La carne è un capriccio

31 07 2015

Vegetariani e vegani non sono mai o praticamente mai gourmet o grandi chef. Il fatto stesso che facciano a meno del sapore della carne indica chiaramente che per loro si tratta di qualcosa di rinunciabile o sostituibile: e quale grande gourmet o grande chef al mondo potrebbe mai pensare che esista un sapore, un solo sapore su questa grande terra, che sia sostituibile?

Loro fanno una rinuncia, ma evidentemente una per loro facilmente accettabile. Dopotutto, tutte le nostre attività danneggiano gli animali; perché rinunciare alla cotoletta e non all’aria condizionata o al computer? Evidentemente per loro la cotoletta non è così importante; sicuramente meno del computer o dell’aria condizionata (per inciso, io l’aria condizionata non ce l’ho e quando ce l’ho la tengo spenta la maggior parte del tempo).

Ma qui sta il loro più grosso limite: dato che per loro a conti fatti quella rinuncia non è davvero importante, chiedono con estrema leggerezza a tutti di fare come loro, e si prendono il lusso di bollare il mangiar prodotti animali come una specie di capriccio e basta.

Si tratta dell’errore peggiore che si possa fare in battaglia: sottovalutare ciò che si combatte. Il cibo è cultura, è storia, è scienza ed arte. Il cibo è sensazioni, emozioni, meraviglia e nostalgia, gioia ed amarezza. Gli aromi ed i gusti si piazzano nella nostra mente, nella parte dove tutte le esperienze più significative abitano, e non se ne staccano più. Possiamo dimenticare tutto quello che abbiamo visto durante un viaggio in un paese esotico, e ancora ricordarci tutti i sapori che vi abbiamo sperimentato.

Il cibo può essere amore e passione. Evidentemente, per loro non lo è, o lo è ad un livello molto elementare. Magari gli piace, ma non lo amano; esattamente come a chiunque può piacere la musica, ma solo pochi la amano.ratatouille-teoria-03

L’incapacità di riconoscere la grandezza piena della rinuncia che chiedono è il loro limite più grande. Ed è reso ancora più grande dal fatto che, come arte, la cucina è insieme alla musica la più facile da apprezzare anche per l’incolto; quindi se è vero che chiedere di rinunciare alla carne ad uno che già magari è un barbaro gastronomico che toglie il grasso al prosciutto non è chiedergli gran cosa, è comunque un bel sacrificio perfino per lui.

Da questa mancanza di intuito psicologico derivano tutte le manovre comunicative semplicemente disastrose che mettono in atto. Partono da preconcetti assolutamente sbagliati, partono dall’idea che il sapore della carne non sia altro che un capriccio di secondaria importanza, e così lo trattanno quando parlano al pubblico; non riescono neanche a far finta di considerare l’amore per il gusto della carne qualcosa di importante nella vita delle persone, qualcosa che vive nella tradizione, nella cultura e nel cuore della gente. Pensano che il punto sia spazzare via il capitalismo con i suoi allevamenti intensivi.

Ma come si fa … Ma avete mai sentito dire a qualcuno: “oh, quanto mi piacciono gli allevamenti intensivi!”? Se domani si fa un referendum contro gli allevamenti intensivi lo si vince, ovvio che il punto non è quello, proprio per niente.

Il punto è spazzare via la torta della nonna, il ragù della domenica, la soppressata di paese. E quelli non li spazzi via facilmente, e di sicuro non dicendo alla gente che sono una specie di capricci insignificanti.

Ma il capitalismo, in quest’impresa, è il loro più potente alleato (dopotutto, lo è sempre stato): se qualcuno riuscirà mai a spazzar via ogni residuo di tradizione e cultura dal cibo, quello non potrà essere che il capitalismo. Il capitalismo adora l’uniforme ripetersi del sapore della soia, così facile, così vendibile a tutti, così vuoto d’arte, così vuoto di cuore.

Gli hamburger di McDonald’s tutti uguali, identici in ogni parte del mondo; chi si accorgerebbe mai se venissero tutti sostituiti con hamburger di soia?

Se il vegetarianesimo diverrà mai predominante, sarà perché nei nostri piatti non ci sarà più nient’altro che soia, e ormai nessuno si ricorderà più di che sapeva il pollo. Oppure il pollo sarà diventato così senza sapore che nessuno noterà la differenza fra la soia e il pollo, perché no? Siamo già abbastanza avanti su quella strada.

Oh, sì! Ci attende un grande e luminoso futuro! Senza conflitto, senza sopruso, senza contrasto … a conti fatti, senza niente.

Ossequi.

P.S.: L’articolo ha avuto un certo successo, e vari commenti sia in pagina che in giro per la rete. I più divertenti sono proprio quelli dei veg*, perché mi hanno tutti confermato il loro limite psicologico: non sono capaci di considerare la cultura gastronomica come una cosa rilevante per la vita delle persone, la sanno solo minimizzare.

E pensare che era facile mostrare che mi sbaglio. Sarebbe bastato scrivere: “sì, mi rendo conto che il sacrificio che chiedo quando chiedo di diventare vegetariani o addirittura, vegani, è molto grosso e radicale, e che non tutti possono essere disposti a farlo”.

Nah, meglio liquidare come capriccio. Deridere o sminuire ciò che è importante per le persone: io ho subito questo trattamento tutta la vita e a tutti i livelli del mio essere, posso assicurarvi che è una cosa che fa molto incazzare la gente. Si tratta proprio di una tecnica comunicativa idiota.

Niente, non c’è proprio speranza. Per questo sarebbero destinati ad essere minoranza in eterno, fatta salva la possibilità che la cultura gastronomica muoia invece di morte naturale, uccisa dalla pervasiva cultura della soia industriale …





Comunimalismo: una risposta a Marco Maurizi

2 03 2012

Cos’hanno in comune animalisti vegani e strenui difensori del proletariato che da duecento anni è in rivolta contro la borghesia cattiva? La risposta è Marco Maurizi. E speriamo soltanto lui, perché il miscuglio che ne esce è qualcosa che non si desidera particolarmente rivedere.

Ma andiamo con ordine: faccio la conoscenza col Maurizi giusto qualche giorno fa, quando commento il video di un suo intervento a un convegno antispecista (sic!) accusandolo, starà al lettore giudicare se a torto o a ragione, di aver in esso proferito delle idiozie filosofiche.

Non c’è modo migliore di far incazzare un filosofo che fargli notare di aver detto delle cazzate filosofiche. Ma è anche del tutto normale farlo, tutti i filosofi della storia non hanno fatto altro che accusarsi a vicenda in modo più o meno ipocrita di dire delle cazzate, e se qualcuno non lo ha fatto esplicitamente, lo ha fatto implicitamente, perché nel proferire una teoria si fa evidente il deprezzamento di quella opposta. Io non sono diverso, il mio stile argomentativo non prevede l’onore delle armi verso chi commette errori, e non ho alcuna intenzione di modificarlo e far sconti di pena (e poi, perché dovrei concederlo a Maurizi, che non lo ha concesso a Karl Popper, accusandolo in un suo articolo di aver detto “sciocchezze”? Forse perché il mio “idiozie” è più sgradevole all’udito?). Imparate che non potete chiedere ad uno stirneriano di avere “rispetto per le vostre idee”, poiché esse sono anche le mie e ci faccio quello che voglio.

Inutile dire, però, che da bravo marxista Maurizi se la prese parecchio all’idea di non essere preso sul serio; loro si prendono maledettamente sul serio e tutti quanti devono fare lo stesso. Dopotutto Marx si incazzò parecchio con Stirner, che lo aveva spogliato col suo stesso cinismo e in ultima analisi aveva mostrato quanto essi si somigliassero. E rispose più o meno nello stesso modo in cui oggidì si è risposto a me, ovvero attaccando la persona, e infine rifuggendo lo spiacevole confronto. Si parla tanto, infatti, della famosa risposta di Marx a Stirner, ma sta di fatto che Marx quella caustica risposta non la diede alle stampe …

Da questo momento Maurizi entra nelle mia (dis)grazie. E come non poteva? Immaginate, come vi dicevo all’inizio, di mettere insieme animalismo e comunismo … che cosa potete ottenerne mai?

Scopriamolo.

Un approccio difficile

Il problema iniziale fu il fatto che Maurizi fa un uso del marxismo molto comune in certi circoli filosofici, e rende difficile l’aggressione frontale. Più o meno funziona in questo modo: si fanno delle critiche a Marx e/o ai marxisti, e ad esse si risponde:

“Ma guarda che quello non era marxismo! Quello era engelismo/stalinismo/leninismo/maoismo/marxismo-fruedismo/marxismo-ortodosso/cattomunismo/socialismo etc.”, fin quando alla fin fine ti sorge il dubbio che ognuno di coloro che cita Marx ne abbia una sua idea. Probabilmente è vero, come ogni cristiano ha la sua idea di Dio. E come è vero che ci sono centinaia di chiese e chiesuole cristiane, cattoliche, meno cattoliche, più ortodosse e meno ortodosse, unitariane, tradizionaliste, ecumeniche e via dicendo. Ma sono tutte chiese e sono tutte cristiane, e una volta che l’assunto base, il dogma divino, sia stato rifiutato, le si rifiuta in blocco tutte. E così tutte le varie ecclesie marxiste possono esser rifiutate in blocco una volta che si sia svelata la contraddittorietà e sostanziale vacuità che le fonda.

Dunque l’unico, complicato modo per vincere contro una strategia così sottile e sfuggente è riuscire a mettere nell’angolo chi si ha davanti e costringerlo ad esprimere cosa effettivamente egli pensi, al di là del riferimento a questa o quella parrocchia. Insomma, da un lato si procede alla confutazione (o al semplice rifiuto) dei dogmi di base, e dall’altro si impedisce all’avversario di nascondersi fra i riferimenti a pensieri altrui, obbligandolo a denudare i propri.

Seguendo l’invito rivoltomi dal diretto interessato, sono andato a guardarmi un po’ di bibliografia Mauriziana. Sostanzialmente, tutto ciò che egli porta a sostegno della sua particolare teoria è che il marxismo possa e debba essere applicato anche alla liberazione animale.

Dunque sarà inevitabile dire qualcosa, sia pure il meno possibile, sul marxismo.

Brevissimi appunti al marxismo

Essendo il marxismo sbagliato, c’è già qualcosa che non va. Ho già scritto in passato su Marx, e la mia voglia di sviscerare l’argomento si sta già esaurendo. Marx lo trovo noioso, noioso, noioso e stupido, come filosofo. Direi, con Keynes, che

 Il socialismo marxista deve sempre rimanere un mistero per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e vuota possa aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia.”

Potrei essere più gentile, e arrivare a riconoscere a Marx forse un valore come economista, ma il materialismo dialettico è demenziale, e inoltre non elude affatto il problema animale, né lo incorpora in sé. Forse non lo esclude, ma di sicuro non lo implica o sottintende, a meno di evidenti forzature.

Fondamentalmente, il problema del materialismo dialettico è che esso vuole parlare delle cose materiali, e poi lasciare che esse parlino da sé. Ma le cose materiali non parlano, dunque il materialismo si riduce a parlare delle parole sulle cose, esattamente come l’idealismo, trascendentale o romantico che sia. Eppure vorrebbe trarre la propria superiore forza dal suo parlare “solo delle cose”, e dal considerare se stesso sottoprodotto delle cose, solo dei fatti, come se esistessero fatti per sé stessi.

Tutto questo, fra l’altro, non può essere certo argomentato. Kant poteva inserirsi sulla scia del dibattito fra scettici e dogmatici come una fase naturale di quella risoluzione, e considerare parte del lavoro come già fatta; Fichte poteva partire dall’idealismo Kantiano, procedere alla rimozione dello scomodo noumeno, e considerarsi la naturale prosecuzione del lavoro precedente; Schelling ed Hegel sono, ciascuno a suo modo, prosecuzioni e perfezionamenti di quella strada, che è quella idealistica, che mira a sanare la scissione fra cose e pensieri. C’è addirittura chi considera conclusa con Hegel la filosofia, perché in lui la scissione è risolta, e tutto è Geist. E questa non è una prospettiva antirealistica solo perché il nome richiama a concetti spirituali, tutt’altro; proprio perché la scissione è risolta, è la distinzione fra spirituale e materiale a non avere più senso. Non c’era più niente da “invertire”. L’inversione di Marx, prima di essere tale, è innanzitutto un passo indietro; prima recuperiamo la divisione, dopo invertiamo la gerarchia. Il che vuol dire che il grosso del lavoro degli idealisti va giù con lo sciacquone, e Marx non prosegue sulla loro scia, anzi mi spingo a dire che non può vantare alcuna reale ascendenza nell’ idealismo. Ha potuto strapparne un paio di concetti a lui comodi, come lo storicismo e il dialetticismo di Hegel, ma astratti dal contesto originale, che è idealista, sono privi di qualsiasi logica. La storia e la dialettica possono dirci qualcosa sul divenire del pensiero solo nel momento in cui si ammetta l’identità fra mondo e pensiero, e non una qualsiasi gerarchia.

Il marxismo dunque non può certo dare per scontata alcuna base argomentativa filosofica. E se vuole essere una teoria filosofica, e vuole esserlo, deve fornirla, ovvero deve muoversi nel pensiero in tutte quante le direzioni. Quando Maurizi, riprendendo la nobile tradizione dell’idiozia marxista, ci racconta che lo specismo è solo frutto di un sistema economico e non vi contribuisce, si rende piuttosto ridicolo, visto che sta riempiendo pagine di inutili parole sull’antispecismo, e dunque sullo specismo. Quanto tempo sprecato per discutere di meri epifenomeni! A che serve? A che conduce?

Ma anche ammettendo che ciò di cui parla non fossero epifenomeni, ma fatti, le forze attive sociali che egli ritiene essere alla base di tutto (compreso, coerentemente, quello che lui stesso sta dicendo; ma le implicazioni di questo non sono esplorate), neanche questo conduce a niente, perché sono sempre e solo parole, e le parole sono epifenomeni. O no?

Forse non lo sono. Forse contano. Molti marxisti qui arrivano coi loro famosi distinguo “Marx non sosteneva che le idee non contassero per niente”. Be’, o per niente, o per tutto, o in parte; queste sono le tre possibilità. L’idealismo sceglie la seconda, il senso comune la terza. Dov’è il contributo marxista, che dovrebbe permettere di decostruire l’idea sulla base della materia? O nello scegliere la prima, o in nulla.

Ma se sceglie la prima, sceglie di non avere senso, sceglie l’autoreferenza, il cortocircuito logico che ha fatto impazzire matematici e filosofi per secoli. Il marxismo si trasformerebbe dunque in un antifilosofia, un pensiero che accetta di mettersi in gioco solo per modificare il fatto pratico, e dunque possa concedersi anche di essere falso e assurdo, del tutto o in parte, purché sia raggiunto lo scopo. Ma il problema è irrisolvibile, perché ogni qual volta che pensi al divenire, di fatto lo cristallizzi, mentre ogni volta che agisci, lo fai scorrere. Marx ci parla di cose morte e vuole usare questo discorso per interferire con quelle vive. Questo comportamento non è plausibile; se come Hegel parli di cose morte, allora come Hegel devi accettare che il tuo discorso non è che la descrizione di un processo compiuto, sepolto e consegnato al passato.

Sulla soluzione a questo pproblema renderò chiara la mia opinione in un altro intervento; per ora tentiamo di sfuggire a tutti questi inutili paradossi. Diciamo piuttosto che nessuna forma di pensiero può essere liquidata come il frutto di rapporti di produzione, così come nessun individuo può essere liquidato come lo snodo e il risultato dei rapporti sociali e della lotta di classe, così come nessun animale può essere liquidato come parte di un ecosistema, così come nessuna cellula può essere liquidata come parte di un organismo. Sono le parti a comporre il tutto almeno quanto il tutto determina le parti, e se una sfida ancora ci lanciava Hegel, era quella di superare anche l’ultima divisione da lui posta, ovvero quella sterile contrapposizione tra chi vuole eliminare il tutto e chi aspira invece a eliminare le parti.

Ma come si fa a dire che bisogna eliminare delle distinzioni, quando sul distinguo minuto, ossessivo, capzioso si fondano intere dottrine? Su questa linea di contraddizioni insanabili mascherate da eleganti distinzioni terminologiche si inserisce il Maurizi, che così arriva a sostenere che la questione animale è una questione politica, e non etica. Se avete letto i miei precedenti interventi sull’etica, sapete che io non faccio alcuna distinzione sostanziale. Come si può pensare che ciò che è giusto o non è giusto fare possa prescindere dal contesto sociale o naturale in cui ci si trova? Non lo si può, ovviamente. Ma se è solo una questione politica, e se la politica è solo come è forze ed interessi in contrasto e nel tentativo di un’armonizzazione, non c’è spazio per un “dovrebbe essere così”.

Risposta: “infatti io non affermo come le cose debbano essere, mi limito a descrivere come sono (certo, non ci sta mica suggerendo come le cose dovrebbero essere il Maurizi o San Marx … analizzano e basta, certo, n.mia), e dunque a proporre un’alternativa”. Non è vero, perché l’uso che fai dei termini è già pieno di connotazione morale, ma te lo concedo: stai solo aprendo delle finestre, mostrando possibilità. A questo punto si tratta di verificare se tali possibilità sono innanzitutto plausibili nel contesto e desiderabili per la nostra volontà, che sono i due requisiti per un agire che possa essere detto morale. Allora, fermo restando che in Marx l’etica C’È eccome (e d’altro canto concorda anche il Maurizi, l’etica c’è, ma contemporaneamente non c’è. C’è ma non troppo; come il ruolo di cultura, religione e arte; c’è ma non troppo; come l’importanza dell’individuo per sé; c’è ma non troppo, ça va sans dire), dovremmo andare a verificare come essa sarebbe strutturata, e se porterebbe naturalmente ed organicamente a forme di animalismo.

Marxismo, etica, comunimalismo …

Che Marx non abbia scritto direttamente di etica ce lo dice lo stesso Maurizi. Ma questo, a suo dire, non vuol dire che il comunismo neghi la possibilità dell’azione etica; è possibile infatti agire eticamente senza avere una teoria totale ed onnicomprensiva dell’etica. È pur vero che l’etica, essendo disciplina dei rapporti umani in generale, è una disciplina pratica, che deve attenersi alla risoluzione di problemi reali e particolari, non di astrazioni inconcepibili ed esperimenti mentali. Da questo adeguarsi al caso particolare non discende però che non debba esservi un’impostazione generale del problema, altrimenti non avrebbe senso neanche fare riferimento ad un qualcosa che si chiama “etica”, e si direbbe, molto semplicemente, che non esiste. Se di etica dobbiamo parlare, dobbiamo parlare di normatività, altrimenti si parla di estetica. Se si parla di normatività, bisogna trarre conclusioni generali, per quanto possibile.

In realtà, io ho sempre proposto un superamento dell’etica intesa come principio del comportamento, e dunque io stesso ho sempre valutato l’etica come questione politica, assorbita interamente in essa, intercambiabile con essa. Dunque io per primo non ho una teoria etica a cui il mio agire corrisponda esattamente e in maniera assolutamente generale, la soluzione del problema etico non ce l’ho. Ma per me è più che sufficiente essere riusciti ad impostare correttamente tale problema, ovvero aver prodotto una teoria sull’etica, piuttosto che dell’etica. E come una teoria sulla scienza non si chiama scienza ma epistemologia, e non risponde ai criteri con cui si valuta la scientificità, ma bensì dà ragione di quegli stessi criteri, una teoria sull’etica non si dovrebbe chiamare ancora etica ma avere un altro nome, e di certo non deve sottomettersi a criteri del giudizio morale come la ghigliottina di Hume, ma dare ragione della validità di tali criteri.

E la nostra, mia e del Maurizi intendo, teoria sull’etica è all’apparenza molto simile (la differenza è che egli non vi crede realmente, altrimenti dovrebbe portarla alle sue estreme conseguenze): riteniamo sia solo politica, ovvero frutto e manifestazione di rapporti di potere, potere fatto parola e legge. C’è spazio per gli animali in questa prospettiva? Solo nella misura in cui hanno il potere!

La prospettiva del Maurizi, che ci dice che dovremmo “metterci in ascolto della soggettività animale”, che dovremmo “sintonizzarci sulle sue frequenze” per scoprire in essi dei soggetti morali, porta a degli assurdi imponderabili. Tanto per cominciare, recupera un’etica, dopo aver fatto tanta fatica per metterla in politica; dunque rimette in gioco un principio etico superiore e ricade nella prospettiva filosofica di gente come Regan e Singer che tanto critica. Palla al centro.

Ma se per ipotesi restiamo invece in una prospettiva marxista e “politica”… poniamola così: vi risulta che Marx rivolgesse le sue prediche ai capitalisti? Vi pare forse che dicesse loro “dovete sintonizzarvi sulle frequenze dei proletari”, “dovete riconoscere la loro alterità” e “decentrarvi rispetto a voi”?

Non direi proprio; quella è dottrina sociale della Chiesa, non marxismo. Il marxismo si è sempre rivolto ai proletari, invitandoli a farsi soggetti politici, ad assumere coscienza di classe. Non esistendo una coscienza animale in senso politico, non può esistere una questione animale in senso politico, a meno di farla discendere “compassionevolmente” dal semplice conflitto fra interessi umani, ovvero dagli autentici soggetti che fanno politica, e dunque trasformandola in una “questione animalista” (Nietzsche sostenne addirittura, a mio avviso giustamente, che non sarebbe esistita neanche una “questione operaia” in senso politico se non la si fosse creata mettendo gli operai nelle condizioni psicologiche per desiderare di più di quello che avevano). Una questione animale può esistere in senso etico, ma SOLO SE si ammette che vi sia un’etica distinta dalla politica e si mostra il principio superiore da cui essa discende. Viceversa, qualunque etica discendente dall’azione umana è sempre espressione di potere e signoria umana, e l’ottica decentrata di cui parla Maurizi è puro vaneggiamento: non ci si può “guardare da fuori”, e l’illusione di questa possibilità è alla base di tutti gli errori del materialismo. Le cose le puoi guardare solo dal tuo punto di vista, e la sfida non è quella di uscirne fuori, quanto di starvi dentro con coerenza. Sfida persa, qui.

Piuttosto, se si vuole assumere una posizione che non sia affatto politica, ma etica, allora si va assolutamente nelle argomentazioni classiche dell’animalismo, e casi marginali, “interessi morali”, “pazienti morali” e altre ardite invenzioni di pseudofilosofi animalisti fanno nuovamente il loro teatrale ingresso. Questi punti di vista sono già stati confutati in altri miei interventi sull’etica.

Resta a questo punto un ultimo passaggio da verificare, che poi è quello che negli scritti del nostro passa come la sua grande scoperta filosofica: la continuità organica fra sfruttamento animale e sfruttamento umano. Ovvero, se legittimiamo lo sfruttamento sull’animale, rendiamo legittimo anche quello sull’uomo, e viceversa, o anche, possiamo dire, entrambi sono i volti dello stesso sistema basato su rapporti di asservimento. Sembra che Maurizi voglia fare una distinzione sostanziale fra la semplice applicazione di lotta e violenza e la strutturazione di un rapporto di asservimento. Ma tutto ciò non ha senso: il rapporto di asservimento è ciò che viene alla luce nel momento in cui lo squilibrio di potere sia univoco e assuma carattere di permanenza, come nel caso del rapporto uomo-animale, ma sempre di rapporti di potere si parla. Sulla base dei rapporti di potere che costituiscono tutte le fondamenta della natura, non si può costruire una questione animale, né in senso politico né in senso etico. Bisogna uscire da quella logica, ma allora si ricade sempre nel singeriano, e valgono le medesime devastanti obiezioni.

Conclusioni

Ora, per quanto si possa ritenere relativamente originale il tentativo di impostare il punto di vista animalista su basi differenti dall’utilitarismo classicamente adottato, dobbiamo ammettere anche che questo tentativo e contraddittorio, non risolutivo, palesemente non riuscito, e alla fin fine non aggiunge niente a quanto già proposto dagli animalisti della prima ondata. Cosa potevamo aspettarci? Se ci risulta già obsoleto tentare di cavar sugo dalle tettine esauste di una letteratura ormai trentennale, figurarsi se può essere di un qualche aiuto attaccarsi ai capezzoli sanguinanti di Marx ed Engels.

Devo comunque ringraziare il mio interlocutore per avermi concesso quest’occasione di ulteriore chiarificazione nell’ambito del dibattito etico sull’animalismo.

Ossequi.





Riduzionismo, olismo e sperimentazione animale.

27 02 2012

Questo intervento è finalizzato da un lato a chiarire, sia pur solo in parte, il mio punto di vista sulla disputa riduzionismo-olismo in biologia, e dall’altra a fugare alcune frequenti confusioni nell’uso dei due termini da parte di alcuni ambienti cosiddetti antivivisezionisti.

Cominciamo col chiarire il significato delle due parole:

Il riduzionismo è quella corrente di pensiero che ritiene che il modo migliore per comprendere le realtà complesse sia decostruirle nelle loro componenti fondamentali. Il caposaldo di questa dottrina è l’assunto secondo cui il tutto è uguale alla somma delle parti.

L’olismo è l’esatto opposto: esso corrisponde alla tendenza inversa a interpretare la singola componente come un elemento che può essere compreso solo nel contesto del “tutto” di cui fa parte. L’assunto qui è che il tutto è qualcosa di più della somma delle parti.

In biologia la disputa fra questi differenti punti di vista è molto antica. L’organismo umano è solo un insieme di singole cellule, o un qualcosa di più? Un ecosistema è una somma di animali, o qualcosa di più?

Confesso che, se ci atteniamo al punto di vista ontologico sulla questione, trovo che la disputa sia quanto di più sterile ed ozioso. Un essere umano è costituito da cellule, che sono costituite da molecole, che sono costituite da atomi. Dunque si direbbe che il riduzionismo ontologico è senz’altro il modo giusto di pensare l’organismo. L’unico modo di attaccare il riduzionismo come visione ontologica è interpretarlo in un’accezione ridicolmente ottusa: se si pensa che “essere umano”=“ammasso casuale di atomi”, interpretando l’espressione “somma delle parti” come un’operazione aritmetica da scuola elementare, si sta dicendo qualcosa di così demenziale da non necessitare di confutazione. Per quanto mi riguarda è assolutamente ovvio che quando si afferma che il corpo umano è una “somma” di componenti più semplici, si afferma piuttosto che esso è costituito da una serie di componenti più semplici collegate fra loro secondo strutture fisiche e interrelazioni determinate: atomi organizzati in molecole, molecole organizzate in membrane, strutture, codici, a loro volta organizzati in cellule e via salendo fino alle funzioni più elevate, come quelle del pensiero.

Si può obbiettare “ma se tu ammetti tali relazioni fra strutture semplici come un qualcosa di reale, stai ricadendo nell’olismo”. Può essere; ma non è detto che, in questo, ci sia una differenza così significativa fra di essi. Dato che sia i riduzionisti che gli olisti riconoscono il valore delle relazioni fra componenti, evidentemente tutto il dibattito fra di essi può essere ridotto alla questione della realtà di tali relazioni, ovvero se considerarle in un certo qual modo delle pure disposizioni ad agire delle componenti, oppure se siano in quel contesto un “valore aggiunto” alla componente, reale e fisico come e nello stesso senso della componente stessa.

Personalmente trovo che questa parte della discussione possa essere molto interessante per chi, come me, si interessa di filosofia a un certo livello; ma è parimenti del tutto oziosa ai fini scientifici. Materialmente, nel tutto organico non c’è niente di “più” delle singole componenti organizzate secondo specifiche relazioni, e considerare “ontologicamente reali” le sole componenti, o le sole relazioni, o entrambe, è irrilevante una volta che questo concetto sia stato chiarito.

Se prendi un genoma, un metabolismo, una membrana e degli organelli, e li disponi in un certo modo, tu farai una cellula, e su questo punto ormai i recenti progressi della biologia sintetica fugano ogni dubbio. Negarlo vorrebbe implicitamente ritornare a forme di vitalismo o addirittura di dualismo anima-corpo che ormai non han più, giustamente, dimora nelle aule delle facoltà di medicina e scienze.

Tuttavia, se il problema della disputa ontologica è del tutto obsoleto, è vivo e pulsante il dibattito sul piano metodologico. Vale a dire: nel momento in cui mi trovo a dover comprendere il funzionamento di un sistema biologico, ovvero di un sistema altamente complesso, come mi conviene agire? Devo scomporlo in unità funzionali più semplici oppure considerarlo come un tutto inscindibile?

È evidente che il problema ontologico qui non è più rilevante. Sappiamo bene cosa un organismo vivente È, lo abbiamo definito prima come una somma di componenti legate da relazioni reciproche. Il punto è che noi non conosciamo singolarmente né tutte le componenti né tutte le relazioni, quindi noi non possiamo certo dire di “conoscere” l’organismo solo perché siamo riusciti a definirlo come sopra.

Così nel momento in cui pensiamo “rabbia” o “paura” da un lato visualizziamo un’insieme di sensazioni che personalmente abbiamo percepito nel nostro corpo, da un altro un insieme di reazioni comportamentali che asetticamente possiamo osservare negli altri organismi, da un altro ancora una serie di alterazioni del milieu interno e dei parametri fisiologici, da un’altra un codice ben preciso costituito dal funzionamento di miliardi di minuscoli computer, i neuroni. Potremmo spingerci oltre, e ridurre l’emozione alle interazioni fra molecole o atomi che la costituiscono, o alla pura “energia”. Ma il punto è che non riusciamo a intuire in tutti questi fenomeni l’una e la medesima cosa. Possiamo razionalmente supporre come questi fenomeni vadano ad essere nomi diversi della stessa sostanza, ma non si va mai oltre la mera apprensione di una nozione, un po’ come vedere il risultato di un teorema senza conoscerne ragioni e dimostrazioni, l’intero processo non è compreso.

È chiaro che il nostro obbiettivo è comprenderlo. E il metodo migliore dal punto di vista dell’esattezza è partire dai livelli di organizzazione più bassi, che sono quelli che possono essere studiati con maggior rigore. Gli organismi viventi sono in qualche misura tutti diversi gli uni dagli altri, perfino all’interno della stessa specie; dunque il modo migliore per ottenere risultati assolutamente validi è partire dalle componenti di base, che sono uguali per tutti, e riassemblarle insieme in modelli generali.

D’altro canto, prima che dal funzionamento di una singola molecola si possa arrivare a comprendere fenomeni a quattro o più dimensioni come il comportamento o il pensiero, può passare tantissimo tempo. Potremmo, insomma, non disporre di nessuna conoscenza significativa ed applicabile se ci basassimo esclusivamente su metodi riduzionisti: sappiamo come funzionano una molecola o una cellula, ma ignoriamo come funzionino tutte le altre e come interagiscano con essa; dunque come comportarsi? O aspettiamo di avere il quadro completo (che potremmo anche non avere mai …) oppure nel frattempo consideriamo l’organismo come un insieme organico e lavoriamo a quel livello. Ovviamente trattare l’organismo come un tutt’uno permette scarsissimi livelli di generalizzazione e di esattezza, ma talora è necessario.

Ovviamente la metodologia riduzionistica è scientificamente di una perfezione impeccabile, che non a caso ne ha fatto ormai la corrente nettamente dominante nella ricerca in campo biologico. Essa lavora in modo strettamente algoritmico e arriva a produrre leggi di comportamento del tutto universali, ma talora non immediatamente applicabili. Viceversa, il metodo olistico procede in maniera in maggior misura euristica, per prove ed errori, e pur se permette magari di ottenere risultati applicabili nel particolare, non potendo generalizzare è sempre soggetto a errori ed è meno rigoroso.

Nell’impossibilità pratica di escludere una delle due prospettive, la ricerca in campo biologico e medico si muove dunque su due fronti in contemporanea: da un lato, partendo “dal basso”, scompone gli organismi nelle loro parti fondamentali, che sono le stesse per tutti, e dall’altro, partendo “dall’alto”, lavora su organismi completi o addirittura in interazione con l’ambiente per cogliere i tratti generali del loro funzionamento. L’obbiettivo finale è che i due estremi finiscano per incontrarsi al centro.

Coloro che si oppongono alla sperimentazione animale, invece, preferiscono giocare sulla confusione fra i due termini e i due concetti. Dopotutto, la confusione giova sempre a chi ha torto

Essi si trovano nel problema di dover costruire artificialmente delle basi per escludere la validità di una pratica sperimentale, che è un problema che noialtri non abbiamo, visto che accogliamo ogni contributo utile. Per noi entrambi gli approcci sono validi a loro modo, dunque li usiamo entrambi. Per loro, invece, l’importante è eliminare la sperimentazione animale, e allo scopo si servono ora di critiche di stampo riduzionistico, ora di tipo olistico, facendo passare sotto silenzio le evidenti contraddizioni di questa strategia.

Ad esempio, l’utilizzo dei modelli animali viene criticato perché troppo riduzionistico, ovvero perché a loro dire tiene conto solo delle somiglianze fra le componenti elementari degli organismi ma non considera le differenze nell’organizzazione complessa; ma d’altro canto criticano anche i sistemi completamente euristici, come i test tossicologici, in quanto approssimativi. Al contempo sono proposti come metodi alternativi sistemi ancora più riduzionistici rispetto al modello animale, come le colture cellulari o le simulazioni molecolari.

E il gioco sull’equivoco continua confondendo altre due espressioni, ovvero “modello animale” e “test su animale”, ed è questa un’impostura particolarmente colpevole. Il modello animale è un metodo riduzionistico per raccogliere informazioni potenzialmente trasferibili all’uomo e di conseguenza anche valutare possibili interventi terapeutici; il test su animali è semplicemente un sistema euristico per cercare di inferire gli effetti di determinate sostanze o tecniche terapeutiche, o addirittura di cui non sappiamo niente. È evidente che le due cose sono complementari: se usiamo meno animali nella fase di raccolta informazioni, ci sarà maggior bisogno di procedere per prove ed errori in seguito; viceversa, se vogliamo andare a colpo sicuro o quasi durante i test, prima dobbiamo aver raccolto più informazioni.

L’unica cosa che non possiamo fare è eliminare l’utilizzo dell’animale in toto.

E quando gli “antivivisezionisti” affermano che i modelli animali non sono validati, stanno ancora una volta seminando confusione. I modelli animali di patologia sono tutti accuratamente validati dalla comunità scientifica che ne giudica di volta in volta il valore, ed è così anche per i modelli cellulari di patologia o per qualsiasi altro metodo di ricerca. Sono i TEST farmacologici che richiedono validazioni imposte per legge per quanto riguarda la predittività. E queste valutazioni sono incredibilmente difficili, non solo per la particolare complessità dell’organismo umano, che non è di fatto paragonabile a nient’altro al mondo, ma anche perché manca un possibile controllo di validità a cui riferirsi. Insomma, i modelli che utilizziamo sono l’unica scelta che abbiamo a meno di sperimentare direttamente su esseri umani. Le inferenze che possiamo fare fra uomo e animale possono essere più o meno “deboli”, ma sono comunque meglio dell’agire completamente alla cieca. Inoltre le possibilità per rafforzare tali deduzioni non mancano: se ad esempio utilizziamo, come di norma si fa, più di una specie, e soprattutto se abbiamo operato in principio un’attenta analisi del modello sulla base delle conoscenze scientifiche pregresse. In soldoni, i topi sono diversi dagli uomini? Bene, basta scoprire in che cosa sono diversi per trasformare lo svantaggio in un vantaggio. Infatti queste differenze possono essere sfruttate, per dirne una, per creare dei topicidi efficaci e maggiormente selettivi. Si tratta di un tipico esempio di come proprio una differenza interspecie possa essere sfrutta per ottenere un risultato valido.

Basta sperimentare. E per sperimentare, devi usare l’animale.

Ossequi.