia de l’Enigma è piuttosto bizzarra. La premessa è la seguente: in seguito a un forte terremoto emerge dal terreno una faglia. Niente di strano fin qui, se non che sulla parete piatta e omogenea spiccano decine o centinaia di buchi a forma di silhouette umane. I buchi in questione continuano indefinitamente all’interno della montagna, al punto che con una normale sonda non si riesce a raggiungerne il fondo. Ma la cosa ancora più strana è che questi buchi sono fatti a forma di specifiche persone. Vicino alla faglia si conoscono i due pratogonisti, Yoshida e Owaki. I due hanno saputo della faglia tramite la televisione, e hanno sentito un irresistibile desiderio di andare a vederla; una cosa comune a molti altri, tanto che intorno alla parete si è formato un assembramento di persone che sono lì esattamente per la stessa ragione-non-ragione. Appena arrivati l’incubo inizia: presto si scopre che molti di quelli che sono arrivati lì lo sono perché hanno creduto di intravedere in TV un buco che ha esattamente la loro forma. Uno alla volta, i presenti vanno alla ricerca del “proprio” buco e ci entrano, di propria spontanea volontà, sparendo nelle profondità della montagna per non essere mai più rivisti.
Non passa molto perché Yoshida trovi anch’ella il proprio buco. Di fronte ad esso, la ragazza ha un inspiegabile attacco di panico; inizia a dire che quel buco è stato fatto per lei, che l’ha aspettata per intere ere geologiche, che lei prima o poi ci finirà dentro e resterà intrappolata come gli altri. Owaki la rassicura e dispone una serie di pietre a tappare il buco per mostrarle quanto non ci sia pericolo; e poi, come potrebbe mai la ragazza finire nel buco, se non entrandoci volontariamente, cosa che chiaramente non farebbe? Yoshida sembra tranquillizzata; i due passano due notti insieme, sta chiaramente nascendo qualcosa fra loro. Alla seconda Owaki si sveglia, Yoshida non è accanto a lui. Preda di un terribile presentimento, accorre al buco di Yoshida: la ragazza ha rimosso le pietre, si è spogliata e ci entrata dentro. Mentre si dispera, domandandosi il perché di quel gesto folle, Owaki incrocia con lo sguardo un altro buco: questo è il suo. Con calma, quasi stoicamente, scorda la tristezza, scorda in effetti qualsiasi emozione, si spoglia e vi entra, scomparendo a propria volta. Entrambi subiranno un fato peggiore della morte.
Yoshida va nel panico davanti al “suo buco”
Non a caso questa è una delle storie più celebri di Junji Ito, nonché quella da cui parte il mio excursus. Contiene quasi tutti i temi cari all’autore. Il più potente e più sentito è il tema dell’inevitabilità del destino: finirai in quel buco, ti ha atteso da milioni di anni e lì dentro finirai. Inevitabilmente. Poi va a toccare praticamente tutti i terrori primordiali dell’uomo: l’isolamento, la claustrofobia, la nictofobia, il body horror. Ma la cosa che colpisce di più me, personalmente, è l’aspetto psicologico: l’orrore della compulsione.
La gente entra in quei buchi non perché costretta o non cosciente: vi entra perché ha un irrefrenabile desiderio di farlo, sente di doverlo fare, e vi entra di sua spontanea volontà. Yoshida è terrorizzata dal buco non perché teme che la insegua, cosa che un buco non può certo fare, ma perché sa già, al livello subcosciente, che sarà lei stessa a gettarcisi dentro, presto o tardi.
Se lo sa, perché non lo impedisce?
Ed è qui che si rivela il genio psicologico di ito. Quei buchi sono una manifestazione della forza più oscura, terrificante e potente che controlla l’esistenza umana: la marea informe, caotica e irrazionale dell’inconscio. Yoshida non vuole razionalmente e coscientemente entrare nel buco, ma il suo inconscio lo desidera con una potenza cui, semplicemente, ella non può resistere. L’inevitabilità di quel destino tragico risiede nel suo provenire non da fuori, ma dall’interno. È un male che ti sta dentro, ma non come un Mr. Hyde, che assume contorni definiti e perfino diventa indipendente da te: è un male che fa parte di te, che sei tu: Yoshida e Owaki entrano nel buco. Entrano perché lo vogliono, il loro inconscio lo vuole; e lo vuole perché deve punirli di un orribile crimine che hanno commesso in qualche vita precedente… ma questo crimine orrendo è anch’esso un crimine inconscio; non lo ricordano, non sanno neanche di che si tratta, e sappiamo che esiste solo perché… Owaki lo ha sognato. Il sogno finestra sull’inconscio. Dice qualcosa?
Tutto ciò che accade sfugge al controllo razionale, eppure sta accadendo tutto dentro di loro, ovvero nel posto sul quale dovrebbero avere il più grande controllo. Il terrore qui è scatenato dal fatto che Junji Ito ci mostra delle persone che non solo non hanno potere su ciò che accade intorno a loro (magari perché vittime di mostri, vampiri, spettri), ma che soprattutto non ce l’hanno su quello che succede dentro di loro. L’orrore sono loro.
Ci sono ancora un paio di temi importanti da sottolineare, qui; quello che trovo più interessante e più necessario a capire Junji ito è il ruolo dell’amore e della sessualità nelle sue opere.
Che ruolo ha l’amore, il calore degli altri esseri umani, ne “l’Enigma di Amigara Fault”? Owaki rassicura Yoshida e le da amore. Le dà anche un’elegante e tranquillizzante spiegazione del suo terrore per il buco: Yoshida è sempre vissuta sola, e per lei il buco rappresenta la solitudine. Ma ora non è più sola, non ha quindi più nulla da temere.
Ma Yoshida scappa silenziosa durante la notte e si infila nel suo buco di suprema solitudine. E subito dopo Owaki finisce a sua volta nel proprio buco.
L’amore qui è una promessa disattesa; il calore degli altri esseri umani non può aiutarti in alcun modo, se tu hai un buco che ti attende da quando sei nato, e hai l’ansia febbricitante di riempirlo. Yoshida e Owaki ripudiano la vicinanza reciproca in favore dell’autodistruzione, perché semplicemente questa viene da dentro di loro, e dunque è più forte dell’amore che invece sta fuori.
Ma c’è dell’altro da notare, e io mi concentrerei su questo aspetto, che vedremo anche nelle altre opere: il male, in Junji Ito, è spesso femmina. I buchi sono il male ne l’Enigma, e il buco freudianamente parlando è femmina. E esercita il suo male in modo femmineo, passivo: non ti insegue come il mostro di uno slasher movie, si limita ad attenderti, a spalancartisi davanti, ad attrarti come una pianta carnivora. E una volta che gli sei… che le sei entrato dentro, ella ti intrappola. E non ti uccide, fa molto di peggio: ti trasforma in un orrore vivente, tramuta la tua esistenza in agonia.
Ma se il male de l’Enigma è femmina metaforicamente, il male di “Tomie”, altra grande opera di junji Ito, è femmina nella maniera più esplicita; e non si può parlare di sessualità e amore in Ito senza parlare di Tomie. Tomie è la protagonista/antagonista di una lunga serie di racconti di Junji Ito; si tratta di una ragazza che ha il potere di sedurre invincibilmente qualsiasi uomo. Un solo sguardo di Tomie ti trasforma nel suo schiavo d’amore. Come usa Tomie questo potere? Per conquistare il mondo? Per ottenere denaro e fama? Nulla di tutto ciò: lei vuole solo ottenere una schiera infinita di schiavi d’amore; vuole sedurre e torturare psicologicamente qualsiasi uomo sulla terra; e questa sua fame di amanti non si ferma davanti a niente, non ha remore nemmeno nel darsi alla pedofilia e sedurre e molestare perfino i bambini. Ma il tratto più peculiare di Tomie, che la distingue dalla maggior parte delle “Sirene” e delle “Streghe” della fiction, è a cosa portano le sue azioni: gli uomini che ne cadono vittima vedono la loro passione crescere inesorabile; parallelamente, Tomie mette presto da parte la dolcezza iniziale e diventa sempre più gelida e sprezzante: maltratta, insulta, disprezza apertamente i suoi amanti, e ovviamente li tradisce con centinaia di altri. Questo, inevitabilmente, porta i suoi amanti a odiarla sempre di più e ad esserne sempre più gelosi, il che alla fine si risolve con un omicidio: Tomie viene sempre uccisa dai suoi amanti, e generalmente fatta a pezzi. Ma non ci si libera così facilmente di Tomie, per due ragioni: la prima è che la sua influenza è permanente, chi ne cade vittima una volta non è mai più capace di amare altre donne e vive tutto il resto dell’esistenza a desiderarla, spesso finendo ad autodistruggersi nel crimine. Ma soprattutto, Tomie rinasce sempre, anzi, si moltiplica: ogni pezzo di Tomie è capace di rigenerare una nuova Tomie per intero, identica alla prima. Non v’è dunque una sola Tomie, a questo mondo, bensì un intero esercito.
Nella storia “Il Pittore”, un artista innamorato cattura la “vera bellezza” di Tomie.
Anche qui Ito ci colpisce sotto la cintura, anche qui abbiamo un qualcosa che scatena il nostro inconscio, che ci rende delle persone orrende, ci distrugge la vita… Ma qualcosa che è dentro di noi, Tomie ci entra dentro. Al contempo, Tomie è il male femmina. La sua passività è totale, ella non fa altro che farsi corteggiare, gli uomini vanno da lei, non è lei che va da loro. La passività di Tomie è portata così all’estremo che rovescia la dialettica tipica dell’horror, in cui il carnefice uccide la vittima: qui il carnefice è ucciso dalla vittima. Più e più volte, in un ciclo infinito di distruzione e autodistruzione. Tomie, a sua volta, rappresenta essa stessa quel desiderio di cui è oggetto; ella brama la propria dissoluzione, ella vuole essere uccisa e risorgere ogni volta. Ella stessa è vittima di sé stessa. E non scordiamoci che, da brava femmina, è una forza proliferante, che si replica. Ma non a caso, la sua procreazione è asessuata, e ogni Tomie odia tutte le altre Tomie, perché le vede come rivali. Metaforicamente ma anche concretamente, dunque, Tomie odia sé stessa e vuole vedere sé stessa distrutta e fatta a pezzi; l’importante è distruggere anche tutto ciò che ha intorno nell’atto.
Dunque abbiamo due mali, i buchi e Tomie, che sono entrambi femmine e passivi, e il loro unico potere, l’unico modo in cui distruggono le vite intorno a sé, passa attraverso il farsi desiderare, attraverso il subire, attraverso la sollecitazione dell’inconscio altrui, attraverso il farsi penetrare metaforico. Ed entrambi non sono mostri (almeno, non a vedersi, ma provate a scattare a Tomie una foto…), ma una volta che ti hanno catturati trasformano te in una pervertita mostruosità.
Non è un caso, a mio avviso, la scelta Di Ito di riferirsi tanto spesso alla sessualità e all’amore. Sono temi ricorrenti per lui, è la ragione secondo me è piuttosto ovvia: nella sessualità e nel sentimento l’inconscio si manifesta nella sua forma più libera e selvaggia. Attraverso l’eros si scatena la follia in una forma che è quasi considerata accettabile socialmente. Ed è un eros che nel suo farsi ossessione e febbre, sublima, si spoglia di concretezza: notiamo bene che non si vede mai, che io sappia, Tomie fare sesso. Sembra che tutti i suoi rapporti siano effettivamente privi di una sessualizzazione concreta, e si potrebbe ipotizzare che Tomie stessa sia del tutto incapace di piacere sessuale. Chiaramente non lo cerca, quello che fa è farsi desiderare eroticamente, ma mai possedere o toccare per davvero, se non per farsi uccidere. Tutti gli uomini che la incontrano dicono di essere follemente innamorati di lei, nessuno di loro dice di desiderarla sessualmente e basta. E come accennavo prima, anche un bambino cade vittima di Tomie e delle sue molestie sessuali, ma malgrado ella lo baci perfino sulla bocca, lui la chiama “mamma” (Freud qui sborrerebbe). L’erotismo vero è proprio è dilazionato, è altrove: quello che conta qui è solo il possesso; e chi si possiede meglio di un bambino? È dunque naturale che Tomie sia anche pedofila, e nella storia “Il ragazzo” Ito viola uno dei maggiori tabù del perturbante, descrivendo con raccapricciante dettaglio gli effetti devastanti di quella che è un’autentica violenza sessuale su minore; e per di più coglie il nucleo della malvagità dietro l’abuso pedofilo, che non è l’atto sessuale in sé (Tomie si “limita” in effetti al bacio in bocca, sul piano fisico) né la violenza fisica (che Tomie non pratica mai in quanto naturalmente “passiva”) ma tutto il contorno manipolatorio, la disparità di potere, l’astuzia tossica del seduttore che perverte per sempre la concezione dell’amore e del sesso del futuro adulto. Tomie manipola il bambino, lo seduce, trovando nel fatto che sia un bambino non un limite ma semmai il divertimento di una vittima ancora più facile da plagiare.
Il tema dell’amore perverso, dell’amore come possesso e dipendenza, come ossessione, come follia, torna ripetutamente in Junji Ito (che comunque risulta felicemente fidanzato, a scanso di equivoci). Anche nell’altra opera per cui è forse più famoso, la raccolta di racconti “Uzumaki” (“Spirale”). In Uzumaki il male assume forma, letteralmente: una forma geometrica, quella della spirale. La pacifica città di Kurozu-Cho viene maledetta dalle spirali, collegate a tutta una serie di terrificanti eventi. Un uomo diventa ossessionato dalle spirali al punto da passare tutto il proprio tempo libero a fissare spirali, finché un giorno non si suicida in una lavatrice, trasformandosi così, fisicamente, in una spirale. La moglie, dal canto suo, sviluppa una fobia per le spirali, tale che si suicida nel tentativo di rimuovere le spirali dalle proprie orecchie.
Anche la scelta di questa specifica forma non è casuale: la spirale è il simbolo dell’autodistruzione. La spirale dell’alcol, la spirale della droga. A Kurozu-Cho la gente inizia ad essere divorata dall’interno da spirali, da vortici di autodistruzione che è impotente a fermare perché non vuole fermare davvero: l’unico a rendersi conto di ciò che sta succedendo è Shuichi, un ragazzo un po’ strano che è capace di “vedere” le spirali maledette, ma non viene mai ascoltato e dunque non può far altro che assistere impotente alla distruzione che si sparge incontrollata, alla discesa nella follia del mondo che lo circonda.
La storia forse più famosa di questa raccolta è “la Cicatrice”, in cui una bellissima ragazza di nome Azami inizia ad essere divorata viva da una cicatrice a forma di spirale che ha sulla fronte. Anche qui l’orrore fisico riflette quello psicologico: Azami conosce Shuichi, ma questi vede subito, grazie al proprio sesto senso, la spirale sulla sua fronte, anche se è ancora piccolissima: ne è terrorizzato, scappa da lei è le ingiunge di abbandonare subito Kurozu-Cho per salvarsi. Ma è troppo tardi, Azami è già maledetta. La sua spirale, la spirale psicologica di Azami, è un amore malsano per lo stesso Shuichi che si sviluppa immediatamente, non appena lo vede. Non solo i tentativi di lui di allontanarla falliscono, ma fanno solo aumentare l’ossessione di lei, che addirittura si trasferisce vicino a lui per potergli fare stalking meglio. La spirale non fa che crescerle dentro l’anima, e allo stesso tempo le cresce dentro il corpo, scavando un profondo buco sulla sua fronte. Parallelamente, è vittima della spirale di Azami anche il povero Okada, un ragazzo che invece è innamorato in modo malsano di lei e, nelle sue stesse parole, se ne sente “risucchiato”.
Azami divorata dalla spirale.
Alla fine, al culmine dell’ossessione, Azami usa Okada per riuscire ad avvicinarsi a Shuichi. L’inganno riesce, ma l’obbiettivo della spirale non è certo dar vita ad un rapporto: solo divorare tutto. La Spirale, che ormai ha divorato tutto il viso di Azami, risucchia dentro di sé anche Okada, uccidendolo, dopodiché, mentre Shuichi si rifugia su un albero, divora completamente la stessa Azami, che viene ridotta al nulla. Ritorna l’inconscio scatenato che si manifesta attraverso un’inestinguibile passione, un irrefrenabile desiderio narcisistico di possesso sessuale dell’altro che consuma tutte le persone coinvolte. Anche qui, la voce della ragione, Shuichi, si rivela del tutto impotente ad aiutare gli altri; e anche se riesce per ora a salvare sé stesso, non potrà riuscirci per sempre, soprattutto quando la spirale inghiottirà veramente ogni cosa…
Quindi l’amore per Ito è una promessa disattesa (l’Enigma), oppure una pulsione distruttiva e autodistruttiva mirata al possesso del prossimo (Tomie), una tossicodipendenza che ti risucchia via la vita (Uzumaki). Junji ito non offre niente di meglio?
Un pochino sì: qualcosa c’è nella storia “Twisted Souls”, sempre parte della serie sulle spirali. Due ragazzi vivono una storia d’amore tormentata perché ostacolata dalle rispettive famiglie, Romeo e Giulietta style. Anche stavolta Shuichi vede chiaramente la maledizione della spirale aleggiare sugli eventi. Un giorno i due amanti commentano su come le loro famiglie siano “avvinghiate” nel loro odio reciproco, e osservano per caso due serpenti intrecciati fra di loro: “combattono, come le nostre famiglie”, commentano lì per lì. Poi si rendono conto che non stanno affatto combattendo: sono maschio e femmina. Stanno facendo sesso. I due serpenti cadono nel vuoto, ancora avvinghiati fra di loro.
Sotto consiglio di Shuichi, i due decidono di lasciare la città. Finalmente una cosa sensata, pensano Shuichi e il lettore, ma le loro famiglie li fermano, li inseguono e infine li braccano su una spiaggia. Di fronte alla prospettiva di essere separati per sempre, i due ragazzi fanno qualcosa di folle e fisicamente impossibile: trasformano i propri corpi in forme nastriformi e si annodano inestricabilmente fra di loro, come i serpenti di prima. Nessuno potrà mai più separarli, nemmeno loro stessi. Le rispettive famiglie ora capiscono che il punto non è separarli, ma salvarli: ma è troppo tardi: come una specie di serpente a due teste, i visi malinconici, i due si gettano in mare per non essere mai più rivisti.
L’amore qui appare ancora come qualcosa di potenzialmente devastante e autodistruttivo, ma senza rinunciare, stavolta, ad un certo romanticismo di fondo: è chiaro che i due protagonisti vogliono soltanto potersi amare, genuinamente. Ma è altrettanto chiaro che la maledizione della spirale qui ha due facce: da un lato si manifesta nell’odio reciproco delle famiglie, dall’altro nell’amore dei due, che per reazione diventa malsano. Puoi vivere il tuo amore anche se le tue famiglie ti ostacolano, sembra dirci la storia, ma il prezzo sarà di annodarsi insieme, di diventare un unico inestricabile groviglio, una mostruosità a due teste… e scappare nel mare, esclusi da tutto e da tutti, profondamente infelici. Ma insieme.
Come potrebbe questa storia non toccare le corde del cuore di un omosessuale italiano? La fuga da una società malsana diventa un amore malsano, simbiotico, dal quale ormai è impossibile divincolarsi, anche volendolo. L’altro diventa tutto, si vive e si muore insieme.
I due amanti si “intrecciano”.
Per trovare un vero messaggio di speranza bisogna cercare una storia che parli esclusivamente di passioni d’amore: “Gli incroci”. In una città del Giappone, perennemente immersa nella nebbia, vi è la moda di praticare la crucimanzia: ci si ferma agli incroci nei giorni di nebbia e si domanda al primo passante qualcosa sul futuro di un amore; la formula è tipicamente “il mio amore porterà frutto?”, e la risposta è considerata affidabile, a mo’ di oroscopo. Purtroppo fra gli incroci, nei giorni di nebbia, si aggira un bel ragazzo vestito di nero dall’aria inquietante. I suoi pronostici sono sempre cattivi, e soprattutto si avverano sempre, in effetti sono più che altro delle maledizioni. Per esempio un giorno, Reishi, amica dei protagonisti Midori e Ryuusuke, fra cui c’è dell’attrazione, domanda al ragazzo degli incroci se l’amore dei suoi due amici porterà frutto. Il ragazzo le risponde che dovrebbe preoccuparsi del proprio, di amore. Da quel momento in poi Reishi si scopre follemente innamorata di Ryuusuke, che però non ricambia, arrivando al punto di perseguitarlo ovunque vada; a poco a poco l’ossessione la divora, inizia a perdere la salute, il viso si fa emaciato. Di fronte all’ennesimo rifiuto, Reishi si taglia la gola con un tagliacarte. Il tema ormai ricorre chiaro: l’amore che diventa la spoglia sotto la quale si nasconde un inconscio tormentato, una desiderio sopito di autodistruzione che culmina con la sua realizzazione massima: il suicidio.
La differenza qui è che Ryuusuke decide di contrastare il bel ragazzo vestito di nero con i suoi stessi mezzi: si veste di bianco e si aggira per gli incroci “intercettando” le vittime prima che incontrino il ragazzo vestito di nero, e dando loro ottimi consigli e parole di incoraggiamento. Un bel ragazzo vestito di bianco che ti dice qualcosa di bello, per contrastare un bel ragazzo vestito di nero che ti maledice e avvelena. Forse per la prima volta leggo in Junji Ito di forze spirituali positive che si scontrano con quelle di segno opposto e possono perfino vincere.
Ed è qui che sorge spontanea la domanda: nel mondo di Junji Ito è ammesso un inconscio positivo, che non cerchi di avvelenarci e distruggerci, ma invece di aiutarci? Sembrerebbe di sì, ma forse semplicemente a Ito non interessa molto parlarne, perché lui scrive horror e gli preme farci rabbrividire, non di farci sorridere. Il più delle volte, almeno.
La forza salvifica dell’amore vero fa capolino qua e là anche nel suo mondo così malvagio e caotico; di solito viene nascosto o assimilato da pulsioni malsane che lo rendono invisibile o addirittura lo convertono nel male assoluto… Ma a volte è comunque lì…
Forse si capisce meglio il punto di vista di Junji Ito sull’amore se si leggono i fumetti comici che ha dedicato ai suoi gatti e alla sua fidanzata: Junji Ito è un amante dei gatti, ovvero dell’indipendenza e dell’autonomia. Forse per questo ci mette in guardia da un amore che ti annulla e ti rende dipendente dall’altro, e da una sessualità predatoria che ti rende schiavo.
Consiglio recepito, Junji, consiglio recepito…