STAR WORDS: “L’uso sessista della lingua”

9 03 2021

Dal 2020 in poi alcuni aspetti della mi vita sono molto cambiati, e il più importante di essi è il mio rapporto con la mia bolla. Il 2020 è stato l’anno segnato dalla pandemia di COVID-19 e dall’esplosione della bomba del politicamente corretto, due questioni su cui mi sono trovato sul lato opposto a un po’ tutta la cultura di centro sinistra che sembra rappresentare la maggioranza dei miei lettori.

Amen and Awomen - 9GAG

Senza perderci per ora sulle questioni collegate al coronavirus, andiamo sul fronte del politicamente corretto, e in particolare sulla più grande cagat… pardon, intendevo, sulla questione più importante, centrale e controversa che è stata sollevata da sinistra ultimamente. E ovviamente non sto parlando di razzismo sistemico, diritti riproduttivi, violenza sulle donne, ma della declinazione femminile dei mestieri.

Il caso ritorna periodicamente alla ribalta ma in questo periodo peggio del solito, testimonianza imperitura di quanto durante il lockdown godiamo di troppo tempo libero, e recentemente il pretesto che ha riportato l’attenzione su di esso sono state le dichiarazioni di Beatrice Venezi, direttore dell’orchestra dell’Ariston, che ha dichiarato la preferenza per il titolo “direttore d’orchestra”, declinato al maschile non marcato, sul femminile “direttrice d’orchestra”.

Apriti cielo.

La poveretta non immaginava la gravità delle sue affermazioni, esternazioni ai limiti del nazismo che con poche parole hanno cancellato secoli di diritti delle donne, avallato femminicidio e burqa, peggiorato significativamente il riscaldamento globale e fatto piangere Gesù.

Riuscite a immaginare un tema più fondamentale su cui un progressista potrebbe decidere di concentrarsi? Letteralmente impossibile, suppongo.

Ora, sarebbe molto facile dire in questo caso che i problemi sono ben altri, ma verrei accusato di “benaltrismo”.

Il che mi permette di fare la prima importante precisazione a riguardo: asserire o implicare che certi problemi meno seri non debbano essere trattati affatto, nel nome del fatto che ce ne siano altri più seri, è un ragionamento chiaramente fallace: quello che chiamiamo “benaltrismo”, appunto. Questo però non significa che sia sbagliato in generale stabilire una gerarchia di rilevanza dei problemi e, sulla base di questa, assegnare delle priorità e stabilire una proporzione di risorse da dedicare alla questione. Che un discorso su come si declina al femminile una parola possa occupare i giornali per giorni rappresenta chiaramente un caso in cui il senso delle priorità nei discorsi e nei problemi va perduto, così come in generale la stessa tendenza è espressa da tutti i commenti indignati di femministi e femministe che trattano Beatrice Venezi come una specie di traditrice maxima colpevole di tutti i mali della terra. Rilassiamoci, tesori, “direttore” è UNA CAZZO DI PAROLA, non un omicidio.

Ma a parte questo, insistere sul fatto che i problemi siano ben altri, qui, sarebbe comunque ipocrita da parte mia, perché io non penso che le declinazioni femminili dei nomi siano un problema piccolo o di scarsa importanza: io penso che NON SIANO un problema, e che la proporzione delle risorse politiche e dell’attenzione pubblica da rivolgervi dovrebbe essere non “poco”, ma precisamente zero. E se mentre di suo il problema in sé è un non-problema, è un problema il fatto che il non-problema diventi un problema, non so se mi spiego. Ed è su questo ultimo aspetto che mi sento obbligato a intervenire.

Ma prima di procedere con l’esposizione della mia opinione a riguardo, occorre levare di torno alcune formalità. La prima di esse è: cosa dice la grammatica a riguardo?

STAR WORDS EPISODE I: THE GRAMMATICAL MENACE

Ora, alcune discussioni sui social mi hanno fatto scoprire che a questo riguardo, nelle bolle ideologiche “di sinistra”, si è sviluppata la credenza che usare il maschile per professioni svolte da donne sia sbagliato, e sia obbligatorio invece utilizzare il femminile. La Venezi, quindi, non avrebbe soltanto annientato secoli di lotte per l’emancipazione femminile, ma commesso anche un errore grammaticale. Il Lato Oscuro è potente in questa donna.

Questo sarebbe un interessante caso di studio su come si crea e moltiplica una credenza completamente infondata in comunità all’interno delle quali nessuno ti contraddice. Perché niente di tutto ciò corrisponde a vero. Ora dovrò dire delle cose che dopo averle dette sembreranno banalità, ma evidentemente è necessario ripeterle.

La prima cosa da fare è enunciare un principio generale su cosa significhi “grammaticalmente corretto”. La grammatica è un insieme di regole formali che ordinano il nostro linguaggio rendendolo comprensibile a tutti i parlanti. Poiché il principio centrale di funzionamento di ogni lingua è l’intendersi a vicenda, in realtà risulta corretto tutto quello il cui uso diventa abbastanza esteso e radicato da essere inteso da tutti con la medesima agevolezza e senza storcimenti il naso. Quindi, a priori, qualsiasi forma può essere corretta, se tutti la usano. Un caso particolarmente tragico che spesso cito a riguardo è la dicitura “il/un pneumatico”. Ragazzi, ma come cazzo fate a pronunciare un obbrobrio simile? È oggettivamente cacofonico perché obbliga a inanellare una “n” e poi una “p” e poi un’altra “n” senza nessuna vocale di mezzo, sembra il nome di un alieno. Eppure, vi garantisco che word non lo corregge, e la Crusca lo ha dichiarato accettabile, pur indicando la forma “lo/uno pneumatico” come più adeguata ad un registro formale. Questo perché è una questione di uso, e se lo usano tutti, raga’, sembra che mi toccherà sopportarlo.

E la Crusca, quando è chiamata a giudicare sulla correttezza di una forma o di un’altra, alla fin fine applica un primo metro che è di correttezza “formale”, ovvero se il costrutto sia coerente con norme sedimentate nella nostra lingua, e poi va a valutare se l’espressione contesa sia utilizzata e diffusa a sufficienza da potersi ritenere “corretta”.

Riguardo alla questione dei femminili dei nomi di mestiere la Crusca è intervenuta esclusivamente per dire che essi sono in generale “ben formati”, ovvero la loro formazione è compatibile con i principi noti della grammatica. Dunque, queste forme sono ammissibili.

Non ha però MAI detto che siano obbligatorie, necessarie, che non usarle sia un errore. MAI. E il presidente della Crusca, Marazzini, è intervenuto sulla questione posta da Beatrice Venezi per asserire che se “direttrice” sarebbe stato corretto, lo è anche “direttore”. Marazzini ha anche specificato che l’uso in questione si chiama maschile inclusivo, o maschile non marcato, che potremmo definire un uso del maschile in senso neutro.

Nella mia bolla ideologica si è diffusa di fronte a questa asserzione una risposta automatica, tipo quelle che metti nella mail: “MA IN ITALIANO NON ESISTE IL GENERE NEUTROOOO!”

Wow. Geniale. Tutti quanti esperti di linguistica. Ci vuole davvero una mente superiore per accorgersi che in italiano non c’è il genere neutro. Probabilmente questo sta in cima al podio degli argomenti più capziosi che abbia mai udito nella mia vita: ovvio che non c’è il genere grammaticale neutro in Italiano, ma in italiano, come in tutte le lingue, esiste un uso neutro dei termini. Non si può sempre specificare il genere sessuale di persone o animali; se io per strada ho visto un lupo non ho modo di sapere se sia maschio o femmina, quindi mi serve una forma che abbia un significato neutro rispetto alla questione. Poiché come molti argutamente notano in italiano il genere neutro non esiste, quel ruolo lo svolge il genere maschile, dunque “ho visto un lupo”, e non “ho visto una lupa” e nemmeno facezie tipo “ho visto un* lup*”.

Questo uso si chiama “maschile non marcato”: il genere grammaticale è maschile, ma include come significato tanto il maschile che il femminile. Quindi per neutralizzare i vari sofisti che ti inchiodano se ti permetti di dire che in Italiano c’è il maschile neutro, con un colpo di mano io dirò sempre “maschile non marcato”, facendo così esplodere come una scorreggia la loro potente retorica.

Chiaramente a decretare se il maschile non marcato sia corretto o meno o se sia preferibile o meno alle forme declinate sarà l’uso, ma è chiaro che in questo momento l’uso o il non uso non è ancora sedimentato in modo tanto preponderante da giustificare chi, da un lato o dall’altro del dibattito, voglia accusare il prossimo di star commettendo strafalcioni linguistici.

Dunque dire che la Venezi è “direttore d’orchestra” è corretto, grammaticalmente. Ma questo non la scagiona dal crimine ben più grave di cui la si accusa: ella ha letteralmente annientato secoli di lotte femministe.

Ma come ha fatto? Donde proviene questo straordinario potere?

Lo scopriamo subito.

STAR WORDS EPISODE II: ATTACK OF THE GENDERS

Tutto inizia, in Italia almeno, con un libro vecchio esattamente quanto me; “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” di Alma Sabatini.

Prevedibilmente l’origine di questo filone è fuori dall’Italia e come al solito gli italiani sono andati a copiare mode straniere anche in questo, ma in sostanza il saggio in questione è una lunghissima masturbazione intellettuale dell’autrice che è andata a spulciarsi Dio sa quanti giornali e annunci di lavoro per catalogarne uno per uno tutti gli usi del maschile non marcato o sovraesteso e dire “questo è il male”.

Non mentirò dicendo di essermi sottoposto alla tortura di leggermelo tutto, perché onestamente non rientra nei limiti della mia umana sopportazione riuscire a sottopormi ad uno sfracellamento di palle così esteso e approfondito. E non sarebbe servito, perché la questione che interessa a me quel testo non la tratta. Ho letto l’introduzione e scoperto che la Sabatini parlava di come la lingua influenza la realtà e il nostro pensiero, di quanto questa idea sia accettata da Tutti i Linguisti® (gli stessi Tutti i Linguisti® che pensavano che il maschile non marcato fosse sbagliato, ipotizzo) ma non pare si prenda il disturbo di fornire referenze che giustifichino questo argomento. Peccato che sia… come dire… IL FULCRO DI TUTTO IL DISCORSO?

Quella tesi del “linguaggio che influenza la realtà” l’ho sentita ripetere ad nauseam in questi giorni, ma nessuno me l’ha mai giustificata con dei dati. Il ragionamento che c’è dietro sembra essere che l’uso del maschile non marcato in qualche modo “invisibilizza le donne”, e poiché “il linguaggio plasma la realtà” – e altri luoghi comuni pseudofilosofici che non significano un cazzo di niente – questo in qualche modo propaga ed alimenta la sottomissione delle donne.

Come lo fa? Perché? In che modo si suppone che agisca?

Domande che uno in questi casi tenderebbe a porsi, ma cui nessuno perde troppo tempo a rispondere. A rigor di logica, è impossibile vedere un modo in cui un uso linguistico come il maschile universale possa influenzare la realtà in qualunque maniera. Come dicevo sopra, il maschile inclusivo è una convenzione linguistica, e in quanto tale si basa sulla comune intesa del suo significato, e il genere grammaticale stesso in generale è una convenzione: va da sé che una -a o una -o alla fine di una parola non abbiano alcuna implicazione sociale se non quella che vogliamo attribuirvi. Se è per questo, in italiano “il contralto” e “il soprano” sono termini di genere maschile, eppure contralti e soprani sono tutti femmine; in che modo questa nozione dovrebbe “plasmare la realtà” o alterare il pensiero o altre facezie di questo genere? Sono solo sequenze di suoni, mica evocano demoni. Se noi ci intendiamo che un contralto è una femmina quale altro effetto potrebbe mai avere quell’uso linguistico sulla nostra psiche?

Difficile rispondere ad un argomento che nessuno ha portato, a dei dati che nessuno ha prodotto, ad un’idea che nessuno ha supportato. Mi sono andato a cercare dei dati su questa presunta influenza del maschile inclusivo sulla psiche delle persone, e non ne ho trovati. Ho chiesto a chi conduceva questa crociata di portarmeli lui, ma nessuno lo ha fatto. Vi prego, lettori miei, se avete qualche dato che indichi 1) la correlazione fra maschile inclusivo e atteggiamenti sessisti e anche 2) il rapporto di causalità del primo verso i secondi, linkatemelo qui sotto. VOGLIO leggere questo lavoro rivoluzionario.

Anche perché sarebbe interessante capire COME CAZZO POSSA FUNZIONARE UNA COSA DEL GENERE. Perché onestamente, non si riesce a ipotizzare una plausibilità o un meccanismo di azione per questo presunto effetto. Normalmente il linguaggio è il sistema che permette di intendersi associando segni a idee: se io vado in Giappone, fermo qualcuno per strada e gli dico con un bel sorriso “sei un figlio di puttana” e poi me ne vado, quello, che non sa l’italiano, resterà un po’ perplesso, cercherà di indovinare cosa potessi voler dire, e non registrerà minimamente l’insulto. Questo perché non ha uno schema di significati da calarvi sopra e che gli permetta di trarne un senso. Non c’è l’intesa fra me e lui secondo la quale “figlio di puttana” è un insulto molto volgare. Questo meccanismo del quadro comune di significato è alla base dell’intendersi e dunque del linguaggio, è sulla base dell’intesa che il linguaggio esercita l’effetto. Non sulla base dei suoni, non sulla base degli intenti, non sulla base dell’etimo. Sull’intesa, solo quella.

Ora, sicuramente le parole plasmano i comportamenti delle persone, questo è così lapalissiano da non necessitare nemmeno di dati a supporto… ma lo fanno attraverso uno schema di significati. La parola evoca il suo significato nella mente dell’altro, è così che lo influenza. “Figlio di puttana” è un insulto se entrambi lo intendiamo come tale, ovverosia solo se io voglio usarlo come insulto e il mio interlocutore lo vede anch’egli come un insulto.
Ma con il maschile inclusivo lo schema di significato dice che quel maschile grammaticale ha un significato neutro, che comprende tanto il maschile che il femminile; non c’è nessuna “invisibilizzazione” o negazione delle donne, sono comprese nel significato. Rispetto al significato, l’unica differenza fra “direttrice d’orchestra” e “direttore d’orchestra” è che nel primo caso voglio specificare che la Venezi è una donna, e nel secondo invece potrebbe essere sia donna che maschio. Quindi questo crea un uso differenziale nel momento in cui io voglia dire, per esempio, “è la migliore direttrice d’orchestra del mondo” che avrà un senso diverso da “è il miglior direttore d’orchestra del mondo”: nel primo ci limitiamo ai direttori donna, nel secondo a tutti. E se invece volessimo dire che un uomo è il miglior direttore d’orchestra, ma limitatamente agli uomini? Allora dovremmo dire “è il miglior direttore d’orchestra uomo”.
Caspita, molto razzista nei confronti degli uomini dover aggiungere quella parola per specificare che parliamo dei maschi, vero…?

No, non è vero. Stiamo solo cercando di trasmettere significato e di capirci, non ci sono chissà quali malignità dietro. La Venezi preferisce enunciare il proprio ruolo senza accentuare il proprio sesso, ma ciò non significa che stia dicendo di essere uomo, o che solo gli uomini possono avere quel ruolo, o che non esistano direttrici d’orchestra donne (seriously? Ma come si fa a pensare un’idiozia simile?). Semplicemente affida alla regola grammaticale del maschile inclusivo l’intesa che potrebbe essere sia maschio che femmina.

Quindi sul piano del significato stiamo parlano letteralmente del nulla: “direttore” o “direttrice” differiscono esclusivamente per una sfumatura di enfasi sulla forma dei genitali della persona. “Il direttore d’orchestra” vuol dire “la persona che dirige l’orchestra”, maschio o femmina che sia. Fine.

Quindi, quale che sia l’influenza che si attribuisce a questo linguaggio capace di “plasmare la realtà”, la cosa strana è che questa influenza prescinde dal significato. Ovvero prescinde dalla funzione stessa svolta dal linguaggio, che è quella di intendersi.

Sì, il maschine inclusivo significa “neutro”, è il suo modo di funzionamento. Eppure, si dice, anche così in qualche modo avrebbe il potere di negare la femminilità. Viene attribuito qui, alla parola, un potere che trascende il suo senso, il modo in cui viene intesa. Vi è in essa un qualcosa di più, un aspetto ineffabile e sottile, subconscio, pervasivo ma impercettibile al tempo stesso.

Uhm.

Una filosofia del linguaggio in cui le parole hanno valore indipendentemente da come le intende chi le ascolta…

Dov’è che abbiamo già visto una cosa del genere?

STAR WORDS EPISODE III: REVENGE OF THE CAZZARIS

Oh, sì, scrissi fiumi di inchiostro per criticare la filosofia del linguaggio di Gualtiero Cannarsi, in un mio articolo che riscosse un discreto successo.

Forse me la giocavo troppo facile: dopotutto il lavoro di Cannarsi è evidentemente disastroso, quindi andare a spiegare quali sono i vizi filosofici che stanno dietro a quel disastro è semplicemente un esplicitare qualcosa che il lettore già sa e con cui concorda.

Non altrettanto immediato, però, è riuscire a capire nel profondo l’estensione e il significato dei vizi filosofici di Cannarsi, e quindi vedere gli stessi vizi se vengono applicati in altri ambiti, magari in modo meno plateale, più subdolo.

Il mio suggerimento è di andare a leggere l’articolo su Cannarsi prima di andare avanti, se non l’aveste già fatto; ma se non volete vi faccio un breve riassunto delle puntate precedenti: Cannarsi è un adattatore che presta la propria fenomenale competenza per gli adattamenti in italiano degli anime dello Studio Ghibli. Più che famoso è famigerato perché i suoi adattamenti sono caratterizzati da una strana e macchinosa traduzione letteralista: Cannarsi non tenta di tradurre il giapponese nella forma italiana che meglio ne riproduce il senso, bensì in quella che meglio ne riproduce la lettera (qualche esempio). I risultati sono quelli che si possono immaginare: non puoi riprodurre strutture sintattiche e costrutti specifici di una lingua alla lettera in un’altra lingua, ne esce fuori una roba che è incomprensibile nella lingua d’arrivo. Difatti, questo è quello che fanno i programmi di traduzione come Google Translate: prendono le parole e cercano la parola corrispondente in Italiano, perché non hanno la capacità di capire il senso e non sanno renderlo. Non cambiano l’ordine delle parole, non cercano il termine che renda meglio l’intento comunicativo dell’originale, non si sforzano di riprodurre le stesse impressioni e in generale gli stessi significati. E Cannarsi fa la stessa cosa, in un certo senso egli traduce cercando di non tradurre, traduce senza occuparsi di rendere bene il senso; egli sembra considerare la traduzione automatica fatta dai programmi appositi una specie di ideale regolativo.

La filosofia del linguaggio di Cannarsi, che nell’altro articolo paragonavo a quella dei letteralisti biblici, sarebbe quella secondo cui in un testo, in una sequenza di parole, il nucleo che conta di più non sia il significato, bensì un universo di rimandi e relazioni esterne fra le parole stesse, che sta nel loro ordine, nel loro suono, nella loro lunghezza e frequenza.

Ora, non è che i rimandi, le allusioni, gli echi, la storia e l’etimo di una parola non siano utili nella composizione o traduzione di un testo. Figurarsi. Sono importanti alla luce di quanto possono precisare e delineare meglio sfumature di senso… ma non fino a mettere in parentesi il senso, non fino a mettere il senso in disparte o perfino oscurarlo. Gli orrori linguistici di un ragionamento secondo cui nell’analisi del linguaggio si può accantonare il problema di cosa esso trasmetta, di cosa esso significhi, in favore di una fantomatica riverenza nei confronti della sua forma, sono autoevidenti: perdi il senso, scrivi cose che non significano niente.

E questo modus cogitandi cannarsiano è lo stesso che sta dietro tutte queste epiche battaglie contro il sessismo nella lingua. “Direttore d’orchestra” al maschile ha un significato neutro, è questo che significa e non c’è molto dibattito possibile a riguardo (specie se a usarlo in quel modo è proprio una donna che dirige l’orchestra, quindi non vi sono possibili ambiguità). Ma alcuni non sono contenti di ciò che significa, non gli basta, e vanno ad immaginare che quella forma possa rimandare ad altro: si guardano la storia, la sequenza dei suoni, l’etimo – generalmente in modo molto superficiale, peraltro – e iniziano a fare ipotesi sul perché e sul percome si usi un maschile grammaticale… e in tutta questa analisi viene però completamente cancellato il significato, e cioè quello di un’espressione che è neutra rispetto al genere.

Esattamente come Cannarsi si maschera da grande cultore di lingua e cultura giapponese e traveste i suoi pastrocchi da raffinati esercizi intellettuali, le riflessioni insistite ed ossessive sul genere grammaticale diventano anch’esse grandissime masturbazioni intellettuali che superficialmente paiono complesse e argute, ma di fatto non hanno alcun contatto con la realtà. Semplicemente, mentre a Cannarsi non riesce bene di farsi passare per genio e cultore della lingua, ai cazzari che impostano epiche battaglie per le sorti dell’umanità su di una convenzione grammaticale questa recita riesce un po’ meglio. Ma non vi sono differenze filosofiche: dietro la mascherata di grande avanzamento scientifico e sociale si nasconde una profonda regressione culturale che riconduce il pensiero ad uno stadio pre-linguistico, una condizione in cui segni e simboli non possono più essere compresi in quanto significanti, ma diventano formule magiche e riti.

Perché in effetti che cos’è la frase “il linguaggio plasma la realtà”, se non una dichiarazione di fede nella magia? La convinzione che segni e suoi influenzino la struttura della natura è alla base del pensiero magico primitivo. Questo non è progresso sociale, politico, scientifico. Molto banalmente, si chiama superstizione.

Conclusioni

E qui si ritorna all’inizio, quando dicevo che i problemi sono ben altri, e c’è chi molto a luogo fa notare che i problemi sono ben altri, ma nel frattempo su questo problema ho scritto sei pagine di word.

Ma d’altro canto, perché in passato ho scritto tanto anche su Cannarsi, quando a me gli anime dello Studio Ghibli manco piacciono particolarmente?

Perché se è vero che la desinenza di un sostantivo non cambia di una virgola la vita di nessuna donna o uomo della terra, e in questo senso si potrebbe semplicemente ignorarla, quello che non si può ignorare è il deterioramento filosofico che questa battaglia porta con sé. Di fatto, quando un dibattito del genere si impone sul pubblico, questo è sintomo di un generale abbrutimento intellettuale, di una perdita del contatto proprio con la lingua, con le sue funzioni, potenzialità e scopi, e in generale di un’involuzione delle nostre capacità di pensiero astratto.

Non ultimo, piantare grane epiche su queste sciocchezze ha tutta una serie di effetti collaterali pericolosi: si vanno a creare divisioni e conflitti politici gravi sulla base di temi di infima importanza, si fornisce agli estremisti un pretesto per incancrenirsi ulteriormente nelle proprie posizioni, e ci si aliena gli alleati. Personalmente, sono stato attaccato ed insultato per le mie opinioni abbastanza da alienarmi per sempre le simpatie di qualsiasi causa femminista, anche quelle che condivido, perché non ho intenzione di trovarmi affiliato o nella stessa squadra con dei nazisti linguistici pronti a darmi di fascio sulla base di una -a o di una -o alla fine di una parola.

In buona sintesi, queste battaglie linguistiche sono in primis inutili, in secondo luogo sono spesso semplicemente sbagliate (come quando si afferma erroneamente che il maschile non marcato sia scorretto), successivamente hanno presupposti filosofici viziati, e come se non bastasse scatenano conflitti che però possono avere conseguenze, queste sì, serie.

Con un rapporto costi-benefici così disastrosamente sbilanciato dalla parte del danno una persona intelligente una battaglia così la abbandonerebbe subito, o quanto meno ne smorzerebbe TANTO i toni.

Non che di persone intelligenti il mondo sia prodigo, purtroppo.

Ossequi.
E anche ossequie, dai, se no invisibilizziamo le donne.





La coperta corta di Malthus

9 12 2020

Cosa ci insegna la crisi del Coronavirus?

Che insieme, unito, il paese può affrontare ogni minaccia?

Nah. Più che altro ci insegna tutta una serie di orrende verità su come funziona la psiche umana e in particolare la psiche dell’occidentale del 2000.

Ma più ancora, pone una lapide su tutti i sogni più sfrenati di ecologisti e malthusiani.

Ma facciamo un passo indietro, di un annetto, quando l’argomento caldo (no pun intended) era il riscaldamento globale. Quando Greta Thunberg gridava appassionatamente che questi governanti le hanno rubato il futuro. Ma sono davvero stati loro? Cos’era questo futuro?

Il modello di sviluppo della società industriale, che sia esso socialista o capitalista non ha in realtà la minima importanza, si basa su una capacità dell’uomo di sfruttare le risorse ambientali che non ha precedenti storici prima del Novecento. Razziando cieli, mari e terre l’umanità ha iniziato a produrre quanto basta a soddisfare ogni suo bisogno e anche ogni suo capriccio, in effetti. E questa incredibile, inedita prosperità ci piace, non vogliamo rinunciarvi.

Gli ecologisti, infatti, ci dicono che dovremmo dare un taglio a tutto questo lusso, che non è sostenibile. Che presto non potremo più permettercelo, perché il riscaldamento globale distruggerà anche l’economia e il nostro stile di vita etc.

La soluzione proposta dagli ecologisti sembra essere: dobbiamo dare un taglio al nostro stile di vita ORA, altrimenti dovremo farlo DOPO.

Curiosamente questo argomento per cui dovremmo vivere da malati per morire sani non convince tanta gente. Qualcuno nota che, se dovessimo davvero dare un taglio drastico all’uso dei combustibili fossili, i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo sarebbero condannati a restare per sempre in miseria, e a parte che valli a convincere, forse non sarebbe neanche moralmente corretto convincerli a fare una cosa del genere.

Cioè, il punto è che noi vogliamo mantenere la prosperità in cui viviamo, e anche dell’ambiente ci interessa solo nella misura in cui ci è garantita la prosperità; non serva a nulla salvare l’ambiente senza la prosperità.

Purtroppo, però, la prosperità è una condizione per certi versi “innaturale”. La biologia dei viventi è adattata per farli abitare in uno stato di costante scarsità di risorse. Gli animali mangiano e bevono ogni volta che possono, non si mettono a dieta, e questo perché il cibo scarseggia sempre ed è faticoso procurarselo. E noi umani non siamo diversi, non siamo fatti per essere frugali, e difatti soffriamo delle cosiddette “malattie del benessere”, malattie collegate ad una sovrabbondanza di risorse che nuoce alla nostra stessa fisiologia. Quando ci troviamo in condizioni di prosperità noi non facciamo altro che mangiare di più, di solito, almeno finché il cibo non finisca.

Gli ecologisti suggeriscono invece di mettersi a dieta, onde preservare la prosperità, si direbbe; temono che le risorse finiscano e l’abbondanza cessi. Ma il punto è che qui si sta nuotando contro la biologia stessa: le popolazioni crescono e consumano all’infinito, non si mettono a dieta; non lo fanno i conigli e non lo fanno neanche gli umani. E anche se ci mettessimo “a dieta” e consumassimo molto di meno, continueremmo comunque a riprodurci e ad aumentare di numero. Se consumiamo la metà, ma diventiamo il doppio, non abbiamo fatto un gran progresso. Il problema è il seguente: la crescita di una popolazione è limitata soltanto dalla quantità di risorse. L’esplosione demografica è una conseguenza del benessere, non si sarebbe verificata senza sovabbondanza di risorse. Ma proprio per questo è destinata a “mangiarsi” quelle risorse e ad esaurire quella stessa sovrabbondanza. La crescita di una popolazione si ferma quando sono finite le risorse per crescere, a quel punto raggiungerà un equilibrio stabile. E così faremo anche noi.

E infatti gli ecologisti più sgamati digievolvono e diventano malthusiani, e questa è già una prospettiva più interessante – di cui sarà bello scoprire i limiti intrinseci.

Dunque, la popolazione crescerà fino ad un momento in cui l’ambiente non la reggerà più. Nel concreto: la finiremo di crescere quando i neonati ricominceranno a morire di fame o malattie. Non ha molto senso chiedere alla gente di rinunciare all’abbondanza ora per non dovervi rinunciare comunque dopo, no? Inoltre, se la popolazione continua a crescere, quegli sforzi si riveleranno comunque inutili.

E qui arrivano i malthusiani che trovano la soluzione perfetta: “e se facessimo meno figli?”

C’è del genio in quest’idea. Fare dodici figli non è una necessità per nessuno oggigiorno, né un desiderio. È preferibile averne due o tre, addirittura uno solo. Ora, se la popolazione smetterà di crescere o addirittura diminuirà perché facciamo meno figli, noi avremo trovato il modo di mantenere in eterno la prosperità: la nostra “dieta demografica”. Per far ciò basterebbe che ci mantenessimo sul tasso di sostituzione di 2 figli per donna: se ogni donna fa due figli la popolazione non cresce. In realtà, però, la vita media si allunga, quindi anche con due figli per donna in media la popolazione crescerà. Bisogna scendere sotto il tasso di sostituzione. Ma anche quello è perfettamente fattibile e ci stiamo già arrivando.

Quindi abbiamo la soluzione: un po’ di Malthus, facciamo meno figli, poi un po’ di Greta, andiamo di meno in aereo… e vivremo per sempre nell’abbondanza.

Be’… forse.

In realtà la vita ha un carattere ciclico, è nella sua struttura base: nascita, crescita, riproduzione e morte. Un sistema in equilibrio. Noi vogliamo andare a sopprimerne una parte: vogliamo bloccare le nascite. In sostanza, stiamo andando a mettere un tappo al flusso. Al contempo, però la vita media continua ad allungarsi. Supponendo che le dimensioni della popolazione rimangano sempre le stesse, il tappo alle nascite ridurrà via via la percentuale dei giovani e causerà un accumulo di anziani.

E non è bello tutto ciò? Dopotutto, cos’è l’anzianità se non il più grande lusso che l’umanità si concede? Il gatto che non si può riprodurre e che non ci vede più abbastanza bene da catturare prede muore. L’umano invece lo facciamo sopravvivere, lo manterranno coloro che invece sono ancora abbastanza in forze. Ciò è reso possibile dalla medicina, ma c’è anche un patto intergenerazionale a garanzia di questo meccanismo. Purtroppo, questo patto si basa sulla natura ciclica del processo: ci saranno sempre un tot di giovani che possano mantenere gli anziani, e di solito i giovani sono più numerosi degli anziani. È un modello basato sulla crescita, funziona finché la popolazione cresce. E noi, in un modo o nell’altro, vogliamo bloccare la crescita; il fatto che la blocchiamo ad uno stadio solo non serve a niente se poi da un altro lato la crescita continua uguale a prima. Anzi, la situazione rischia perfino di peggiorare: i giovani presto o tardi non potranno più mantenere gli anziani.

Get the Fuck Outta My Office!: Quilts and Short Blankets

L’enfasi qui deve essere posta su una comprensione fondamentale del fenomeno della vita in generale e dell’esistenza umana in particolare. Di nuovo: nascita, crescita, riproduzione e morte. Il ciclo funziona perché ci sono tutte e devono essere in equilibrio.

Fare meno figli sembrerebbe in sé una buona idea, ma andrebbe aggiustata in qualche maniera, e sappiamo tutti cos’è che riequilibra questo sistema: si tratta della fase successiva-precedente del ciclo, la morte.

Se vogliamo fare una rigida dieta demografica che ci permette di mantenerci in salute senza abbuffarci troppo di risorse esaurendole, non basta fare meno figli: occorre anche morire un po’ di più.

Ma mentre l’idea di non fare figli, e quindi di suicidarsi demograficamente, è sorprendentemente accettabile per le persone, nonostante conduca di fatto alla morte della civiltà e sia a tutti gli effetti anti-vitale, quella magari di non insistere a prolungare a tutti i costi le vite fino a 150 anni è molto meno digeribile. Non si riesce a vedere in questa tendenza psicologica altro che l’effetto di un estremo egoismo ed egocentrismo generalizzato, per cui è concepibile la morte della società, che sopraggiunge se non si fanno figli, ma non è concepibile la mia che sopraggiunge perché ho 97 anni.

E qui il COVID-19 ci ha aiutato a capire delle cose in più. In particolare, ci ha aiutato a capire quanto cazzo è corta questa coperta demografica che tiriamo da tutti i lati e da cui dipende la sopravvivenza della civiltà.

Si è presentata una nuova malattia che per le sue caratteristiche epidemiologiche è sostanzialmente una piaga per gli anziani. Governo e media si sono dati con tutte le proprie energie a enfatizzare gli sparuti casi di under 40 che ne sono morti, ma il fatto irriducibile è che anche all’apice della crisi la media dell’età dei decessi è stata 80 anni. Tant’è che una delle ragioni per cui ne sono stati colpiti tanto severamente Europa e USA è l’elevata età media. Che sfortuna, che viviamo così tanto! Siamo piagati dalla nostra longevità. Se solo avessimo meno benessere, non avremmo il COVID-19!

Ovviamente c’erano vari modi di affrontare questo problema, e qui c’era da porsi una domanda interessante dal punto di vista psicologico e filosofico. È arrivata una catastrofe naturale che colpisce specificamente gli anziani. È una catastrofe naturale, non è che l’abbiamo creata noi, è semplicemente arrivata. E siamo una società che inizia a soffrire pesantemente degli squilibri causati dalla propria stessa opulenza. Uno di questi squilibri è, banalmente, il fatto che si viva decisamente troppo a lungo.

Ora, ogni catastrofe è una catastrofe e catastrofe va chiamata, nessuno le mette il tappeto rosso davanti. Ed è ovvio che si dovesse fare qualcosa per limitare i danni, questo non è in discussione.

La questione però è… quanto? Perché dopotutto questo sistema biologico, il coronavirus, ha caratteristiche che dal punto di vista ecosistemico lo rendono quasi necessario: la vita che si accorcia un po’ per cause naturali. Nell’ottica del funzionamento del sistema umanità, un evento di questo tipo sta tutto in un equilibrio naturale e perfino sano: accorciando la vita di pochi anni si consuma tutti di meno, il sistema pensionistico si alleggerisce, ci sono più risorse per tutti, la percentuale di popolazione attiva aumenta.

Attenzione, qui non sto dicendo che sia una cosa “bella”. Dopotutto, forse che la morte è una cosa bella, cui tutti andiamo incontro con danze e canti? No, la morte è una tragedia. Ma è al contempo una forza di equilibrio, un necessario sistema regolatore della vita, ne abbiamo bisogno. E qui non si è parlato di fare stermini sistematici di anziani come nelle distopie di fantascienza, non stiamo parlando di una crudele e sistematica azione umana. Stiamo parlando di una catastrofe naturale e di come gestirla.

Ora, nel momento in cui si doveva fronteggiare questo evento così estremo ma al contempo così “sano” rispetto alla situazione attuale, cosa si è deciso di fare? Qualcosa, ovvio; naturale che si sarebbe fatto “qualcosa”… ma fino a che punto ci si poteva spingere? Quanto eravamo disposti a fare per combattere questo meccanismo?

La risposta è stata una, unanime e semplice: TUTTO.

Ogni cosa che rientrasse nell’immaginazione umana doveva essere fatta per impedire che questo specifico meccanismo regolativo facesse ciò per cui esiste, i.e., accorciare le vite. Si sono sacrificate la libertà, l’economia, la socialità, la salute mentale… quando è arrivato il momento di decidere quale spazio lasciare ad un meccanismo naturale di regolazione della vita, la risposta è stata: NESSUNO.

Per contro, nessuno ha mai parlato di favorirlo, non si è mai parlato di spargerlo… Magari si è ventilata l’idea di avere verso di esso dei margini di tolleranza. Ma la risposta non è cambiata: margini ZERO, tolleranza ZERO, siamo disposti a fare TUTTO.

Quindi se ci chiediamo cosa è disposta a fare l’umanità per affrontare i problemi strutturali che minacciano la prosperità in cui vive, ora sappiamo che non è in grado nemmeno di muoversi in termini di “inazione”. Non solo non è disposta a ridurre attivamente la propria crescita, ma non è disposta nemmeno a lasciare che un meccanismo naturale di regolazione delle popolazioni abbia dei margini, ancorché ridotti, di azione per farlo lui.

Purtroppo per iniziare a pensare ad una decrescita da qualche parte qualche rinuncia va fatta, e non parliamo di cazzate tipo mangiare meno carne… parliamo di meno vite che appesantiscono il sistema. Qualche parte questa coperta non riesce a coprirla.

Dunque, questa società vuole conservare la propria prosperità, non è disposta a rinunciare al benessere materiale, e non è disposta neanche a tollerare che minime alterazioni possano sopraggiungere attraverso cause esterne a riassestarne la demografia in senso decrementale. Insomma, non è capace di nessuna decrescita di nessun tipo. Vuole crescere, crescere, e crescere: consumare sempre di più, bruciare sempre di più, vivere sempre di più, e niente su questo o altri mondi potrà anche solo permettersi di rallentare questa corsa. Se proprio, è disposta a fare meno figli, che di tutte le cose che poteva fare è quella meno efficace e nel lungo termine può perfino aggravare le cose.

Ecco quant’è corta la coperta di Malthus. Ecco quanto è fallimentare l’ideologia ecologista. Per quanto furbi noi umani riteniamo di essere, non possiamo eludere le trappole della nostra stessa natura. No, non ci metteremo MAI a dieta demografica. Non decideremo MAI di produrre e consumare di meno.

Noi consumeremo tutto fino quando non lo avremo finito, e poi moriremo di fame. E vivremo sempre più a lungo fino a quando la società non potrà più sostenere il sistema sanitario e pensionistico e moriremo per quello.

Non c’è nessuna soluzione dolce, nessun compromesso moderato, nessuna decrescita felice.

Ci sarà solo una decrescita molto, molto infelice.





Il razzismo del pene

6 11 2019

Una volta feci una battuta: dissi che secondo me la ragione del razzismo verso gli africani ha a che fare con la lunghezza del pene.

In realtà ero piuttosto serio.

Mi spiego: proviamo a immaginare un razzismo “razionale”, se mi si permette l’ossimoro, ovvero un razzismo che affondi le radici in paure fondate e legittime per la stabilità della nostra società. Per esercitare questo tipo di razzismo dovremmo individuare come obbiettivo un popolo che abbia il potenziale di modificare sostanzialmente il nostro stile di vita e i nostri valori, e che magari lo stia già facendo. E per riuscire a a modificare il nostro stile di vita e i nostri valori bisogna essere potenti, ovvero innanzitutto avere i soldi, poi avere le armi, poi essere in tanti.
Il candidato ideale – ovviamente – è la Cina. Un miliardo e mezzo di abitanti, crescita economica esplosiva, è abbastanza influente da riuscire a tener testa agli USA in una guerra di dazi, non somiglia nemmeno da lontano ad una democrazia, e già ora usa il controllo dell’accesso al suo mercato per costringere le aziende americane ed europee a sottostare ai suoi diktat.

Dunque, perché mai non sono i cinesi l’oggetto del razzismo degli occidentali? Avrebbe più senso, semplicemente perché sono molto più pericolosi e potenti.

Tre ragioni.

La prima: proprio perché sono pericolosi e potenti. Il razzismo è una forma di bullismo, dunque è sempre rivolto a qualcuno di più debole che non può fartela pagare. La Cina se dici “a” sul suo governo o sulle sue politiche o anche solo più in generale sui cinesi ti manda a gambe all’aria l’economia. Se dici il peggio possibile di un paese africano a caso non v’è alcuna conseguenza, perché non hanno strumenti per reagire. Quindi questa è una ragione.

La seconda: gli africani e i mediorientali sono più appariscenti. Non mi riferisco solo all’aspetto e all’abbigliamento, ma al fatto che in effetti esiste il terrorismo islamico che porta a sovraesporli. Anche qui: in realtà il gesto teatrale, violento, uniformemente condannato, l’atto terroristico insomma, non rappresenta affatto una minaccia alla tenuta di una società o ai suoi valori. In effetti fa l’esatto contrario: coagula la società e scatena una reazione smisurata (razzista). Gli atti terroristici dovrebbero farci avere paura (con molta misura) solo per la nostra sicurezza personale, ma non certo per la tenuta della nostra società; e sono due cose diverse: un leader “pacifico” e democraticamente eletto non minaccia la mia sicurezza personale, ma ha un’influenza sul nostro stile di vita e sui nostri valori che è un miliardo di volte maggiore di un pazzoide che accoltella tre persona in una piazza, che invece la mia sicurezza personale la influenza. Infatti per sostenere che i musulmani possono conquistare la nostra società bisogna postulare scenari fantapolitici in cui iniziano a clonarsi fino a superarci in numero di cento ad uno, perché è così dolorosamente ovvio che allo stato attuale non contano un cazzo. Tuttavia, è difficile cogliere la differenza fra minacciare la sicurezza personale degli individui e minacciare il tessuto della società. Le due cose vengono spesso confuse, per cui la pericolosità percepita dei musulmani è molto più alta di quella reale.

Ma anche così non basta.
E qui interviene la terza ragione, secondo me la più importante: la lunghezza del pene.
I neri, almeno secondo lo stereotipo, ce l’hanno molto lungo. Gli asiatici molto corto. I neri, grossi e forti; i cinesi, piccoli e gracili. I neri, virili; i cinesi, effeminati.
È credibile che i neri vengano qui a rubare le nostre donne (che? Non penserete che le donne siano individui invece che merce, no?) e ingravidarle coi loro potenti cazzi generando una numerosa prole che ci sostituirà; non è così credibile coi cinesi, e questo nonostante abbiano ampiamente dimostrato di essere piuttosto prolifici.

Si tratta della madre di tutte le ansie sociali. Quando due tribù o due popoli si fanno la guerra, si vanno a stuprare le donne della tribù nemica; noi lo abbiamo fatto in Libia, per dire, neanche troppo tempo fa. L’Alt-Right quando si riferisce a… beh… chiunque non sia Al-Right, usa il termine “cuck”, che si riferisce a quegli etero che hanno il feticcio sessuale di essere resi cornuti da un maschio più virile: non c’è nemmeno lo sforzo, qui, di nascondere l’idea che c’è dietro, e cioè che questi maschi neri più forti e più virili ci ruberanno le donne. Se tu permetti che costoro vengano nel nostro paese vuol dire che ti piace l’idea che ti fottano la donna. Tutta una questione di pene. Però i cinesi ce l’hanno piccolo, quindi non hanno i requisiti necessari per rubarci le donne.

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In un episodio di South Park il Giappone iniziava un piano segreto di invasione degli Stati Uniti, ma nessuno vi prestava attenzione perché ogni volta che un occidentale sollevava sospetti i giapponesi gli ricordavano che gli americani hanno il pisello più grande, e confortati nella propria virilità gli americani si calmavano. La Cina sta facendo la stessa cosa, e noi siamo abbastanza scemi da continuare a guardare la dimensione dei genitali. E per inciso: la Cina l’Africa se la sta praticamente comprando tutta pezzo dopo pezzo; si vede che i soldi contano anche più del cazzo.

D’altro canto la comparazione di genitali è un movente base di moltissime azioni del maschio umano. Gli africani stanno pagando il crimine di averlo più lungo di noi.

Immaginatevi nascere in Africa e averlo pure piccolo come dev’essere.

 

Ossequi.





Trans-età?

5 05 2019

Provocazione bipartisan: se è possibile essere transessuali, è possibile essere trans-età? Cioè, è possibile chiedere e ottenere di cambiare l’età che c’è sui documenti, riallineandola a dati differenti rispetto alla semplice data di nascita?
Un tema del genere suona come una reductio ad absurdum contro le istanze della comunità trans, e dunque può essere fastidioso affrontarlo in quell’area. D’altro canto, proporre una cosa del genere in tutta serietà è sicuramente in grado di triggerare, invece, i conservatori. Forse che riusciamo nell’impresa di scontentarli tutti? Senz’altro si può tentare.

In realtà questo discorso potrebbe invece essere un ottimo esercizio di riconciliazione, utile a capire i punti di vista dell’una e dell’altra parte sul tema. E, sì, c’è bisogno di “riconciliazione”; non nel senso di riappacificazione o di compromesso, beninteso, ma di comprensione reciproca: è importante capire il punto di vista degli altri anche laddove non concordiamo con esso, e perfino quando lo riteniamo illegittimo.
Dunque, andiamo avanti con la provocazione e riflettiamoci un secondo: che cos’è l'”età”?
Strettamente definita, è la differenza fra la data di oggi, generalmente arrotondata all’anno, e la nostra data di nascita.
Se la definiamo così strettamente, e attenzione, è del tutto sensato definirla così strettamente (dopotutto, questa è una cosa che i conservatori tendono a non recepire, le definizioni sono solo una convenzione e sono la cosa più semplice da modificare se uno vuole), è del tutto impossibile sostenere che qualcuno possa chiedere di farsene assegnare una differente da quella vera, perché è un semplice dato di fatto.
Ma, come accennavo, non siamo costretti a definirla così strettamente, anche se sembra proprio un percorso obbligato farlo. Quando infatti pensiamo a che cos’è l’età nella nostra vita di tutti i giorni, come ci contraddistingue, in che forme ci identifica e concretamente influisce sulla nostra vita, la data di nascita in sé non dice molto. Voi forse sapete quanti anni ho? E diciamolo: vi serve tanto, saperlo?
Di certo usiamo l’età per dedurre tante cose di una persona… Ma la maggior parte di esse non sono affatto legate all’età nel senso oggettivo di -differenza di date-. La usiamo piuttosto per dedurre altre cose. Per esempio, sulla base dell’età cerchiamo di dedurre lo stato di salute di una persona, la sua maturità intellettuale, la sua maturità emotiva, la sua esperienza di vita, e in mancanza di riscontri fisici anche la sua avvenenza fisica.
Il legame fra tutte queste cose e l’età esiste, ma non è affatto così stretto. Abbiamo cinquantenni idioti, che non hanno mai letto un libro in vita propria e magari sono ubriaconi perenni, e diciottenni colti, responsabili, idealmente pronti a mettere su famiglia. Così come settantenni che hanno ancora almeno una quindicina d’anni davanti a sé e trentenni obesi patologici che potrebbero averne di meno.
Certo, ci sono dei limiti a tutto ciò. Una bambina di nove anni non può essere fertile e matura per un matrimonio. Una novantenne non può avviare un mutuo ventennale o partorire un figlio (al netto di Guinness dei primati). Non stiamo dicendo, dunque, che il tempo trascorso su questa terra, dato oggettivo, sia privo di influenza. Come ovviamente non lo è il sesso biologico di un individuo; una donna trans può fare la vaginoplastica e può crescerle il seno, ma partorire non può di sicuro. Quello specifico dato biologico influisce sulle nostre vite in maniera inevitabile, non può essere cancellato, e in realtà generalmente nessuno vuole cancellarlo. Quello che sto dicendo è, però, che l’età non influisce così tanto, di per sé. Più spesso è un proxy attraverso il quale cerchiamo di indovinare, spesso fallendo, informazioni veramente rilevanti sull’altro.

Ora prendiamo un individuo che magari ha sessant’anni, ma ha sempre praticato sport e condotto una vita molto sana ed è stato baciato dalla genetica, per cui di fatto è come se ne avesse una quindicina di meno ed ha anche un’aspettativa di vita sopra la media. Sarebbe davvero così insensato se volesse essere trattato come un quarantacinquenne? E mettiamo che un trentacinquenne appena entrato, piuttosto tardivamente, nel mercato del lavoro, debba questo “ritardo” a problemi oggettivi, come disturbi seri di salute o roba simile, ma di fatto abbia tutta la tempra e la voglia di fare uno con dieci anni di meno. Sarebbe assurda da parte sua la richiesta di essere trattato come un venticinquenne?
La risposta ovviamente è no. Sono richieste sensate. Così sensate che il più delle volte è naturale accontentarli, in questi casi, e possiamo perfino scordarci quale sia la loro data di nascita. Sui siti d’incontri a cui sono iscritto io mi tolgo sempre due o tre anni, posso permettermelo e dirò la verità: non mi sento particolarmente bugiardo o truffaldino nel farlo; potrei benissimo avere tre anni di meno a guardarmi… ma magari anche di più, eh. Sono un trans-età!

Se seguiamo il ragionamento in tutta onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che l’età “vera”, ovvero la data di nascita, tutta questa importanza non ce l’ha nella vita di tutti i giorni e spesso noi stessi ci comportiamo tutti come dei trans-età, volendo essere visti e trattati sulla base dell’età che ci sentiamo e mostriamo, piuttosto che sulla base di un numerino del cazzo che sta sulla carta d’identità; non solo, spesso facciamo anche operazioni chirurgiche e trattamenti farmacologici per adattare il nostro corpo all’età che sentiamo di meritare.
Essere “trans-età” è possibile e sensato esattamente quanto lo è essere transessuali. La differenza è solo che nessuno sarebbe disposto a cambiarti l’età sulla carta d’identità… e che comunque l’età cambia negli anni, mentre l’identità di genere no, per cui nessuno solleva un problema sociale di trans-ageismo.
Non voglio certo sollevarlo io, in effetti; quello che voglio dire è semplicemente che, come richiesta, quella di farsi dare dalla società un’altra età rispetto a quella che si ha, non è così assurda e insensata come potrebbe sembrare.

Dall’altra parte, però… e qui si richiede uno sforzo di comprensione da parte dei progressisti… che suoni insensata è perfettamente normale. In effetti suona insensata quasi a chiunque. “Ma come, ma che cazzata è, l’età è un dato oggettuale, non possiamo giocarci così!”
E se abbiamo seguito bene il discorso sinora sappiamo bene che il punto non è l’oggettività dell’età come dato, quanto il fatto che sotto quel numerino vengono riassunti tutta una serie di tratti identitari che travalicano il numerino stesso. Sulla base di quel numerino la gente presumerà come mi vesto, cosa mi piace fare nella vita, quanto e come camperò, le mie priorità nella vita. Io non potrei mai volere che gli altri mi riconoscano una data di nascita diversa, perché quella è la data; ma potrei volere che gli altri non mi imprigionino in quel numero permettendogli di determinare interamente la mia immagine di me. Come i transessuali distinguono fra il sesso biologico, immutabile, e l’identità di genere, più flessibile, potremmo tranquillamente distinguere un’età temporale, oggettiva, e una serie di età definite diversamente, come l’età ossea o l’età mentale… concetti che peraltro già usiamo correntemente.

Tuttavia è necessario capire che vi sarebbero resistenze a questo tipo di mutamento, e sono resistenze comprensibili. Come dicevo prima, l’età che effettivamente ho non dice chi sono… ma comunque non può non condizionare vari aspetti della mia vita. E siamo abituati a parlare di età pensando al dato oggettivo, la differenza fra due date. Se da un giorno all’altro inizio a parlare di “età” cambiando il riferimento e pretendendo di scindere il dato oggettuale da tutti gli altri aspetti di cui parlavo… ragazzi, gli altri non ci si possono abituare subito, non è una pretesa razionale che lo facciano. Specialmente se si considera che le nuove categorie non vanno a prendere dei “posti vacanti”, bensì occupano posizioni già prese nel linguaggio: anche l’età ossea e quella mentale si misureranno in anni, anche se in effetti non sono veri “anni” quelli che misurano, ed è quindi abbastanza ovvio che chi è abituato a pensare in termini degli anni che effettivamente ho in termini di date percepisca l’introduzione di nuove categorie come un tentativo di rimpiazzare quelle vecchie.
Insomma, magari a me interessa, per le mie ragioni, sapere esattamente quand’è nato l’altro, e non qual è la sua età ossea o mentale. E mi trovo invece a dovermela giostrare fra tutta una serie di enumerazioni che mi interessano di meno.

Il problema della distinzione fra identità di genere e sesso biologico, al netto della transfobia e della malizia di chi non vuole proprio capire, è solo uno: che i termini “uomo” e “donna” non sono tabula rasa, sono stati usati per millenni in riferimento biunivoco al sesso biologico. Usarli ora in maniera distinta da esso, per parlare di una cosa che invece è distinta da esso, genera resistenze e problematiche.
… Ed è davvero così distinta? Anche quello è argomento di discussione; la transessualità spesso porta a voler assumere tratti somatici che sono tipici di un certo sesso (non “genere”, ma “sesso”). Dunque la ridefinizione dei termini va effettivamente ad occupare uno spot già preso e occupato militarmente con quindici carriarmatini, e la richiesta da parte di chi c’era prima di non esserne scalzato ha un senso. Che non significa che vada accolta, ma ha un senso, si può capire abbastanza da dove viene e che funzioni ha.

Per brutto che possa sembrare dirlo, io credo che la ragione principale per cui le preoccupazioni dei conservatori sono fuori luogo sia la marginalità numerica del transessualismo. Per dire, la classica obiezione omofobica che “se tutta l’umanità fosse gay ci estingueremmo” non ha senso, fra le altre cose, perché i gay se lo desiderano possono anche avere figli, ma principalmente perché i gay sono più o meno il 5% della popolazione e non è mica vero che crescano fino ad invadere il mondo: son sempre quelli. Anche se fossimo tutti preti ci estingueremmo, ma il punto è che non siamo chiamati ad essere tutti preti.

La preoccupazione specifica dei conservatori, quella di vedersi “scippate” le categorie del sesso biologico vedendole sostituite con quelle dell’identità di genere, si esprime nel termine molto offensivo che usano per definire le donne trans: “traps”, trappole, persone che ti traggono in inganno “fingendosi” donne quando invece sono “uomini”. Hanno insomma il terrore di vedersi sostituite le donne biologiche da donne trans. Paradossalmente non è una paura del tutto insensata, in via astratta. Si intende: io uomo etero posso non avere nulla contro le donne trans ma non avere voglia di iniziare rapporti con loro per questa o quella ragione; magari per motivi del tutto sensati come il desiderio di avere figli biologici con la partner. Mi sentirò dunque più a mio agio sapendo che posso approcciare qualunque donna nel locale con la ragionevole certezza che corrisponda a quella mia aspettativa. Messa così è abbastanza ragionevole, no?

Ma i transessuali sono tipo uno su diecimila persone. Quindi sì, se una donna transessuale si “confonde” con una donna biologica non mette a rischio la tua sicurezza che in quel locale quella che ti piace possa anche partorire. Non più di quanto la metta al rischio il fatto che potrebbe essere semplicemente sterile. Certo se fossero il 50% della popolazione, ecco, lì il problema si potrebbe porre legittimamente. Quella dei conservatori è una preoccupazione che potrebbe essere compresa e contestualizzata e neutralizzata, ma che più spesso viene ingigantita e prende la forma della fobia, con tutta l’aggressività e l’irrazionalità che ne consegue. Ed ecco dunque che si immaginano un futuro prossimo in cui non esistono più donne biologiche e loro non possono più avere figli e sono costretti ad accoppiarsi per forza con “donne col pisello”…

Pensare a queste cose solleva riflessioni molto interessanti, per esempio il paradosso apparente per cui una certa situazione può essere normalizzata solo in virtù della propria marginalità ed eccezionalità. Omosessualità e transessualità sono normali e sane perché sono marginali, numericamente. Se non fossero marginali non sarebbero sane, o quanto meno, dovrebbero essere ripensate e integrate in modo diverso nel tessuto sociale. A pensarci, ciò non è così strano: abbiamo tutti bisogno di chirurghi e di operai e di manager, ma se fossero tutti chirurghi chi costruirebbe i palazzi, se fossimo tutti operai chi farebbe il manager, se fossero tutti manager chi aprirebbe la pancia alla gente?

C’è un elemento di irriducibile diversità nell’essere LGBT. Questo va accettato e secondo me si digerisce facilmente. Ora si tratta di capire cosa farne.

 

Ossequi.





Montanelli era pedofilo?

16 03 2019

 

No.

Questa era la risposta breve e per quanto mi riguarda, se vi basta, chiudete qui.

 

Altrimenti vi do una spiegazione più lunga.

Sapete che ogni tanto internet fa delle “scoperte”, no?

Le scoperte sono generalmente una roba che si sapeva da almeno cinquant’anni, ma che l’altro ieri è stata condivisa su facebook da qualcuno di famoso che a sua volta l’ha scoperta due giorni fa ed è convinto di aver inventato internet.

La scoperta in questione è che un famoso giornalista italiano, Indro Montanelli, defunto diciotto anni or sono, aveva “comprato” e sposato in Etiopia una moglie locale, una ragazza di dodici anni.

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Monumento a Montanelli vandalizzato da alcune attiviste femministe.

Lui non si sforzò mai di nascondere la faccenda e addirittura ne parlò con nonchalance (forse in effetti eccessiva) in un’intervista in TV, durante la quale una femminista (che in seguito divenne nota per l’omofobia e per il supporto a Berlusconi), tale Elvira Banotti, lo accusò di aver stuprato una bambina. Alcune attiviste femministe hanno fatto la “scoperta” e hanno dunque deciso, visto che andare a dirgliele a Montanelli non era più possibile, di imbrattarne una statua di rosa. Con un risultato che se chiedete a me è pure carino.

Ora, siccome sto per parlare di un argomento altamente isterogenico faccio subito due chiarimenti. Chi legge per favore vi ponga attenzione perché non li ripeterò due volte:

 

  • Non mi interessa santificare Montanelli.
  • Non mi interessa dare una giustificazione acritica del suo comportamento.
  • Non mi interessa dare un giudizio di valore sulla pratica del madamato né del colonialismo in senso lato.
  • Non mi interessa nemmeno dare addosso alla Banotti, seppure sarebbe un’occupazione delle più piacevoli.

 

Se questi sono i temi che vi interessano smettete di leggere qui perché non li tratterò.

Tratterò esclusivamente quell’unico tema che è nel titolo, e cioè se il comportamento di Montanelli possa essere classificato come pedofilo. Lui si giustificò molto semplicemente dicendo che, a quell’età, in Abissinia erano già donne. È questa difesa accettabile?

Ecco la mia risposta.

Dicevo che quest’argomento è isterogenico. Ricordate che gli integralisti cattolici piantarono, e ancora oggi ci piantano, grane pazzesche sul terribile GENDER nelle scuole e sulla stepchild adoption? Notate come ogni tre per due gridano alla minaccia della pedofilia che ormai secondo loro sarebbe praticamente ovunque in occidente?

Ecco, in realtà però tutta la loro campagna contro l’educazione sessuale nelle scuole si basò sulla minaccia della pedofilia, o più in generale: dell’esposizione del bambino al sesso; ma il fatto che la suddetta campagna abbia anche avuto un notevole successo, così come che sia stata giocata la carta pedofilia in prima battuta, è prova provata dell’esatto contrario di quanto vorrebbero suggerirci: in realtà la nostra società è incredibilmente sensibile, non a caso ho usato il termine “isterica”, sul tema della sessualità infantile, e anche adolescenziale. E lo è oggi molto di più che in passato. Il fascismo non era certo un regime progressista, eppure, o forse proprio per quello, Montanelli agiva con benedizione fascista, e in generale la pratica di far sposare le figlie molto giovani, secondo gli standard odierni, è vecchia come il mondo: Maria Antonietta si sposò a quattordici anni, per fare un esempio. Anche oggi, nella nostra Italia l’età del consenso per avere rapporti sessuali è quattordici anni, una delle più basse d’Europa ma non la più bassa: ci supera la Spagna con tredici anni. E queste non sono trovate moderniste della lobby gay e delle femministe, l’esatto contrario: sono residui di epoche passate, e femministe e gay sono forse quelli più impegnati nel cercare di farceli cancellare.

Mi preme insomma sottolineare che la battaglia per ritardare ancora e ancora e ancora l’età della maturità sessuale non è una battaglia conservatrice o reazionaria; un conservatore genuino, verosimilmente, vorrebbe tornare a vedere gente che si sposa e sforna figli a quattordici anni. È, piuttosto, un tratto tipico delle civiltà occidentali modernizzate e “progressiste”. E su questo fronte, invece di farci più flessibili, ci stiamo facendo sempre più moralisti. Ha raggiunto toni da farsa il caso di Asia Argento, che dopo essere stata molestata da Weinstein, è stata accusata di molestie da Jimmy Bennett, un ragazzo che ai tempi in cui ebbero il presunto rapporto sessuale era probabilmente consenziente… ma non ha importanza, perché aveva sedici o diciassette anni (scusatemi, non ricordo di preciso) e dunque era minorenne, e in molti stati USA questo basta a configurare lo stupro. In una svolta quasi parodistica, Bennett è stato poi accusato di molestie da una sua ex con la stessa scusa: lei era minorenne e lui no. Poco importa che fossero ben al di sopra dei quattordici anni che stabilirebbe, invece, la legge italiana…

Insomma, rispetto alla California, noi italiani siamo un popolo di maniaci pedofili. E provateci voi a dire che non è così: i primi che vi salteranno al collo saranno femministi e queer. Non siamo abbastanza avanti e moderni noi italiani, nella caccia alle str… pardon, nella battaglia ai mostruosi pedofili!

E uno di questi mostruosi pedofili parrebbe essere (stato) Indro Montanelli, perché “una dodicenne è sempre e comunque una povera infante, indipendentemente dal contesto culturale, dal luogo dall’epoca”.

E questa è una mostruosa CAZZATA. È così chiaramente non vero.

Una lezione di biologia, ora: che cos’è l’infanzia, in senso biologico?

Si tratta di quel periodo nella vita di un individuo sessuato durante il quale esso non ha la maturità biologica per riprodursi.

I confini di questa condizione sono molto chiari: un giorno non sei in grado di riprodurti, pochi giorni dopo il processo è compiuto e ne sei perfettamente capace. E se quel momento è meno facile da identificare per i maschi (Platone diceva “deve crescergli il pelo sul viso”, se no è pedofilia), nelle femmine corrisponde al menarca.

Volete davvero qualcosa che non cambi da cultura a cultura? Beh, la biologia non cambia da cultura a cultura, quindi eccovi accontentati: l’infanzia di una bambina è, in qualsiasi cultura, tutto ciò che c’è prima del menarca. Dopo è una donna.

E molto di frequente a dodici anni una il menarca lo ha già avuto.

“Ma come, Alberto?! Stai dicendo che una ragazzina di dodici anni è sempre psicologicamente matura per avere rapporti sessuali, o addirittura per sposars?!”

Assolutamente NO. Sto dicendo che spesso ha avuto il menarca, è quindi è BIOLOGICAMENTE matura, è BIOLOGICAMENTE una donna. E dunque sempre BIOLOGICAMENTE non sei un pedofilo se sei un maschio etero e ne sei attratto: verosimilmente avrà anche già il seno, il pelo nei posti giusti, i fianchi formosi. Non esattamente le caratteristiche per cui i pedofili escono pazzi. E questo vale davvero in qualsiasi cultura e tempo e luogo, perché è biologia.

Ovviamente, al di là della biologia, in senso psicologico una dodicenne può benissimo non essere matura. Ma quello è appunto un fatto psicologico: per via delle condizioni culturali in cui è vissuta, è rimasta psicologicamente bambina e dunque esserne attratti assume una sfumatura pedofilica sempre in senso psicologico, nel senso che implica un rapporto di superiore maturità mentale di un partner rispetto all’altro.

Ma ecco dove ha perfettamente ragione Montanelli: questo ultimo aspetto dipende dalla cultura.  In Etiopia a quei tempi (forse anche oggi?) vigeva una cultura che trattava le ragazze sin dopo il menarca come donne, dunque pronte ad avere rapporti sessuali e a sposarsi. In quel contesto culturale lì, insomma, la dodicenne era donna a tutti gli effetti, e non puoi sentirla definire “bambina” dalla Banotti di turno o sentirti dare di pedofilo perché ci sei stato, è assurdo.

Che l’universo progressista si sia gettato a spolpare l’osso di dare di pedofilo ad uno sepolto da vent’anni, solo perché si è adattato ai canoni di una cultura diversa, rivela molte delle contraddizioni di questo universo. Un universo che combatte il razzismo e lotta per l’accettazione della diversità… Ma si deve prima o poi confrontare con una diversità che non si manifesta nel modo in cui si cuoce la pasta, ma nel modo in cui consideriamo, per esempio, il rapporto fra età e sesso. E lì si rivela che in realtà non riusciamo ad uscire dalle nostre categorie e siamo pronti a dichiarare che interi popoli e intere culture sono popoli e culture pedofile.

Forse avremmo dovuto castrare chimicamente tutta l’Africa?

 

Ossequi.





La scienza di Destra

29 12 2018
Ho notato che è molto comune oggi, presso gli ambienti alt-right, la tecnica di vendersi come alfieri della ragione e della scienza VS la sinistra irrazionale ed emotiva.
 
Da un lato si tratta di un’innovazione comunicativa radicale; s’intende, tutti gli ideologi cercano di tirare la scienza dalla propria parte, perché la scienza è “roba forte”, la vuoi avere nel tuo angolo… ma tipicamente la Destra non se la mette sulla bandiera, perché quello è il posto riservato per tradizione e passione, che vinceranno sempre sulla scienza.
E in effetti per la Destra è ancora così, tradizione e passione vincono su scienza. Ma allora come e perché mettono la scienza sulla bandiera?
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Premettiamo necessariamente che la scienza non è mai né di destra né di sinistra, perché aderire ad un’ideologia richiederebbe che la scienza si adegui ad essa, mentre è sempre il contrario che deve accadere: l’ideologia deve adeguarsi alla scienza. Ma, a parte quest’ovvietà, diciamo che la scienza ha sempre avuto una certa attrattiva per la Destra, perché essa è un metodo per ordinare il mondo in schemi mentali. La Destra adora gli schemi mentali, e dunque adora la scienza… almeno nella misura in cui le offre una sponda per calare sul reale degli schemi-gabbia rigidi in cui imprigionarla.
Caso di studio le Sentinelle in Piedi, che si presentavano come alfieri del dato di fatto scientifico: esistono uomo e donna e i bambini nascono da uomo e donna. Allora prendiamo questo schema binario uomo-donna e caliamolo su tutto l’esistente, utilizzandolo come pretesto per stuprare la realtà stessa: si usa dunque il binarismo biologico come trucco retorico per negare la molteplicità del comportamento sessuale umano e non solo. Ci sono due sessi biologici… Ok, possiamo prendere il dato biologico in questione e soppesarlo nell’insieme delle nostre valutazioni insieme a tutti gli altri dati biologici: l’esistenza dei comportamenti omosessuali, la natura socialmente costruita dei ruoli di genere, l’esistenza della disforia di genere… Il punto è che da Destra tutti questi altri dati biologici, altrettanto solidi, vengono completamente disconosciuti. Ma sono dati, nel senso, non si apre neanche discussione su questi punti, sono puro fatto, come il becco dei pinguini o la forma della luna.
 
Il punto è che il pensiero scientifico crea sì degli schemi per inquadrare il mondo, ma questi schemi devono calzare al mondo al modo stesso in cui un abito su misura deve calzare al committente: stretto abbastanza da non cadergli di dosso, ma anche comodo abbastanza da farlo respirare e da non irritargli la pelle. Una scienza che si rifiutasse di categorizzare la realtà sarebbe inutile… ma una scienza che voglia per forza far stare la realtà in categorie decise a priori è anche peggio che inutile: è dannosa. E non è vera scienza.
La Destra è sedotta da questi abiti stretti, e non so quanto in buonafede e quanto in malafede, pensa di vendersi come scientifica perché anche la Destra, come la scienza, cala schemi sulle cose. Ma non è quello il punto della scienza, non è che basti osservare le cose, inventarsi uno schema rigidissimo che ci pare calzi loro, e poi costringere a viva forza la Natura ad indossarlo, non funziona così. C’è sempre l’altro lato da considerare: la scienza deve descrivere il reale e adeguarsi al reale, e la molteplicità infinita del reale è sfuggente rispetto ai nostri schemi mentali, per quanto raffinati.
Per di più, raramente gli schemi mentali della Destra sono raffinati. La punta di diamante della strategia retorica qui è in effetti l’utilizzo di schemi rigidissimi e semplicissimi. Da un lato gli schemi semplificati fanno parte della scienza; si pensi ad esempio ai gas perfetti o all’approssimazione gaussiana… ma in genere questi modelli semplificati rappresentano un punto di partenza su cui aggiungere strati ulteriori di complessità, e raramente sono efficaci nel descrivere la realtà così com’è. In ogni caso, quando non lo sono vanno sostituiti con schemi più raffinati; non esiste invece che la realtà venga piegata per entrare a forza in questi schemi.
 
Ovviamente, chi ha inclinazioni più o meno marcatamente destrorse sentirà spesso la seduzione degli schemi forti da calare sulle cose. Mi ci metto pure io dentro, e potremmo fare molti altri esempi a riguardo; me ne vengono in mente almeno tre, presi fra piccole celebrità del web: Uriel Fanelli, per esempio, o Albanesi, o Butta, che commentai qui piuttosto impietosamente (ragazzi, ma sarà mica una cosa da ingegneri…? Comunque se non li conoscete, fa niente, secondo me non è nulla di imperdibile). Il tratto comune che rende seducente per alcuni (fra cui anche per il sottoscritto) la retorica di questi blogger, e che la rende ad altri allo stesso modo repellente, è la forte impressione di rigore che trasmettono nel momento in cui calano i propri schemi sul reale. La seduzione deriva dal fatto che quegli schemi sono così rigidi ed eleganti ed ordinati… Peccato per quel piccolo difetto che spesso hanno di essere inadeguati o del tutto campati in aria, al punto di costituire ogni tanto delle involontarie parodie della realtà che vorrebbero descrivere.
Gli sfoghi dell’uno sui Napoletani possono racchiudere qualche elemento di riflessione interessante sui problemi del meridione, ma in ultima analisi sono un becero luogo comune razzista che pretenderebbe di sussumere un milione di napoletani sotto un unico tipo umano. Quell’altro può sembrare tanto intelligente nel momento in cui ti disseziona una frase estratta da un dibattito TV secondo i criteri della logica matematica; ma un approccio del genere diventa ridicolo, e più banalmente sbagliato, se ti richiede di far finta che non esista nel linguaggio una dimensione metaforica, iperbolica, associativa, evocativa e via dicendo che quel metodo lì, in quella forma iper-semplificata, manca in toto. Per non parlare poi di chi improvvisa calcoli su quanti musulmani ci saranno in Italia fra dieci anni senza ritenere di consultarsi dieci minuti con un demografo che queste cose le studia per vivere, e che magari può fargli notare numeri alla mano qualche erroruccio.
 
Schemi, appunto, attraenti nella misura in cui sono reminiscenti del linguaggio della scienza, e ne evocano tutta la potenza veritativa… Ma che di fatto vanno in briciole nel momento in cui ti ricordi che ci sarebbe anche, nel metodo scientifico, quel dettaglio di confrontarsi con la complessità del reale, rispetto alla quale certi schemi risultano non solo inadeguati, ma al livello del ridicolo involontario.
 
Per un esempio più su larga scala, usando questa tecnica di creare schemi-gabbia semplici e seducenti e presentandoli come “scientifici”, viene condotto da anni in USA un attacco spietato contro l’intera disciplina degli studi di genere, e trattasi del fenomeno che ha originato poi per esportazione la teoria del complotto del gender (quindi un problema non trascurabile).
Fermo restando che molte teorie sociologiche sul genere sono opinabili e alcune possiamo tranquillamente classificarle come puttanate, gli studi di genere restano comunque una materia di studio del tutto valida, che ovviamente si pone su un piano d esattezza diverso rispetto a discipline come biologia e fisica e più sul livello di studi storici e sociologici, ma non per questo è un mucchio di cazzate, come non sono cazzate la storia e la sociologia. A volte la complessità della materia di studio è tale che non si presta a iper-semplificazioni… Anzi, quasi mai la realtà si presta a iper-semplificazioni. L’invito a rientrare per forza in schemi rigidi e semplificati laddove la materia di studio richiede complessità è di fatto un tradimento del metodo scientifico a più livelli, e il genere è una di queste realtà altamente complesse, che se devono essere approfondite richiedono che si vada un momentino oltre le donne che mettono le gonne e partoriscono bambini e i mariti che hanno il pisellino e fanno gli idraulici.
Se proprio volete farvi del male, vi offriranno tanti altri esempi di questo tipo specifico di pseudoscienza nella comunità redpill. Mi colpì in particolare, fra questi, un tale che denunciava “una visione molto serendipica e non statistica della vita” in alcune donne. Essendo io statistico di professione, qui ho fatto un sorrisetto, perché il modus cogitandi dei redpill non è statistico per nulla; la statistica si basa su approssimazioni che riassumono aspetti interessanti della realtà tenendo conto delle variazioni di misurazione tramite indici di dispersione. La metodologia dei redpill consiste piuttosto nel negare la molteplicità del reale tacciando tutto ciò che non corrisponde alla teoria di essere una deviazione irrilevante, il che statisticamente parlando è un metodo abominevole. Questo fraintendimento della statistica è la ragione per cui alcuni scherzano su di essa affermando che “la statistica è quella disciplina per cui se io mangio un pollo e tu nessuno abbiamo mangiato mezzo pollo a testa”. Ovviamente non è così, ma la statistica dei redpill è perfino peggio di così, visto che se uno dei due mangia un pollo e l’altro nessuno sostiene che le donne abbiano mangiato tre polli a testa, che i maschi bianchi eterosessuali siano affamati e stiano morendo come le mosche per via della carenza di polli, che i musulmani abbiano preso il controllo dell’intera industria del pollame e che in capo a cinque anni il mondo intero sarà una teocrazia islamica controllata da polli musulmani geneticamente modificati e dalle femministe. Nella realtà, la statistica deve trovare il modo di perdere meno informazione possibile ed è consapevole che in ogni caso sta approssimando e riassumendo, dunque si perde lo stesso qualcosa per strada. La realtà non si esaurisce in incel, cuck e chads o similari, e non si riassume l’avvenenza delle persone in una scala da 1 a 10. Cercare di ridurre la realtà ad uno schema così infantile è un cazzo senza vasello e preservativo nel culo della biologia, della sociologia e della psicologia.
Quello che si verifica in certi ambienti di estrema destra è, insomma, una sorta di volgarizzazione della scienza, dove il termine “volgarizzazione” va inteso nel senso peggiore come deformazione del pensiero scientifico in forme quasi parodistiche e perfino apertamente menzognere. Contrariamente alla pseudoscienza classica, che di solito si muove cercando di attribuirsi un’autorità simile a quella della scienza ma poi di fatto non le somiglia neanche vagamente, questo nuovo tipo di pseudoscienza è a mio avviso più pericoloso, perché invece imita attivamente il linguaggio scientifico in certi aspetti chiave. I parallelismi storici più calzanti sono quelli con il “razzismo scientifico” ottocentesco o quello dei nazisti; entrambi si basavano sulla proposta di schemi iper-semplificati che magari potevano richiamarsi anche a certi dati scientifici, ma poi di fatto li stiracchiavano e storpiavano in forme pazzesche e ridicole, facendo di entità biologiche fluide e sfumate la cui stessa esistenza è discutibile, come le “razze umane”, realtà monolitiche determinanti la totalità dell’esistenza dell’essere umano.
 
Per inciso, molti critici della scienza (“dello scientismo”, preferiscono di solito loro) che invece vengono da sinistra spesso si riferiscono proprio a questa forma di pseudoscienza come proprio target polemico e ci trascinano dentro tutto il metodo scientifico vero e proprio… salvo perdere anche loro di vista quello che è scienza e quello che non lo è. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
 
Ossequi




Accusa del Complottismo

25 05 2018

Mi capita giusto oggi sotto gli occhi un articolo dal titolo che è tutto un programma: apologia del complotto.
Non potevo esimermi dal rispondervi, perché esprime un modus cogitandi che già altre volte ho incrociato e che necessita di vigorosa correzione.
Riassumendo tantissimo (ma vi invito a leggere), l’autore, Alessandro Lolli, risponde ad un altro articolo di Emanuele Giusti su L’Eco del Nulla. Emanuele è colpevole, secondo l’autore dell’apologia, di combattere il complottismo con troppa foga e assumendo colori politici. Sostiene Alessandro, dunque, che il debunking venga utilizzato come arma per supportare alcune parti politiche attraverso la costruzione di un simulacro di verità scientifica e la delegittimazione dell’avversario in quanto “complottista”, e dunque sciroccato. Si sorprende, infine, che il discorso anticomplottista sia particolarmente fiorente in Italia, dove effettivamente esiste evidenza storica di alcuni “complotti” reali mirati a nascondere al pubblico delle verità scomode al potere.
Come dicevo, ho già letto altre volte roba simile, tipicamente viene dalle dita di autori di estrema destra o estrema sinistra (che tanto ormai chi le distingue più) che stanno per sparare qualche gigantesca stronzata complottistica, Fusaro style, e mettono le mani avanti con una difesa d’ufficio del cospirazionismo. Tuttavia, non conoscendo l’autore non gli imputerò una simile intenzione, ma mi limiterò a spiegare perché sbaglia su quasi tutta la linea.

Ho detto quasi, quindi diciamo prima dov’è che ha ragione: è vero che a volte si adopera impropriamente il lessico del debunking e del fact-checking per affrontare questioni che non possono, per loro stessa natura, essere oggetto di rigoroso fact-checking. L’autore stesso fa un esempio validissimo in tal senso: che la riforma costituzionale del governo Renzi rischiasse deriva autoritaria è una tesi che, per com’è formulata, non si presta a fact-checking, ovvero ad una verifica rigorosa, stringente, provata punto per punto. Certo si può sicuramente argomentare punto per punto che questa tesi sia sbagliata, o che viceversa sia giusta, ma non si può risolvere la questione mettendoci sopra una pietra tombale nello spazio di un articolo di giornale. Altre tesi similmente strutturate possono essere cose tipo “occorre abbassare le tasse” o “l’immigrazione è dannosa alla società”. Possono essere vere o false, e sicuramente si possono discutere in termini rigorosi, ma non si prestano al formato del fact-checking. Questo perché, attenzione, il fact-checking e il debunking sono modalità comunicative specifiche e ben codificate in un formato. Il debunker deve prendere una notizia, un’informazione ben localizzata e individuata, e valutarne la veridicità effettiva in un breve articolo, o al massimo una serie di articoli se l’argomento è complesso. Per restare sulla riforma costituzionale, uno esempio potrebbe essere se uno avesse detto, com’è accaduto in campagna referendaria, che avrebbe permesso alla maggioranza di “eleggersi il Presidente della Repubblica da sola”; numeri alla mano, questa cosa la si poteva dimostrare falsa molto facilmente e in spazi molto ristretti. Ma il debunker non può mettersi a confutare o validare intere ideologie o worldview, ciò esula dallo scopo e dai mezzi del fact-checking, e non può essere chiamato debunking ciò che si pone obbiettivi così ambiziosi.
Ciò detto, però, ci sono varie precisazioni da fare.
La prima è la seguente: il fatto che il fact-checking non possa prendere come oggetto di confutazione o validazione intere worldview, non può essere preso a significare che il fact-checking sia neutrale rispetto a worldview e ideologia.
Si possono fare esempi molto semplici e molto illuminanti a riguardo. Per esempio, il Cristianesimo non è oggetto di debunking e fact-checking; tuttavia il creazionismo, l’Intelligent Design, la storicità dei Vangeli, le teorie riparative dell’omosessualità, i miracoli, sono oggetto di fact-checking e debunking. Va da sé che un debunker che faccia bene il suo lavoro, e dunque sbufali miracoli, creazionismo e via discorrendo, non farà un gran servigio al Cristianesimo. Ovviamente uno potrà restare cristiano anche al netto di grosse dosi di debunking di miracoli e creazionismo, ma se volessimo sostenere davvero che il debunking di creazionismo e miracoli è neutrale rispetto al Cristianesimo faremmo ridere i polli.
Il punto è questo: come già ho notato altre volte nel  mio blog, la verità non è una cosa neutrale e super partes. Tutt’altro. Oserei dire che la verità è una bomba H ideologica. Certo, può essere difficile rendersi conto di quanto la verità non sia una cosa neutrale, ma diventa più intuitivo se uno pensa al fatto che il suo opposto, ovvero la menzogna, è chiaramente non neutrale: la menzogna di solito serve uno scopo preciso ed è spesso politicizzata. Dire una menzogna è sovente un atto politico, e quanto più si politicizza la menzogna, tanto più si politicizza anche la verità. Suppongo che negli anni ’30 i “debunkers” che sostenevano che non vi fosse nessun complotto ebraico per conquistare il mondo venissero tacciati di anti-nazismo, per esempio. E probabilmente lo erano davvero, anti-nazisti, visto che la teoria del complotto pluto-giudaico era la spina dorsale del nazismo…
E qui si risponde facilmente anche alla sorpresa di Alessandro nel vedere quanto in Italia il discorso anticomplottista sia avanzato (sì, ho usato il termine “avanzato”; perché lo è ed è una cosa buona che lo sia); la risposta è delle più semplici: il primo partito del paese e principale forza di governo, il Movimento 5 Stelle, ha una potentissima componente complottista, così come il suo partner leghista. Il complottismo e le fake news in Italia sono pesantemente politicizzate, conseguentemente la battaglia contro di esse non può che finire con lo schierarsi. Non si diventa anticomplottisti perché si è schierati, al massimo si diventa schierati perché si è anticomplottisti, molto banalmente; ciò non nel senso che se sono anticomplottista automaticamente divento un fanboy di Renzi, ma è chiaro che il PD mi farà meno cagare a spruzzo del M5S perché non ha una componente cospirazionista neanche lontanamente così forte. Per questo il PD parla di combattere le fake news e il M5S subito inizia a ergersi in difesa della “libertà di parola”, con una coda di paglia lunga 830 Km; perché fake news e complottismo sono politicizzate e utilizzante prevalentemente (seppur non esclusivamente) da certe parti politiche.

D’altro canto il problema nel discorso di Lolli è più profondo del non vedere quanto il discorso veritativo sia naturalmente non-neutrale e anzi politicamente incisivo. Il problema è che non sembra comprendere l’essenza stessa del fenomeno complottista. Sembra invocare un anticomplottismo neutrale, piccolo e sostanzialmente innocuo; invoca un anticomplottismo che si dedica solo a sciroccati con copricapo di carta stagnola.
Si potrebbe fare un discorso anticomplottista piccolo, neutrale ed innocuo, se fosse piccolo neutrale ed innocuo il complottismo, ma non lo è. Lolli sembra mancare completamente la portata immensa e la perniciosità sconfinata del discorso complottista; questo perché, come altri, definisce il complottismo solo sulla base dei suoi specifici contenuti e di “impressioni” collegate a questi contenuti, invece che dei suoi metodi. Analogamente a quelli che vedono la scienza come una specie di religione, ovvero come un insieme di credenze più o meno valide, mentre invece la scienza è un metodo, Lolli vede il cospirazionismo come un container di credenze pazzesche, laddove invece è un metodo.
Il complottista, secondo Lolli, sarebbe uno che crede in una qualche cospirazione, e le cui credenze sono completamente pazzesche e ridicole. Questi due requisiti, “crede in un complotto” ed “è sciroccato”, non catturano minimamente l’essenza del discorso complottista e non ci permettono nemmeno di definirlo rigorosamente. I complotti, per esempio, ovviamente esistono; quindi non è che solo perché uno sostiene che ci sia un complotto gli si può dare di sciroccato, potrebbe avere ragione, come nota lo stesso Lolli… E infatti il complottista non è chiunque creda che esistano dei complotti, altrimenti dovremmo esserlo tutti visto che esistono. Resta l’altro requisito per definire il complottista, e cioè che la sua teoria sia evidentemente pazzesca, ma questa è solo la “impressione” di cui parlavo prima: le teorie complottiste sarebbero quelle che suonano folli: che so i rettiliani, gli Illuminati, ‘ste robe qui. O il complotto mondiale degli ebrei, che sarà stato pure ridicolo e folle ma ha dato inizio ad una guerra mondiale.
La cosa che mi fa pensare che Lolli non conosca affatto bene il complottismo è proprio quest’ultimo punto: sembra credere che le teorie cospirazionistiche siano pazzesche, chiaramente assurde, strutturalmente incredibili. Non lo sono affatto.

Cioè, chiariamoci, spesso (ma non sempre) sono contrarie al sentire comune, contrarie alle credenze più diffuse nella popolazione… Ma se le analizzi nella loro struttura logica, la caratteristica preminente delle teorie del complotto è al contrario la loro rigorosa, strettissima coerenza razionale, unita ad un immenso potere esplicativo. Dopotutto, non abbiamo un complottista ante litteram in Cartesio? Ricordate, il “genio maligno” che ci fa vivere in un sogno…? Certo, è molto controintuitivo pensare che viviamo in un sogno prodotto da un genio maligno, ma secoli dopo Cartesio ancora i filosofi non hanno trovato una prova logica conclusiva contro l’argomento del genio maligno. Non è confutabile, logicamente parlando è solido e dannatamente seducente.
Nella mia personale esperienza, ebbi intorno ai diciotto anni il primo contatto con le teorie del complotto, e lo ricordo come estremamente perturbante, perché queste teorie sembravano solidissime ed effettivamente parevano capaci di mettere in dubbio ogni tua certezza, fornendoti al contempo uno strumento interpretativo onnipotente capace di dare nuovo significato a tutto il reale. Dopo aver letto una teoria del complotto sugli ebrei cattivi, improvvisamente sui giornali iniziavo a vedere dappertutto l’opera di questi perfidi ebrei; di qua Israele, di là quel regista che è ebreo, di là c’è Gad Lerner… inizi a vedere ebrei ovunque ed è un soffio rendersi conto di quanto facilmente potrebbero essere colpevoli di tutto. Certo, si potrebbe dire anche che ci sono anche un sacco di fatti che depongono contro questa o quella teoria del complotto, ma le teorie del complotto hanno anticorpi naturali contro i fatti che le smentiscono. Qualche fatto smentisce la teoria? Be’, allora quel fatto è un falso messo in giro dai cospiratori, che sono onnipotenti onnipresenti ed onniscienti come il genio maligno di Cartesio, e dunque possono falsare qualsiasi prova.

Fortunatamente, siamo allenati ad essere un po’ sospettosi di alcune specifiche teorie del complotto, come quella sugli ebrei. Ma solo perché abbiamo visto che razza di danni hanno fatto, altrimenti ci cascheremmo ancora. E fortunatamente siamo attrezzati con il pensiero scientifico, che ci vaccina dal cospirazionismo… Perché in realtà le teorie cospirazioniste sono logicamente del tutto coerenti e non suonano affatto pazzesche, se non sei abituato ad avvertirle come tali per altre ragioni.
Emanuele Giusti fa benissimo a vedere del complottismo anche nella scelta di non votare PD; non è che tutti quelli che non votano PD sian complottisti, ovviamente, ma in molti casi può essere puro e semplice complottismo la ragione di quello come di altri comportamenti… E non è una buona ragione, ça va sans dire. In sostanza quando Giusti parla di complottismo indica la luna, e Lolli ha guardato il dito. Il complottismo non è una serie di teorie sciroccate su questioni ridicole. Il complottismo non è un insieme di contenuti. Il complottismo è un modus cogitandi malato, un virus del pensiero.

Ancora una volta si capisce bene cos’è il complottismo se si pensa al suo opposto, il pensiero scientifico. La scienza non è, come i più credono, un insieme di contenuti, bensì un metodo che può essere applicato a quasi tutti i contenuti immaginabili. Tutto può essere inquadrato e analizzato nei termini del pensiero scientifico.
Allo stesso modo, il complottismo è un metodo, e tutto può essere inquadrato ed analizzato nei termini del pensiero complottistico. Solo che il complottismo è, in buona sintesi, l’opposto del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico parte dai fatti e poi cerca di costruire teorie “unendo i puntini”; il pensiero complottistico parte da un’immagine e poi va alla ricerca dei puntini che la costituiscano.
Se uno va a vedere come si compone un argomento complottista, si accorge che è costituito interamente di fallacie logiche. Avvelenamento del pozzo e altre fallacie ad hominem, per esempio. il complottismo si costruisce quasi tutto su fallacie ad hominem: la veridicità delle affermazioni non viene valutata sulla base del loro merito effettivo, ma solo sulla base di chi è che le sta facendo. Una persona che dice cose che non corrispondano alla teoria può essere automaticamente screditata individuando qualche interesse che la spinga a dire bugie, e dunque tutto ciò che essa dice è screditato. Quello dice qualcosa che non ci piace? Beh, ovvio: è ebreo. Beh, ovvio: è un ateo. Beh, ovvio, e un piddino. Non ci si può fidare di un ebreo o di un ateo o di un piddino, quindi tutto ciò che egli dice è falso. E se sono in dieci, in cento, in mille a dire quella stessa cosa? Beh, saranno tutti ebrei, tutti atei, tutti piddini … Tanto non lo so mica se davvero è ebreo o ateo o piddino, in realtà lo sto deducendo dal fatto che dice qualcosa che non mi piace. Capito il trucco? Dunque se una nota testata nazionale analizza il programma di governo gialloverde e, numeri alla mano, dimostra che non sarebbe realizzabile neanche in un milioni di anni… beh? Evidentemente è una testata che fa parte del complotto nazionale (degli ebrei? della lobby gay? degli americani? dei piddini? Vanno tutti bene, anche quelli che non avrebbero nessun motivo di partecipare al complotto possiamo tranquillamente gettarceli dentro).
Ma hai voglia a individuare fallacie nel pensiero complottista… Come dicevo, ne è interamente costituito. A parte le fallacie ad hominem che sono tutte rilevate in blocco dal complottista, ve ne sono varie altre. Petitio principii: in realtà le fonti affidabili vengono selezionate sulla base del fatto che corrispondano alla tua teoria. Bias di conferma: “unisci i puntini”… Sì, però li unisci secondo un’idea precostituita, quindi in realtà tu selezioni solo le “prove” che sono a tuo favore. Cherry picking: tutti i fatti che depongono contro la tua teoria sono in realtà bugie frutto del complotto e vengono dunque eliminati.
In generale, mentre la pietra d’angolo del pensiero scientifico è la falsificabilità, la pietra d’angolo del pensiero complottista è l’infalsificabilità. È letteralmente impossibile provare ad un complottista che si sbaglia, perché qualunque prova porti contro la sua tesi è frutto del complotto, un artefatto creato da un malvagio, potentissimo qualcuno.

Vista la versatilità del pensiero cospirazionista, si può dunque arrivare a dire senza troppe remore che se ne può trovare ovunque e ad ogni livello di strutturazione del pensiero umano. La mia ex moglie pensa che io sia uno stronzo. I miei colleghi pensano che io sia uno stronzo. Il mio capo pensa che io sia uno stronzo. I miei parenti pensano che io sia uno stronzo. La cassiera che ho insultato stamane pensa che io sia uno stronzo. Sarà mica che sono stronzo…? No! Posso sempre dire che sono vittima di una cospirazione perché, boh, sono “uno scomodo”, sono invidiosi del mio successo o qualche altra pantagruelica cazzata.

In estrema sintesi, se dovessi definire il cospirazionismo, lo definirei così: è il discorso menzognero sistematizzato, raffinato e portato al suo più alto livello di complessità; è l’eleganza massima del mentire, analogamente a come il pensiero scientifico è la ricerca del vero portata alle sue massime raffinatezza ed eleganza.
Ne consegue che, del complottismo, non se ne parla mai abbastanza, e mai abbastanza male. Troppo poco lo si individua e si denuncia, troppo poco si lancia l’accusa di complottismo, troppo poco accorti siamo contro di esso.
E proprio se per una volta il discorso viene reso un po’ più avanzato, ovvero se per una volta qualcuno si accorge che il discorso complottista si sta già pericolosamente gonfiando fuori di misura nel nostro paese e lo denuncia… Viene accusato di essere schierato e di star esagerando perché tutto sommato è roba innocua.

Mala tempora currunt.

Ossequi.

 





L’orrore erotico di Junji Ito

26 03 2018

L’horror giapponese, tipicamente, si distingue da quello occidentale soprattutto per la sua maggiore attenzione agli aspetti psicologici. L’orrore made in Japan spesso non è un rappresentato da un mostro che ti insegue, quanto da un male che ti porti dentro, e non ti distrugge coi coltelli, ma col veleno.

E uno dei maestri indiscussi del genere è il mangaka Junji Ito.

Il sottoscritto lo ha scoperto per caso alcuni anni fa, incuriosito dall’aver letto il suo nome in alcune wiki. Dicevano fosse terrificante, ma i riassunti delle sue opere erano molto vaghi e non sembravano particolarmente orrorifici. Immaginate la sorpresa quando mi sono ritrovato, uomo adulto, vaccinato e non molto impressionabile, ad avere difficoltà a prendere sonno dopo aver letto una delle sue storie brevi più celebri: l’Enigma di Amigara Fault.

Trovo che il genere horror sia incredibilmente rivelatore rispetto al funzionamento della nostra psiche, e che Junji Ito sia, in tal senso, un genio (del male?) della psicologia. Dunque in questo piccolo saggio farò un breve excursus sull’autore, che illumina secondo me una serie di riflessioni interessanti sulla psiche umana, cominciando proprio da L’enigma di Amigara Fault (Attenzione: tanti spoiler).

La storia de l’Enigma è piuttosto bizzarra. La premessa è la seguente: in seguito a un forte terremoto emerge dal terreno una faglia. Niente di strano fin qui, se non che sulla parete piatta e omogenea spiccano decine o centinaia di buchi a forma di silhouette umane. I buchi in questione continuano indefinitamente all’interno della montagna, al punto che con una normale sonda non si riesce a raggiungerne il fondo. Ma la cosa ancora più strana è che questi buchi sono fatti a forma di specifiche persone. Vicino alla faglia si conoscono i due pratogonisti, Yoshida e Owaki. I due hanno saputo della faglia tramite la televisione, e hanno sentito un irresistibile desiderio di andare a vederla; una cosa comune a molti altri, tanto che intorno alla parete si è formato un assembramento di persone che sono lì esattamente per la stessa ragione-non-ragione. Appena arrivati l’incubo inizia: presto si scopre che molti di quelli che sono arrivati lì lo sono perché hanno creduto di intravedere in TV un buco che ha esattamente la loro forma. Uno alla volta, i presenti vanno alla ricerca del “proprio” buco e ci entrano, di propria spontanea volontà, sparendo nelle profondità della montagna per non essere mai più rivisti.

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Non passa molto perché Yoshida trovi anch’ella il proprio buco. Di fronte ad esso, la ragazza ha un inspiegabile attacco di panico; inizia a dire che quel buco è stato fatto per lei, che l’ha aspettata per intere ere geologiche, che lei prima o poi ci finirà dentro e resterà intrappolata come gli altri. Owaki la rassicura e dispone una serie di pietre a tappare il buco per mostrarle quanto non ci sia pericolo; e poi, come potrebbe mai la ragazza finire nel buco, se non entrandoci volontariamente, cosa che chiaramente non farebbe? Yoshida sembra tranquillizzata; i due passano due notti insieme, sta chiaramente nascendo qualcosa fra loro. Alla seconda Owaki si sveglia, Yoshida non è accanto a lui. Preda di un terribile presentimento, accorre al buco di Yoshida: la ragazza ha rimosso le pietre, si è spogliata e ci entrata dentro. Mentre si dispera, domandandosi il perché di quel gesto folle, Owaki incrocia con lo sguardo un altro buco: questo è il suo. Con calma, quasi stoicamente, scorda la tristezza, scorda in effetti qualsiasi emozione, si spoglia e vi entra, scomparendo a propria volta. Entrambi subiranno un fato peggiore della morte.

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Yoshida va nel panico davanti al “suo buco”

Non a caso questa è una delle storie più celebri di Junji Ito, nonché quella da cui parte il mio excursus. Contiene quasi tutti i temi cari all’autore. Il più potente e più sentito è il tema dell’inevitabilità del destino: finirai in quel buco, ti ha atteso da milioni di anni e lì dentro finirai. Inevitabilmente. Poi va a toccare praticamente tutti i terrori primordiali dell’uomo: l’isolamento, la claustrofobia, la nictofobia, il body horror. Ma la cosa che colpisce di più me, personalmente, è l’aspetto psicologico: l’orrore della compulsione.

La gente entra in quei buchi non perché costretta o non cosciente: vi entra perché ha un irrefrenabile desiderio di farlo, sente di doverlo fare, e vi entra di sua spontanea volontà. Yoshida è terrorizzata dal buco non perché teme che la insegua, cosa che un buco non può certo fare, ma perché sa già, al livello subcosciente, che sarà lei stessa a gettarcisi dentro, presto o tardi.

Se lo sa, perché non lo impedisce?

Ed è qui che si rivela il genio psicologico di ito. Quei buchi sono una manifestazione della forza più oscura, terrificante e potente che controlla l’esistenza umana: la marea informe, caotica e irrazionale dell’inconscio. Yoshida non vuole razionalmente e coscientemente entrare nel buco, ma il suo inconscio lo desidera con una potenza cui, semplicemente, ella non può resistere. L’inevitabilità di quel destino tragico risiede nel suo provenire non da fuori, ma dall’interno. È un male che ti sta dentro, ma non come un Mr. Hyde, che assume contorni definiti e perfino diventa indipendente da te: è un male che fa parte di te, che sei tu: Yoshida e Owaki entrano nel buco. Entrano perché lo vogliono, il loro inconscio lo vuole; e lo vuole perché deve punirli di un orribile crimine che hanno commesso in qualche vita precedente… ma questo crimine orrendo è anch’esso un crimine inconscio; non lo ricordano, non sanno neanche di che si tratta, e sappiamo che esiste solo perché… Owaki lo ha sognato. Il sogno finestra sull’inconscio. Dice qualcosa?

Tutto ciò che accade sfugge al controllo razionale, eppure sta accadendo tutto dentro di loro, ovvero nel posto sul quale dovrebbero avere il più grande controllo. Il terrore qui è scatenato dal fatto che Junji Ito ci mostra delle persone che non solo non hanno potere su ciò che accade intorno a loro (magari perché vittime di mostri, vampiri, spettri), ma che soprattutto non ce l’hanno su quello che succede dentro di loro. L’orrore sono loro.

Ci sono ancora un paio di temi importanti da sottolineare, qui; quello che trovo più interessante e più necessario a capire Junji ito è il ruolo dell’amore e della sessualità nelle sue opere.

Che ruolo ha l’amore, il calore degli altri esseri umani, ne “l’Enigma di Amigara Fault”? Owaki rassicura Yoshida e le da amore. Le dà anche un’elegante e tranquillizzante spiegazione del suo terrore per il buco: Yoshida è sempre vissuta sola, e per lei il buco rappresenta la solitudine. Ma ora non è più sola, non ha quindi più nulla da temere.

Ma Yoshida scappa silenziosa durante la notte e si infila nel suo buco di suprema solitudine. E subito dopo Owaki finisce a sua volta nel proprio buco.

L’amore qui è una promessa disattesa; il calore degli altri esseri umani non può aiutarti in alcun modo, se tu hai un buco che ti attende da quando sei nato, e hai l’ansia febbricitante di riempirlo. Yoshida e Owaki ripudiano la vicinanza reciproca in favore dell’autodistruzione, perché semplicemente questa viene da dentro di loro, e dunque è più forte dell’amore che invece sta fuori.

Ma c’è dell’altro da notare, e io mi concentrerei su questo aspetto, che vedremo anche nelle altre opere: il male, in Junji Ito, è spesso femmina. I buchi sono il male ne l’Enigma, e il buco freudianamente parlando è femmina. E esercita il suo male in modo femmineo, passivo: non ti insegue come il mostro di uno slasher movie, si limita ad attenderti, a spalancartisi davanti, ad attrarti come una pianta carnivora. E una volta che gli sei… che le sei entrato dentro, ella ti intrappola. E non ti uccide, fa molto di peggio: ti trasforma in un orrore vivente, tramuta la tua esistenza in agonia.

Ma se il male de l’Enigma è femmina metaforicamente, il male di “Tomie”, altra grande opera di junji Ito, è femmina nella maniera più esplicita; e non si può parlare di sessualità e amore in Ito senza parlare di Tomie. Tomie è la protagonista/antagonista di una lunga serie di racconti di Junji Ito; si tratta di una ragazza che ha il potere di sedurre invincibilmente qualsiasi uomo. Un solo sguardo di Tomie ti trasforma nel suo schiavo d’amore. Come usa Tomie questo potere? Per conquistare il mondo? Per ottenere denaro e fama? Nulla di tutto ciò: lei vuole solo ottenere una schiera infinita di schiavi d’amore; vuole sedurre e torturare psicologicamente qualsiasi uomo sulla terra; e questa sua fame di amanti non si ferma davanti a niente, non ha remore nemmeno nel darsi alla pedofilia e sedurre e molestare perfino i bambini. Ma il tratto più peculiare di Tomie, che la distingue dalla maggior parte delle “Sirene” e delle “Streghe” della fiction, è a cosa portano le sue azioni: gli uomini che ne cadono vittima vedono la loro passione crescere inesorabile; parallelamente, Tomie mette presto da parte la dolcezza iniziale e diventa sempre più gelida e sprezzante: maltratta, insulta, disprezza apertamente i suoi amanti, e ovviamente li tradisce con centinaia di altri. Questo, inevitabilmente, porta i suoi amanti a odiarla sempre di più e ad esserne sempre più gelosi, il che alla fine si risolve con un omicidio: Tomie viene sempre uccisa dai suoi amanti, e generalmente fatta a pezzi. Ma non ci si libera così facilmente di Tomie, per due ragioni: la prima è che la sua influenza è permanente, chi ne cade vittima una volta non è mai più capace di amare altre donne e vive tutto il resto dell’esistenza a desiderarla, spesso finendo ad autodistruggersi nel crimine. Ma soprattutto, Tomie rinasce sempre, anzi, si moltiplica: ogni pezzo di Tomie è capace di rigenerare una nuova Tomie per intero, identica alla prima. Non v’è dunque una sola Tomie, a questo mondo, bensì un intero esercito.

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Nella storia “Il Pittore”, un artista innamorato cattura la “vera bellezza” di Tomie.

Anche qui Ito ci colpisce sotto la cintura, anche qui abbiamo un qualcosa che scatena il nostro inconscio, che ci rende delle persone orrende, ci distrugge la vita… Ma qualcosa che è dentro di noi, Tomie ci entra dentro. Al contempo, Tomie è il male femmina. La sua passività è totale, ella non fa altro che farsi corteggiare, gli uomini vanno da lei, non è lei che va da loro. La passività di Tomie è portata così all’estremo che rovescia la dialettica tipica dell’horror, in cui il carnefice uccide la vittima: qui il carnefice è ucciso dalla vittima. Più e più volte, in un ciclo infinito di distruzione e autodistruzione. Tomie, a sua volta, rappresenta essa stessa quel desiderio di cui è oggetto; ella brama la propria dissoluzione, ella vuole essere uccisa e risorgere ogni volta. Ella stessa è vittima di sé stessa. E non scordiamoci che, da brava femmina, è una forza proliferante, che si replica. Ma non a caso, la sua procreazione è asessuata, e ogni Tomie odia tutte le altre Tomie, perché le vede come rivali. Metaforicamente ma anche concretamente, dunque, Tomie odia sé stessa e vuole vedere sé stessa distrutta e fatta a pezzi; l’importante è distruggere anche tutto ciò che ha intorno nell’atto.

Dunque abbiamo due mali, i buchi e Tomie, che sono entrambi femmine e passivi, e il loro unico potere, l’unico modo in cui distruggono le vite intorno a sé, passa attraverso il farsi desiderare, attraverso il subire, attraverso la sollecitazione dell’inconscio altrui, attraverso il farsi penetrare metaforico. Ed entrambi non sono mostri (almeno, non a vedersi, ma provate a scattare a Tomie una foto…), ma una volta che ti hanno catturati trasformano te in una pervertita mostruosità.

Non è un caso, a mio avviso, la scelta Di Ito di riferirsi tanto spesso alla sessualità e all’amore. Sono temi ricorrenti per lui, è la ragione secondo me è piuttosto ovvia: nella sessualità e nel sentimento l’inconscio si manifesta nella sua forma più libera e selvaggia. Attraverso l’eros si scatena la follia in una forma che è quasi considerata accettabile socialmente. Ed è un eros che nel suo farsi ossessione e febbre, sublima, si spoglia di concretezza: notiamo bene che non si vede mai, che io sappia, Tomie fare sesso. Sembra che tutti i suoi rapporti siano effettivamente privi di una sessualizzazione concreta, e si potrebbe ipotizzare che Tomie stessa sia del tutto incapace di piacere sessuale. Chiaramente non lo cerca, quello che fa è farsi desiderare eroticamente, ma mai possedere o toccare per davvero, se non per farsi uccidere. Tutti gli uomini che la incontrano dicono di essere follemente innamorati di lei, nessuno di loro dice di desiderarla sessualmente e basta. E come accennavo prima, anche un bambino cade vittima di Tomie e delle sue molestie sessuali, ma malgrado ella lo baci perfino sulla bocca, lui la chiama “mamma” (Freud qui sborrerebbe). L’erotismo vero è proprio è dilazionato, è altrove: quello che conta qui è solo il possesso; e chi si possiede meglio di un bambino? È dunque naturale che Tomie sia anche pedofila, e nella storia “Il ragazzo” Ito viola uno dei maggiori tabù del perturbante, descrivendo con raccapricciante dettaglio gli effetti devastanti di quella che è un’autentica violenza sessuale su minore; e per di più coglie il nucleo della malvagità dietro l’abuso pedofilo, che non è l’atto sessuale in sé (Tomie si “limita” in effetti al bacio in bocca, sul piano fisico) né la violenza fisica (che Tomie non pratica mai in quanto naturalmente “passiva”) ma tutto il contorno manipolatorio, la disparità di potere, l’astuzia tossica del seduttore che perverte per sempre la concezione dell’amore e del sesso del futuro adulto. Tomie manipola il bambino, lo seduce, trovando nel fatto che sia un bambino non un limite ma semmai il divertimento di una vittima ancora più facile da plagiare.

Il tema dell’amore perverso, dell’amore come possesso e dipendenza, come ossessione, come follia, torna ripetutamente in Junji Ito (che comunque risulta felicemente fidanzato, a scanso di equivoci). Anche nell’altra opera per cui è forse più famoso, la raccolta di racconti “Uzumaki” (“Spirale”). In Uzumaki il male assume forma, letteralmente: una forma geometrica, quella della spirale. La pacifica città di Kurozu-Cho viene maledetta dalle spirali, collegate a tutta una serie di terrificanti eventi. Un uomo diventa ossessionato dalle spirali al punto da passare tutto il proprio tempo libero a fissare spirali, finché un giorno non si suicida in una lavatrice, trasformandosi così, fisicamente, in una spirale. La moglie, dal canto suo, sviluppa una fobia per le spirali, tale che si suicida nel tentativo di rimuovere le spirali dalle proprie orecchie.

Anche la scelta di questa specifica forma non è casuale: la spirale è il simbolo dell’autodistruzione. La spirale dell’alcol, la spirale della droga. A Kurozu-Cho la gente inizia ad essere divorata dall’interno da spirali, da vortici di autodistruzione che è impotente a fermare perché non vuole fermare davvero: l’unico a rendersi conto di ciò che sta succedendo è Shuichi, un ragazzo un po’ strano che è capace di “vedere” le spirali maledette, ma non viene mai ascoltato e dunque non può far altro che assistere impotente alla distruzione che si sparge incontrollata, alla discesa nella follia del mondo che lo circonda.

La storia forse più famosa di questa raccolta è “la Cicatrice”, in cui una bellissima ragazza di nome Azami inizia ad essere divorata viva da una cicatrice a forma di spirale che ha sulla fronte. Anche qui l’orrore fisico riflette quello psicologico: Azami conosce Shuichi, ma questi vede subito, grazie al proprio sesto senso, la spirale sulla sua fronte, anche se è ancora piccolissima: ne è terrorizzato, scappa da lei è le ingiunge di abbandonare subito Kurozu-Cho per salvarsi. Ma è troppo tardi, Azami è già maledetta. La sua spirale, la spirale psicologica di Azami, è un amore malsano per lo stesso Shuichi che si sviluppa immediatamente, non appena lo vede. Non solo i tentativi di lui di allontanarla falliscono, ma fanno solo aumentare l’ossessione di lei, che addirittura si trasferisce vicino a lui per potergli fare stalking meglio. La spirale non fa che crescerle dentro l’anima, e allo stesso tempo le cresce dentro il corpo, scavando un profondo buco sulla sua fronte. Parallelamente, è vittima della spirale di Azami anche il povero Okada, un ragazzo che invece è innamorato in modo malsano di lei e, nelle sue stesse parole, se ne sente “risucchiato”.

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Azami divorata dalla spirale.

Alla fine, al culmine dell’ossessione, Azami usa Okada per riuscire ad avvicinarsi a Shuichi. L’inganno riesce, ma l’obbiettivo della spirale non è certo dar vita ad un rapporto: solo divorare tutto. La Spirale, che ormai ha divorato tutto il viso di Azami, risucchia dentro di sé anche Okada, uccidendolo, dopodiché, mentre Shuichi si rifugia su un albero, divora completamente la stessa Azami, che viene ridotta al nulla. Ritorna l’inconscio scatenato che si manifesta attraverso un’inestinguibile passione, un irrefrenabile desiderio narcisistico di possesso sessuale dell’altro che consuma tutte le persone coinvolte. Anche qui, la voce della ragione, Shuichi, si rivela del tutto impotente ad aiutare gli altri; e anche se riesce per ora a salvare sé stesso, non potrà riuscirci per sempre, soprattutto quando la spirale inghiottirà veramente ogni cosa…

Quindi l’amore per Ito è una promessa disattesa (l’Enigma), oppure una pulsione distruttiva e autodistruttiva mirata al possesso del prossimo (Tomie), una tossicodipendenza che ti risucchia via la vita (Uzumaki). Junji ito non offre niente di meglio?

Un pochino sì: qualcosa c’è nella storia “Twisted Souls”, sempre parte della serie sulle spirali. Due ragazzi vivono una storia d’amore tormentata perché ostacolata dalle rispettive famiglie, Romeo e Giulietta style. Anche stavolta Shuichi vede chiaramente la maledizione della spirale aleggiare sugli eventi. Un giorno i due amanti commentano su come le loro famiglie siano “avvinghiate” nel loro odio reciproco, e osservano per caso due serpenti intrecciati fra di loro: “combattono, come le nostre famiglie”, commentano lì per lì. Poi si rendono conto che non stanno affatto combattendo: sono maschio e femmina. Stanno facendo sesso. I due serpenti cadono nel vuoto, ancora avvinghiati fra di loro.

Sotto consiglio di Shuichi, i due decidono di lasciare la città. Finalmente una cosa sensata, pensano Shuichi e il lettore, ma le loro famiglie li fermano, li inseguono e infine li braccano su una spiaggia. Di fronte alla prospettiva di essere separati per sempre, i due ragazzi fanno qualcosa di folle e fisicamente impossibile: trasformano i propri corpi in forme nastriformi e si annodano inestricabilmente fra di loro, come i serpenti di prima. Nessuno potrà mai più separarli, nemmeno loro stessi. Le rispettive famiglie ora capiscono che il punto non è separarli, ma salvarli: ma è troppo tardi: come una specie di serpente a due teste, i visi malinconici, i due si gettano in mare per non essere mai più rivisti.

L’amore qui appare ancora come qualcosa di potenzialmente devastante e autodistruttivo, ma senza rinunciare, stavolta, ad un certo romanticismo di fondo: è chiaro che i due protagonisti vogliono soltanto potersi amare, genuinamente. Ma è altrettanto chiaro che la maledizione della spirale qui ha due facce: da un lato si manifesta nell’odio reciproco delle famiglie, dall’altro nell’amore dei due, che per reazione diventa malsano. Puoi vivere il tuo amore anche se le tue famiglie ti ostacolano, sembra dirci la storia, ma il prezzo sarà di annodarsi insieme, di diventare un unico inestricabile groviglio, una mostruosità a due teste… e scappare nel mare, esclusi da tutto e da tutti, profondamente infelici. Ma insieme.

Come potrebbe questa storia non toccare le corde del cuore di un omosessuale italiano? La fuga da una società malsana diventa un amore malsano, simbiotico, dal quale ormai è impossibile divincolarsi, anche volendolo. L’altro diventa tutto, si vive e si muore insieme.

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I due amanti si “intrecciano”.

Per trovare un vero messaggio di speranza bisogna cercare una storia che parli esclusivamente di passioni d’amore: “Gli incroci”. In una città del Giappone, perennemente immersa nella nebbia, vi è la moda di praticare la crucimanzia: ci si ferma agli incroci nei giorni di nebbia e si domanda al primo passante qualcosa sul futuro di un amore; la formula è tipicamente “il mio amore porterà frutto?”, e la risposta è considerata affidabile, a mo’ di oroscopo. Purtroppo fra gli incroci, nei giorni di nebbia, si aggira un bel ragazzo vestito di nero dall’aria inquietante. I suoi pronostici sono sempre cattivi, e soprattutto si avverano sempre, in effetti sono più che altro delle maledizioni. Per esempio un giorno, Reishi, amica dei protagonisti Midori e Ryuusuke, fra cui c’è dell’attrazione, domanda al ragazzo degli incroci se l’amore dei suoi due amici porterà frutto. Il ragazzo le risponde che dovrebbe preoccuparsi del proprio, di amore. Da quel momento in poi Reishi si scopre follemente innamorata di Ryuusuke, che però non ricambia, arrivando al punto di perseguitarlo ovunque vada; a poco a poco l’ossessione la divora, inizia a perdere la salute, il viso si fa emaciato. Di fronte all’ennesimo rifiuto, Reishi si taglia la gola con un tagliacarte. Il tema ormai ricorre chiaro: l’amore che diventa la spoglia sotto la quale si nasconde un inconscio tormentato, una desiderio sopito di autodistruzione che culmina con la sua realizzazione massima: il suicidio.

La differenza qui è che Ryuusuke decide di contrastare il bel ragazzo vestito di nero con i suoi stessi mezzi: si veste di bianco e si aggira per gli incroci “intercettando” le vittime prima che incontrino il ragazzo vestito di nero, e dando loro ottimi consigli e parole di incoraggiamento. Un bel ragazzo vestito di bianco che ti dice qualcosa di bello, per contrastare un bel ragazzo vestito di nero che ti maledice e avvelena. Forse per la prima volta leggo in Junji Ito di forze spirituali positive che si scontrano con quelle di segno opposto e possono perfino vincere.

Ed è qui che sorge spontanea la domanda: nel mondo di Junji Ito è ammesso un inconscio positivo, che non cerchi di avvelenarci e distruggerci, ma invece di aiutarci? Sembrerebbe di sì, ma forse semplicemente a Ito non interessa molto parlarne, perché lui scrive horror e gli preme farci rabbrividire, non di farci sorridere. Il più delle volte, almeno.

La forza salvifica dell’amore vero fa capolino qua e là anche nel suo mondo così malvagio e caotico; di solito viene nascosto o assimilato da pulsioni malsane che lo rendono invisibile o addirittura lo convertono nel male assoluto… Ma a volte è comunque lì…

Forse si capisce meglio il punto di vista di Junji Ito sull’amore se si leggono i fumetti comici che ha dedicato ai suoi gatti e alla sua fidanzata: Junji Ito è un amante dei gatti, ovvero dell’indipendenza e dell’autonomia. Forse per questo ci mette in guardia da un amore che ti annulla e ti rende dipendente dall’altro, e da una sessualità predatoria che ti rende schiavo.

Consiglio recepito, Junji, consiglio recepito…





Miseria del Nazionalismo

17 11 2016
Ho detto più volte che l’ascesa dei nazionalisti di oggi ripercorre fedelmente le tappe del fascismo e del nazionalsocialismo.
Dopo attenta riflessione, con l’unica eccezione di Putin, mi devo smentire e ammettere di aver detto una sciocchezza. Non è così. I nazionalisti odierni hanno un’idea del ruolo della propria nazione nel mondo che è radicalmente diversa dall’idea che ne avevano Hitler, Mussolini o che oggi ne ha Putin.
Hitler sognava la supremazia della Germania, una Germania che conquista, che domina, che si espande, che gioca un ruolo centrale nella scacchiera globale. Hitler, Mussolini, Putin… tutti alimentati dalla Wille zur Macht, La Volontà di Potenza; tutti grandi uomini che volevano una nazione grande. Grandi uomini nel male, ma indubbiamente grandi. Grandi nazioni nel male, ma indubbiamente grandi.
La caratteristica dei nazionalisti odierni, Le Pen, Salvini, Trump, May, è la loro vergognosa, patetica piccolezza. Il nazionalismo di un Trump non aspira a controllare il pianeta, piuttosto aspira a chiudere le frontiere e far finta che non esista alcun pianeta.
Il nazionalismo del Novecento era espansivo e guardava al futuro della nazione, quello odierno è recessivo e guarda esclusivamente al passato, cerca di ricostruire un trascorso nostalgico: “Make America Great Again”. Quell'”Again” è il cuore di tutto: non rendiamo l’America grande, rendiamola grande di nuovo, come era un tempo.
Ovviamente, la grandezza passata dell’America è dovuta proprio al fatto che è sempre stata una nazione che si muove di continuo, che ha un ideale globale, che guarda sempre al futuro, che si espande sempre, che aspira continuamente alla potenza… come la Russia di Putin. Gli USA hanno sempre avuto un’ideale grandioso da esportare e far affermare in tutto il pianeta; è l’inseguimento di questo ideale che, nel bene e nel male, li ha resi grandi. Se l’America smette di giocare quel ruolo, se si chiude a riccio e inizia ad illudersi di poter pensare solo a sé stessa, potrà essere molte cose, ma di sicuro non potrà mai più essere grande.
Lungi dall’essere la cura o la reazione alla decadenza ideale ed estetica dell’Occidente, questi nazionalisti mentecatti ne sono il prodotto ultimo naturale. Sono meschini e vigliacchi piccolo-borghesi che non credono in niente, neanche in sé stessi, e vorrebbero guardare solo il proprio orticello mentre il resto del mondo va in fiamme. Hitler spaventava perché voleva dominare gli altri, portava avanti un’ideale di tipo guerriero; la Le Pen e la May sono guidate da un solo ideale supremo: un “facciamoci i fatti nostri” da Don Abbondio anni 2000, un ideale dunque irriducibilmente piccolo borghese.
Il nazionalismo è sempre frutto della paura, ma vi sono tre possibili reazioni fisiologiche alla paura: combatti, oppure fuggi, oppure ti fingi morto e aspetti che il pericolo passi.
Combattere richiede un nerbo che nessun leader europeo odierno possiede; lo possiedeva un leader americano, Hillary Clinton, ma è stata trombata, quindi oggi in Occidente non c’è nessuno che abbia le palle di combattere la paura. La seconda opzione più efficace è fuggire: se qualcosa ci fa paura nella direzione in cui ci stiamo muovendo, allora proviamo a cambiare direzione. Questo è quello che cercano di fare i leader delle forze democratiche europee; non hanno il nerbo per combattere per ciò in cui credono e allora rifuggono dal confronto. E infine c’è  la tanatosi: muoviamoci il meno possibile, blocchiamo ogni cambiamento, addirittura se possibile cerchiamo di tornare ad uno stato precedente, e aspettiamo che il pericolo passi. Questi ultimi sono i populisti degli anni 2000; quelli che sanno fare una sola cosa: cercare di fermare la storia.
Hitler ha iniziato una guerra mondiale per cercare di conquistare tutta l’Europa; la Le Pen non inizierebbe mai una guerra del genere, ma in compenso, se qualcuno minacciasse gli interessi francesi armi alla mano, si piegherebbe a novanta e si lascerebbe scopare nel culo come una puttana.
Ho sempre pensato che l’estrema destra europea fosse una reazione inadeguata e spropositata alla decadenza occidentale, una sua conseguenza nel senso di un opposto dialettico. Oggi mi sto rendendo conto sempre di più che non è neanche quello, non è in opposizione alla decadenza nemmeno nel senso di risposta dialettica e speculare ad essa. Piuttosto ne è l’apice assoluto e logica conclusione; i nazionalismi di oggi non rispondono alla crisi dei valori, essi sono la concretizzazione ultima della crisi dei valori; son ciò che resta quando non si crede più in nessun comandamento che non sia “fatti i cazzi tuoi”.
E forse è troppo tardi per impedire che un processo così lungo e massiccio si fermi…
Ossequi




Razionali, razionalisti?

10 07 2016

 

Il sito dell’UCCR, “Unione Cristiani Cattolici Razionali” è uno dei miei bersagli preferiti, lo trovo troppo divertente, seppure mi faccia in contemporanea un po’… come dirlo … Mi faccia un po’ senso, ecco. Ma non sono l’unico a trovarlo divertente, soprattutto per via dell’ovvio ossimoro di dichiararsi “razionali” e poi metter su un sito che è fra le dieci maggiori repository italiane di bufale, fallacie logiche e nonsense.

Fa sorridere anche pensare al fatto che il nome vorrebbe rappresentare uno spoof, una presa in giro, dell’UAAR, Unione Atei Agnostici Razionalisti. Gli UAAR si ritengono razionali, sì, ma anche razionalisti. Con il loro nome gli UCCR accusano delicatamente ma inequivocabilmente gli UAAR di essere razionalisti, cosa molto brutta e cattiva, ma non razionali come sarebbero  loro.

Ora, non staremo qui a sottolineare di fronte al mio pubblico, che generalmente ha una certa cultura ed intelligenza, l’ovvietà che l’UCCR non è razionale in nessun senso del termine (seppur del termine “razionale” torneremo a discettare). Piuttosto vorrei discutere due aspetti che non sono altrettanto ovvi: possiamo dire che l’UAAR sia razionalista, e che l’UCCR invece non lo sia?

La risposta a questa domanda è secondo me tutt’altro che scontata. Diciamo che l’appellativo di essere “razionale” piace un po’ a tutti; è molto neutro e sembra un complimento, tutti vogliono definirsi razionali; gli atei di ferro dell’UAAR però ci tengono a definirsi razionalisti, mentre gli integralisti cattolici dell’UCCR ci tengono a prendere le distanze da quella definizione.

Come spesso facciamo su queste pagine, partiamo da questo spunto per un discorso di respiro molto più ampio. Da questa dicotomia comunicativa fra UAAR e UCCR possiamo infatti provare a desumere una vulgata, un luogo comune, un’idea o un quadro di pensiero così diffuso da essere dato quasi per scontato nel pensiero moderno.  Cerchiamo di desumere, insomma, cosa dice quella che gli integralisti religiosi amano chiamare la “cultura dominante” (onde potersi vantare di non farne parte), e poi valutiamo se questa diffusa idea sia effettivamente fondata.

Tutti vogliono essere razionali, dato che tutto sommato non significa niente di preciso. Gli UCCR mandano affanculo tutta la comunità scientifica mondiale ma ancora si fregiano del titolo; stanti così le cose è evidente che lo usano più o meno come sinonimo di “furbo e intelligente dal mio punto di vista” e nulla di più. “Razionalisti” dovrebbe voler dire qualcosa di più preciso, ovvero un affidarsi in maniera preponderante allo strumento della ragione, un credo stentoreo nell’ordine razionale del mondo e nella capacità della mente umana di penetrarne il disegno in maniera completa. Ovviamente, lo strumento principe della ragione è la scienza, dunque il razionalista in teoria è anche uno che crede con fermezza nel metodo scientifico. L’ateo è naturalmente razionalista, o incline ad esserlo? E il credente, il credente è naturalmente irrazionalista o incline ad esserlo?

La vulgata comune è che sì, è così. Perfino gli UCCR, il cui lavoro consiste praticamente per intero nell’usare giochi di prestigio per cercare di far passare l’idea che la scienza sia sempre dalla loro, non ritengono di essere razionalisti. Avvertono, come tutti, la sensazione che “ragione e fede sono cose separate”.

Ecco la vulgata, ecco il luogo comune indistruttibile; il pensiero che ti fa fare gli applausoni se lo dici in un talk show serale, insomma. Sicuramente il credere in Dio e il credere nella ragione e nella scienza sono cose separate che procedono su sentieri separati e trattano oggetti di ricerca separati.

È a partire da questo assunto che praticamente tutti i discorsi su religione e ragione vengono affrontati oggidì. Ci sono minoranze di “incompatibilisti” più o meno radicali, convinti che fede e ragione, approcci separati e diversi l’uno dall’altro, si litighino un campo che dovrebbe appartenere ad una sola delle due. Il sottoscritto è un incompatibilista ateo, ad esempio: la scienza è ciò che serve, non c’è spazio per la fede. Gli integralisti protestanti di stampo americano, come i loro epigoni italiani aderenti di solito alle chiese pentecostali, sono invece incompatibilisti credenti: la Bibbia ci spiega il mondo, non c’è spazio per la satanica scienza. Ma a parte questi casi, più di frequente abbiamo a che fare con compatibilisti che affermano che sì, scienza e fede sono cose separate, ma che proprio in virtù della separazione possono convivere pacificamente. Dunque io credo nella creazione MA ANCHE nell’evoluzione. Credo nella morale sessuale cattolica, MA ANCHE nella coppia omosessuale.
I compatibilisti, in qualche modo, cercano sempre di tenere il piede in due scarpe. Alcuni lo fanno saltellando da una scarpa all’altra, come ad esempio Renzi e Vendola in politica, o come Vattimo in filosofia. Altri indossano la scarpa della razionalità sulla testa a mo’ di cappello e vogliono definirsi ancora razionali, come appunto l’UCCR; altri ancora fanno la stessa cosa con la scarpa della religione ma definendosi ancora credenti o quanto meno neutrali, come ad esempio molti nel CICAP.

Ci sono mille contraddizioni particolari nell’approccio compatibilista, andare ad elencare casi specifici è sparare sulla Croce Rossa, e la gente non mi legge per sentirsi dire banalità del tipo “ma che cattolico sei se sei a favore dell’aborto?” o “ma che razionale sei se ogni volta che la scienza non è d’accordo con te la scarichi nel cesso?”
Il mio punto non è il modo in cui questi attriti fra fede e ragione sono affrontati oppure svergognatamente negati; il punto è che tutti sono d’accordo che fede e ragione siano cose separate. Tutta la discussione che segue è una semplice disputa territoriale: dove si applica la fede, e dove la ragione? L’UCCR non vuole dirsi razionalista perché è convinto che ci siano ambiti su cui la ragione reclama territorio che però vanno consegnati alla fede (nel caso specifico, praticamente tutti). L’UAAR vuole dirsi razionalista perché ritiene che sia la fede che reclama spazi non suoi (anche qui, praticamente tutti).

Ma se invece fede e ragione fossero la medesima cosa? Se essere razionalisti ed essere fideisti fossero tutto sommato sinonimi, o al massimo modi diversi di guardare allo stesso approccio filosofico? Qualcuno l’ha mai considerata questa possibilità?

Sì: nel Medioevo, TUTTI. Nel Medioevo, era QUESTA la vulgata: ragione e fede sfumano l’una nell’altra, non v’è cesura né disputa territoriale alcuna.

Una delle argomentazioni più idiote usate dai credenti per sostenere che la scienza sia dalla loro anche quando non lo è è copiare-incollare un elenco di famosi scienziati credenti che gira in rete da anni, e probabilmente continuerà a girare sempre uguale anni dopo la mia morte: “visto quanti scienziati credenti? È perché non è vero che la scienza contraddice la fede”. L’argomento è chiaramente demenziale per una serie di ragioni, prima fra tutte il fatto che nella lista ci sono prevalentemente scienziati vissuti secoli fa in un mondo, quello della scienza, in cui sei le tue posizioni diventano già obsolete dopo un anno da quando sono state espresse; ma ancora più demenziale è la risposta che danno di solito gli atei a questo demenziale argomento:  “erano credenti solo perché se no lì  bruciavano!”

Chiariamoci: è vero, non conveniva a chi avesse la pelle sensibile al fuoco dichiararsi atei nel ‘600, per dire. Ma chi dica che gli scienziati del passato erano credenti solo perché costretti è uno che non ha letto niente di quello che costoro hanno scritto.

Farò un esempio per tutti; prendiamo Cartesio, da molti considerato iniziatore del razionalismo e fra le altre cose grandissimo matematico. Cartesio era un gran paraculo che non pubblicava niente senza essere sicuro al 100% di non rischiare l’Inquisizione; quindi sì, è vero che era in qualche misura costretto. Però, leggetelo tutto. Il sistema di Cartesio dipende da Dio per funzionare. Seppure Pascal “accusasse” Cartesio di aver costruito un sistema che poteva fare a meno di Dio eccetto “per fargli dare un colpetto per far iniziare a muovere il mondo”, quest’accusa è ingiusta a leggerla oggi. È vero che l’universo di Cartesio è meccanicista e può sembrare che non abbia bisogno di Dio per andare avanti, ma se guardiamo con più attenzione vediamo che Dio è la toppa che Cartesio mette su tutti i buchi del suo sistema, che altrimenti lo farebbero crollare. L’esistenza del mondo esterno, che Cartesio aveva sottoposto al suo dubbio iperbolico, viene salvata attraverso il ricorso a Dio: la garanzia che il mondo esiste è Dio; senza Dio Cartesio è impantanato come una zanzara sulla carta moschicida.

Dunque si mette diligentemente all’opera e prova logicamente l’esistenza di Dio. Come avevano fatto quasi tutti i filosofi prima di lui, peraltro!

Di prove dell’esistenza di Dio oggi non si parla più, e quando se ne parla vanno per la maggiore i miracoli. Dal punto di vista filosofico ciò è buffo, perché i miracoli per definizione non provano niente e infatti i razionali filosofi medioevali usavano un armamentario argomentativo molto più raffinato. Tuttavia è comprensibile se si ricorda la vulgata odierna su fede e scienza: la prova è un concetto scientifico, ricordiamoci che oggi fede e scienza sono considerate rigidamente separate, dunque non si può e non si deve tentare di dar prova di Dio; anche perché se sottoponi Dio al processo della prova lo sottoponi anche al rischio, o meglio alla certezza, della controprova. Per questo oggi i credenti citano prevalentemente i miracoli, ovvero non cercano di provare qualcosa di positivo muovendosi all’interno del pensiero scientifico e razionale, ma piuttosto di scardinare la logica scientifica ed il concetto stesso di prova attraverso l’eccezionale. Per la ragione, che si sforza disperatamente di dare al mondo delle regole, le eccezioni, le imprecisioni, le fluttuazioni, sono una minaccia, un’elemento di caos; ed è lì, in quello spazio pertinente al non-razionale, che i credenti cercano di ritagliare il proprio spazio in opposizione alla ragione, nella posa dichiarata o velata del nemico della ragione.
Ma questo atteggiamento, almeno da parte dei credenti un po’ più intellettualoidi, è abbastanza giovane in senso storico. Non dimentichiamoci che c’è stato un tempo in cui tutti i filosofi, che erano spesso anche scienziati  e comunque i massimi intellettuali del tempo, citavano prove positive e logiche dell’esistenza di Dio. Una di esse, quella ontologica, è semplicemente e palesemente ridicola e ammetto che mi sorprende che qualcuno possa averla seguita davvero anche solo per un momento …  Ma le altre, e mi riferisco soprattutto alla prova cosmologica della “causa prima” e quella fisico-teologica basata sull’ordine razionale del mondo, avevano una logica abbastanza stringente, specialmente la seconda.

Ora, non possiamo accusare Cartesio di essere ateo, quando infilava Dio pure nell’insalata. Nemmeno possiamo accusarlo di essere un irrazionalista: è considerato il padre del razionalismo! E nemmeno possiamo fare quello che piacerebbe ad alcuni credenti, ovvero riconoscergli di essere riuscito a conciliare l’inconciliabilità fra fede e ragione, perché sanno anche le capre che il suo sistema filosofico di fatto era un colabrodo. Il punto è un altro, e cioè che Cartesio non vedeva ancora alcuna distinzione netta fra fede e ragione; sfumavano l’una nell’altra. Cartesio risolveva i problemi logici del suo sistema invocando Dio, e il suo sistema a sua volta provava l’esistenza di Dio. Non stava cercando di conciliare fede e scienza, erano già unite nel momento in cui il sistema era stato concepito. Be’, certo, i gemellini monozigotici stavano iniziando a separarsi in quel periodo, Cartesio probabilmente lo stava vedendo ed è forse l’ultimo che tenterà seriamente di tenerli insieme come succedeva ai bei vecchi tempi. Ma nel suo sistema sono ancora uniti.

Il chirurgo che li separerà per sempre ha, ai miei occhi, il nome di Blaise Pascal. Oggi uno degli idoli dei credenti e di tanti compatibilisti, è forse l’iniziatore, o comunque uno degli avvocati più convinti, del luogo comune di cui dicevo: scienza e fede sono separate. La ragione è sovrana su questioni di ragione, ma deve riconoscere che “ci sono infinite cose al di là di essa”. Su queste cose regna invece la fede, ma attenzione, anche lei non è autorizzata a sconfinare! Il moto dei fluidi lo decide sempre la ragione!
Quali siano le questioni di scienza e quali quelle di fede a questo punto è disputa territoriale, e su questo argomento ci stiamo ammazzando a vicenda ancora oggi, ma è ormai chiaro che sono cose diverse e trattano di cose diverse. La scienza ha un suo regno e la fede ne ha un altro.

Ora guardiamo questi due soggetti: l’ultimo ad essere convinto che scienza e fede fossero una cosa sola, e il primo a dire che non è così. Guardiamoli dal punto di vista psicologico.

Domandiamoci: sono razionali?

Come tutti gli esseri umani, sono razionali a corrente alternata, ma fintanto che non avremo chiarito meglio il termine “razionale” riconosceremo loro che, a parte qualche cazzata come alcune prove dell’esistenza di Dio di Cartesio e la scommessa di Pascal, erano due cervelli abbastanza rigorosi.

Sono razionalisti?

Cartesio di sicuro, ma Pascal molto di meno. Entrambi credono che il mondo abbia un ordine razionale che può essere penetrato dalla mente umana; hanno una fiducia fortissima nella ragione, ma è solo Cartesio ad essere convinto che vi sia ragione ovunque e che essa sfumi naturalmente e comodamente nella fede. E razionalisti quasi come Cartesio erano anche tutti i filosofi cristiani medievali che prima di lui avevano tentato di provare l’esistenza di Dio; non sempre erano razionali, ma sempre erano razionalisti. Anche Anselmo quando scriveva quella robaccia ridicola della prova ontologica lo faceva evidentemente con una fiducia grandissima nel potere della ragione (forse non infinita, diciamo, quello no, ma quella penso neanche Dawkins ce l’abbia). Il famoso “intellego ut credam“, è il motto; ragiono per credere, il ragionamento mi porta naturalmente a credere. E la ragione sembrava indicare inequivocabilmente che Dio c‘era; anche perché se no come spieghiamo il fatto che ci sia questo unico mondo al centro dell’universo intorno al quale tutto gira? Come la spieghiamo l’esistenza della vita e la differenzazione della specie, senza Darwin? Dio è una soluzione abbastanza ragionevole, se proprio ci serve una spiegazione per tutto.

Ma ci serve proprio una spiegazione per tutto?

Nel loro rigido razionalismo, i filosofi medioevali erano alla ricerca continua di una spiegazione per tutto; non riuscivano a fare a meno di una spiegazione.

Questo è un punto importante all’interno del razionalismo, e va spiegato. Prendete la prova della Causa Prima sull’esistenza di Dio; la conoscete, no? Poiché ogni cosa ha una causa, la catena delle cause degli eventi andrebbe naturalmente all’indietro all’infinito; ma ciò è inaccettabile, allora è necessario postulare una causa prima incausata, Dio.
Il difetto di questa prova è evidente: se postuliamo una causa incausata stiamo semplicemente contraddicendo la premessa principale, e cioè che ogni cosa debba avere una causa; e se non è vero che tutto deve avere una causa, allora posso anche decidere che il mondo è iniziato in una grande esplosione senza nessuna causa. “Ma come? E il Big Bang cosa l’ha causato?” è una domanda legittima e naturale, ma non più e non meno legittima e naturale di “e Dio chi l’ha creato?”

Attraverso la questione della causa prima ci rendiamo conto, semplicemente, che ci sono quesiti indecidibili, domande che non hanno una soluzione, fatti che non ce l’hanno una spiegazione. Non a caso, si tratta di una delle aporie sottolineate da Kant: tanto “esiste una causa prima” quanto “non esiste una causa prima” sono soluzioni inaccettabili al problema della regressione infinita delle cause.

E Kant era proprio un nome che bisognava fare a questo punto, perché se Cartesio è l’ultimo vero razionalista puro, Kant è il primo esponente di un razionalismo nuovo, quello cui si rifanno coloro che si definiscono razionalisti oggi. Un razionalismo basato sulla critica della ragione alla ragione stessa. Il kantismo è la ragione che critica sé stessa e si riconosce limitata, e accetta in qualche misura di stare dentro ai propri limiti. È finita l’era della ragione assoluta, la ragione che ordina ogni cosa e che deve spiegare ogni cosa, ed è così ossessionata dal dover spiegare tutto che è pronta anche a spiegarlo male … per esempio rispondendo “l’ha fatto Dio” ogni volta che è in difficoltà.

Il sistema kantiano è filosoficamente molto problematico; ciò nonostante, Kant è oggi probabilmente il filosofo più amato dagli scienziati, perché il suo approccio è lo stesso dello scienziato: navighiamo a vista, lavoriamo per spiegare quello che riusciamo a spiegare, ma non illudiamoci di riuscire a soddisfare mai la ricerca infinita della ragione; lo scienziato vive per le domande molto più che per le risposte. È questa la ragione per cui quando sento dire che “la scienza non può spiegare tutto” come argomento in favore dell’irrazionalismo, sorrido sempre: tutti gli scienziati sanno che la scienza non può spiegare tutto, non foss’altro che perché non vivremmo abbastanza da riuscirci; il senso della scienza non è tanto spiegare tutto, quanto provarci sempre.

Dunque la ragione che sta dietro alla scienza moderna non è una ragione onnipotente, assoluta e onnicomprensiva. Quel tipo di ragione che vuole assolutezza a tutti i costi non può che, in pieno spirito hegeliano, degenerare nel suo perfetto contrario: irrazionalità.

Il che ci conduce finalmente a quella che è la mia risposta al quesito iniziale sul razionalità e razionalismo. Uno scienziato ateo, oggi, forse non dovrebbe dirsi razionalista, perché se ha fatto i compiti a casa di filosofia dovrebbe sapere che la ragione è uno strumento intrinsecamente limitato utilizzato da esseri intrinsecamente limitati per riuscire a gestire meglio le loro vite intrinsecamente limitate. Se il razionalismo è la fiducia senza confini nella ragione che tutto inquadra, tutto spiega e tutto fa funzionare a puntino come un meraviglioso orologio cosmico, uno scienziato ateo non può dirsi razionalista, in senso filosofico. Dovrebbe invece dirsi razionale.

Ma parliamone, adesso, del termine “razionale”, che finora abbiamo lasciato abbastanza in ombra. Ho detto prima che si tratta di una generica denotazione di cui la gente piace vantarsi, come “bello”, “intelligente”, “simpatico”. Son tutti termini che a conti fatti indicano qualcosa di molto vago. Ma si può dare un significato più preciso al termine?

Penso di sì, ma mentre al termine “razionalismo” possiamo dare una collocazione di tipo filosofico, il termine “razionalità” dobbiamo calarlo in un contesto psicologico; non è una posizione filosofica ma un atteggiamento della persona. Io intendo la razionalità come l’uso corretto e circostanziato della ragione all’interno dei suoi ambiti; insomma, quello che ispira il criticismo e il metodo scientifico. E alla base del criticismo c’è proprio il ridimensionamento della fiducia nella ragione; come diceva Pascal, la ragione deve riconoscere che ci sono cose al di là di essa. Quindi direi che in questo senso il razionalismo, che invece vuole sottomettere tutto alla ragione, non può essere razionale.

Ma attenzione, non può esserlo neanche l’irrazionalismo.

Torniamo a Pascal. Lasciamo stare per un momento il Pascal filosofico, e guardiamo al Pascal psicologico, che è praticamente il paradigma psicologico dello “scienziato credente” e delle sue contraddizioni, tormenti e a volte del suo infantilismo. Pascal ci diceva che al di là della ragione ci sono molte cose. Quasi tutte, potrei aggiungere io che su quel punto sono d’accordo; la ragione si può applicare in maniera parziale a molti problemi, ma forse non può risolverne in maniera completa nemmeno uno. Quindi ok, ci sono confini ben precisi alle potenzialità e all’uso della ragione. Ma al di là della ragione cosa c’è?

C’è il caos, c’è il dionisiaco, c’è il movimento incessante e incontrollabile della vita e delle passioni. Questo è ciò che c’è al di là della ragione. Lasciare la ragione significa scendere a patti con quel po’ di follia che attraversa come un filo invisibile tutto l’esistente. Ma Pascal non intendeva questo: al di là dell’ordine razionale basato sulla scienza, egli vedeva l’ordine religioso basato sulla fede. Un ordine non meno rigoroso, e anzi più rigoroso; non meno pervasivo, e anzi più pervasivo; non meno pretenzioso, ed anzi più pretenzioso; un ordine basato sulla rigidità del dogma, sulla gerarchia della Chiesa, sulla fissità dei testi Sacri, sul rigore dei documenti conciliari, sulla punizione attiva dei dissidenti.
Pascal il caos non lo tollerava proprio. Lo vedeva, certo che lo vedeva, mica era scemo; una persona così ossessionata dall’ordine non può fare a meno di vedere se c’è qualcosa di così fuori posto come “una canna che pensa”. Ma una persona così ossessionata dall’ordine non può neanche vedere qualcosa di così fuori posto senza andare subito a raccoglierla, piegarla per bene e infilarla in un cassetto. Ed è quello che ha fatto lui.

Proprio nella famosa scommessa emerge nella forma più chiara il tentativo di Pascal di costruire un argine all’ignoto e al caos come obbiettivo primario: la sua priorità è niente di meno e niente di più che trovare un modus operandi che massimizzi una funzione di profitto; una formula vincente per l’esistenza. Pascal non tenta di applicare a tutto la ragione strictu sensu, e in questo si differenzia da Cartesio. Ma, esattamente come Cartesio, vuole applicare a tutto un ordine gestibile.

Attenzione, ovviamente ordine e ragione sono cose diverse in senso logico; ma spesso vengono scambiate nel discorso. Per esempio, come spiegavo qui, quelli che si scagliano contro il “gender” dicono di farlo in nome della ragione, ma in realtà agiscono bellamente contro la ragione, e piuttosto sotto la spinta della brama di un certo ordine costituito riguardo ai ruoli di genere che oggi non è affatto razionale; e molti ambienti “progressisti” che si scagliano contro la scienza in realtà la scambiano semplicemente con un ordine costituito che non amano, nello specifico, l’ordine capitalistico. Questo accade perché, in senso psicologico, la ragione è una forma di ordine, o forse potremmo addirittura dire che è la forma d’ordine per eccellenza. La ragione è lo strumento principale che rende il cosmo prevedibile e gestibile. Chi è mosso da amore per la ragione di solito ama anche l’ordine (e mi ci metto dentro anche io), e viceversa di solito chi odia la ragione odia anche l’ordine. Ma non è regola assoluta; anzi, addirittura è perfettamente normale aspettarsi che l’amore eccessivo dell’ordine finisca col diventare irrazionale.

Pascal voleva mettere tutto in ordine; resosi conto che non poteva farlo con la sola ragione, allora la completò con la fede. È condivisa fra Cartesio e Pascal un’autentica “ossessione razionalizzante”, ovvero un’ossessione non tanto per la ragione ma per l’ordine che essa porta con sé; un’ossessione che è molto comune fra i filosofi anche oggi, in particolare fra quelli di scuola analitica. E all’apice dell’evoluzione di questa figura psicologica del “filosofo razionalizzante” sta Kierkegaard. In lui l’ossessione per trovare un ordine si rovescia, dialetticamente, nel suo perfetto contrario: gettare alle ortiche ogni ordine e abbracciare l’assurdità. La contraddizione è reale e insanabile in senso logico ma, in senso psicologico, fila magnificamente: nella mente di Kierkegaard la razionalità più totale è distruggere la ragione: gli estremi alla fine si toccano. O tutto è ragione o niente lo è; e il motto non è più “intellego ut credam“, bensì “credo quia absurdum“, credo perché è assurdo. In Kierkegaard è rimarchevole che ciò si verifichi all’interno di un quadro di assoluta consapevolezza, qualcosa che troveremo poi anche in Nietzsche, un altro, questa volta ateo, che passò dal venerare la ragione al gettarla alle ortiche. Ma nella maggior parte dei filosofi odierni lo scambio fra ragione assoluta e irragionevolezza assoluta si verifica silenziosamente, e in questo silenzio si nasconde il suo pericolo, poiché nella ricerca degli “assoluti” riposa il germe della distruzione di ogni adeguazione fra pensiero e realtà.

Come ci si può salvare da questo pericolo costante?

Be’, la risposta è una specie di uovo di colombo al contrario: facilissima da spiegare, difficilissima da mettere in atto.

Bisogna fare gli equilibristi: camminare sempre in bilico sul muretto che separa il caos delle cose dall’ordine dei pensieri, guardando e ponderando ogni passo, sempre pronti a tornare indietro e a correggere il tiro.

Questa non è nient’altro che la pratica giornaliera della vita, il gioco cui tutti quanti già giochiamo, volenti o nolenti. Un gioco incredibilmente difficile, basato tanto su ragionevoli scommesse quanto su imprevedibili colpi di fortuna e sfortuna; un gioco in cui siamo giocatori quanto pedine, che spesso controlliamo ma che altrettanto spesso non controlliamo.

Credo che la maggior parte dei filosofi anche odierni, come Cartesio e Pascal, lavorino incessantemente più che altro per cercare di trovare la formula vittoriosa, il trucco, il cheat, il codice segreto da infilare nel gioco che permetta di evitare di dover pensare ogni mossa con tanta fatica, di dover passare ogni momento a cercare di comprendere e gestire l’incomprensibile che abbiamo sia dentro che fuori, e infine di prendersi la responsabilità dei successi e dei fallimenti collegati alle proprie scelte.

“Cosa è morale?”; ecco una tipica domanda dei filosofi.

“Dipende da un milione di fattori: da ciò che vuoi, da ciò che senti, da chi sta intorno a te, dalle circostanze esterne e dalle circostanze interne; insomma da così tante cose che di solito è impossibile definire in maniera univoca il comportamento moralmente giusto.”; ed ecco, questa era la risposta corretta.

Ma ammettiamolo, sono molto più semplici da mettere in atto risposte tipo “è il comportamento che tu vorresti vedere divenire legge universale”, o “è il comportamento che minimizza la sofferenza complessiva” oppure ancora “è quello che dice la Chiesa”. Per quanto tutte queste risposte richiedano comunque un certo sforzo di “calcolo” dietro (legge universale in che senso? E come si misura la sofferenza? E la Chiesa, ma quale delle tante, e quale delle tante anime interne ad essa?), hanno comunque ristretto il numero di variabili da analizzare da “innumerevoli” a “numerabili”. Che, seppure a scapito della correttezza, risparmia un sacco di tempo. E in ciò, e solo in ciò, sta l’attrattiva ineliminabile di queste risposte-trucchetto.
Mentre di forma ti chiedono di usare in qualche modo la ragione per trovare le risposte che vuoi nella vita, di fatto ti  chiedono in realtà di usarla a regime minimo. E anche quando ti dicono, se te lo dicono, “ci sono cose al di là della ragione”, in realtà non si riferiscono al caos e all’imprevedibilità dell’esistenza e alla necessità di accettarli, no. Si riferiscono a fattori numerabili, ordinati, ordinabili e gestibili attraverso un utilizzo minimo delle nostre facoltà. La scommessa di Pascal: risolvere l’esistenza dell’uomo in dieci righe e un’equazione.

Se questa è la razionalità, il mio consiglio è di lasciarla perdere: siate irrazionali.

 

Ossequi.