STAR WORDS: “L’uso sessista della lingua”

9 03 2021

Dal 2020 in poi alcuni aspetti della mi vita sono molto cambiati, e il più importante di essi è il mio rapporto con la mia bolla. Il 2020 è stato l’anno segnato dalla pandemia di COVID-19 e dall’esplosione della bomba del politicamente corretto, due questioni su cui mi sono trovato sul lato opposto a un po’ tutta la cultura di centro sinistra che sembra rappresentare la maggioranza dei miei lettori.

Amen and Awomen - 9GAG

Senza perderci per ora sulle questioni collegate al coronavirus, andiamo sul fronte del politicamente corretto, e in particolare sulla più grande cagat… pardon, intendevo, sulla questione più importante, centrale e controversa che è stata sollevata da sinistra ultimamente. E ovviamente non sto parlando di razzismo sistemico, diritti riproduttivi, violenza sulle donne, ma della declinazione femminile dei mestieri.

Il caso ritorna periodicamente alla ribalta ma in questo periodo peggio del solito, testimonianza imperitura di quanto durante il lockdown godiamo di troppo tempo libero, e recentemente il pretesto che ha riportato l’attenzione su di esso sono state le dichiarazioni di Beatrice Venezi, direttore dell’orchestra dell’Ariston, che ha dichiarato la preferenza per il titolo “direttore d’orchestra”, declinato al maschile non marcato, sul femminile “direttrice d’orchestra”.

Apriti cielo.

La poveretta non immaginava la gravità delle sue affermazioni, esternazioni ai limiti del nazismo che con poche parole hanno cancellato secoli di diritti delle donne, avallato femminicidio e burqa, peggiorato significativamente il riscaldamento globale e fatto piangere Gesù.

Riuscite a immaginare un tema più fondamentale su cui un progressista potrebbe decidere di concentrarsi? Letteralmente impossibile, suppongo.

Ora, sarebbe molto facile dire in questo caso che i problemi sono ben altri, ma verrei accusato di “benaltrismo”.

Il che mi permette di fare la prima importante precisazione a riguardo: asserire o implicare che certi problemi meno seri non debbano essere trattati affatto, nel nome del fatto che ce ne siano altri più seri, è un ragionamento chiaramente fallace: quello che chiamiamo “benaltrismo”, appunto. Questo però non significa che sia sbagliato in generale stabilire una gerarchia di rilevanza dei problemi e, sulla base di questa, assegnare delle priorità e stabilire una proporzione di risorse da dedicare alla questione. Che un discorso su come si declina al femminile una parola possa occupare i giornali per giorni rappresenta chiaramente un caso in cui il senso delle priorità nei discorsi e nei problemi va perduto, così come in generale la stessa tendenza è espressa da tutti i commenti indignati di femministi e femministe che trattano Beatrice Venezi come una specie di traditrice maxima colpevole di tutti i mali della terra. Rilassiamoci, tesori, “direttore” è UNA CAZZO DI PAROLA, non un omicidio.

Ma a parte questo, insistere sul fatto che i problemi siano ben altri, qui, sarebbe comunque ipocrita da parte mia, perché io non penso che le declinazioni femminili dei nomi siano un problema piccolo o di scarsa importanza: io penso che NON SIANO un problema, e che la proporzione delle risorse politiche e dell’attenzione pubblica da rivolgervi dovrebbe essere non “poco”, ma precisamente zero. E se mentre di suo il problema in sé è un non-problema, è un problema il fatto che il non-problema diventi un problema, non so se mi spiego. Ed è su questo ultimo aspetto che mi sento obbligato a intervenire.

Ma prima di procedere con l’esposizione della mia opinione a riguardo, occorre levare di torno alcune formalità. La prima di esse è: cosa dice la grammatica a riguardo?

STAR WORDS EPISODE I: THE GRAMMATICAL MENACE

Ora, alcune discussioni sui social mi hanno fatto scoprire che a questo riguardo, nelle bolle ideologiche “di sinistra”, si è sviluppata la credenza che usare il maschile per professioni svolte da donne sia sbagliato, e sia obbligatorio invece utilizzare il femminile. La Venezi, quindi, non avrebbe soltanto annientato secoli di lotte per l’emancipazione femminile, ma commesso anche un errore grammaticale. Il Lato Oscuro è potente in questa donna.

Questo sarebbe un interessante caso di studio su come si crea e moltiplica una credenza completamente infondata in comunità all’interno delle quali nessuno ti contraddice. Perché niente di tutto ciò corrisponde a vero. Ora dovrò dire delle cose che dopo averle dette sembreranno banalità, ma evidentemente è necessario ripeterle.

La prima cosa da fare è enunciare un principio generale su cosa significhi “grammaticalmente corretto”. La grammatica è un insieme di regole formali che ordinano il nostro linguaggio rendendolo comprensibile a tutti i parlanti. Poiché il principio centrale di funzionamento di ogni lingua è l’intendersi a vicenda, in realtà risulta corretto tutto quello il cui uso diventa abbastanza esteso e radicato da essere inteso da tutti con la medesima agevolezza e senza storcimenti il naso. Quindi, a priori, qualsiasi forma può essere corretta, se tutti la usano. Un caso particolarmente tragico che spesso cito a riguardo è la dicitura “il/un pneumatico”. Ragazzi, ma come cazzo fate a pronunciare un obbrobrio simile? È oggettivamente cacofonico perché obbliga a inanellare una “n” e poi una “p” e poi un’altra “n” senza nessuna vocale di mezzo, sembra il nome di un alieno. Eppure, vi garantisco che word non lo corregge, e la Crusca lo ha dichiarato accettabile, pur indicando la forma “lo/uno pneumatico” come più adeguata ad un registro formale. Questo perché è una questione di uso, e se lo usano tutti, raga’, sembra che mi toccherà sopportarlo.

E la Crusca, quando è chiamata a giudicare sulla correttezza di una forma o di un’altra, alla fin fine applica un primo metro che è di correttezza “formale”, ovvero se il costrutto sia coerente con norme sedimentate nella nostra lingua, e poi va a valutare se l’espressione contesa sia utilizzata e diffusa a sufficienza da potersi ritenere “corretta”.

Riguardo alla questione dei femminili dei nomi di mestiere la Crusca è intervenuta esclusivamente per dire che essi sono in generale “ben formati”, ovvero la loro formazione è compatibile con i principi noti della grammatica. Dunque, queste forme sono ammissibili.

Non ha però MAI detto che siano obbligatorie, necessarie, che non usarle sia un errore. MAI. E il presidente della Crusca, Marazzini, è intervenuto sulla questione posta da Beatrice Venezi per asserire che se “direttrice” sarebbe stato corretto, lo è anche “direttore”. Marazzini ha anche specificato che l’uso in questione si chiama maschile inclusivo, o maschile non marcato, che potremmo definire un uso del maschile in senso neutro.

Nella mia bolla ideologica si è diffusa di fronte a questa asserzione una risposta automatica, tipo quelle che metti nella mail: “MA IN ITALIANO NON ESISTE IL GENERE NEUTROOOO!”

Wow. Geniale. Tutti quanti esperti di linguistica. Ci vuole davvero una mente superiore per accorgersi che in italiano non c’è il genere neutro. Probabilmente questo sta in cima al podio degli argomenti più capziosi che abbia mai udito nella mia vita: ovvio che non c’è il genere grammaticale neutro in Italiano, ma in italiano, come in tutte le lingue, esiste un uso neutro dei termini. Non si può sempre specificare il genere sessuale di persone o animali; se io per strada ho visto un lupo non ho modo di sapere se sia maschio o femmina, quindi mi serve una forma che abbia un significato neutro rispetto alla questione. Poiché come molti argutamente notano in italiano il genere neutro non esiste, quel ruolo lo svolge il genere maschile, dunque “ho visto un lupo”, e non “ho visto una lupa” e nemmeno facezie tipo “ho visto un* lup*”.

Questo uso si chiama “maschile non marcato”: il genere grammaticale è maschile, ma include come significato tanto il maschile che il femminile. Quindi per neutralizzare i vari sofisti che ti inchiodano se ti permetti di dire che in Italiano c’è il maschile neutro, con un colpo di mano io dirò sempre “maschile non marcato”, facendo così esplodere come una scorreggia la loro potente retorica.

Chiaramente a decretare se il maschile non marcato sia corretto o meno o se sia preferibile o meno alle forme declinate sarà l’uso, ma è chiaro che in questo momento l’uso o il non uso non è ancora sedimentato in modo tanto preponderante da giustificare chi, da un lato o dall’altro del dibattito, voglia accusare il prossimo di star commettendo strafalcioni linguistici.

Dunque dire che la Venezi è “direttore d’orchestra” è corretto, grammaticalmente. Ma questo non la scagiona dal crimine ben più grave di cui la si accusa: ella ha letteralmente annientato secoli di lotte femministe.

Ma come ha fatto? Donde proviene questo straordinario potere?

Lo scopriamo subito.

STAR WORDS EPISODE II: ATTACK OF THE GENDERS

Tutto inizia, in Italia almeno, con un libro vecchio esattamente quanto me; “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” di Alma Sabatini.

Prevedibilmente l’origine di questo filone è fuori dall’Italia e come al solito gli italiani sono andati a copiare mode straniere anche in questo, ma in sostanza il saggio in questione è una lunghissima masturbazione intellettuale dell’autrice che è andata a spulciarsi Dio sa quanti giornali e annunci di lavoro per catalogarne uno per uno tutti gli usi del maschile non marcato o sovraesteso e dire “questo è il male”.

Non mentirò dicendo di essermi sottoposto alla tortura di leggermelo tutto, perché onestamente non rientra nei limiti della mia umana sopportazione riuscire a sottopormi ad uno sfracellamento di palle così esteso e approfondito. E non sarebbe servito, perché la questione che interessa a me quel testo non la tratta. Ho letto l’introduzione e scoperto che la Sabatini parlava di come la lingua influenza la realtà e il nostro pensiero, di quanto questa idea sia accettata da Tutti i Linguisti® (gli stessi Tutti i Linguisti® che pensavano che il maschile non marcato fosse sbagliato, ipotizzo) ma non pare si prenda il disturbo di fornire referenze che giustifichino questo argomento. Peccato che sia… come dire… IL FULCRO DI TUTTO IL DISCORSO?

Quella tesi del “linguaggio che influenza la realtà” l’ho sentita ripetere ad nauseam in questi giorni, ma nessuno me l’ha mai giustificata con dei dati. Il ragionamento che c’è dietro sembra essere che l’uso del maschile non marcato in qualche modo “invisibilizza le donne”, e poiché “il linguaggio plasma la realtà” – e altri luoghi comuni pseudofilosofici che non significano un cazzo di niente – questo in qualche modo propaga ed alimenta la sottomissione delle donne.

Come lo fa? Perché? In che modo si suppone che agisca?

Domande che uno in questi casi tenderebbe a porsi, ma cui nessuno perde troppo tempo a rispondere. A rigor di logica, è impossibile vedere un modo in cui un uso linguistico come il maschile universale possa influenzare la realtà in qualunque maniera. Come dicevo sopra, il maschile inclusivo è una convenzione linguistica, e in quanto tale si basa sulla comune intesa del suo significato, e il genere grammaticale stesso in generale è una convenzione: va da sé che una -a o una -o alla fine di una parola non abbiano alcuna implicazione sociale se non quella che vogliamo attribuirvi. Se è per questo, in italiano “il contralto” e “il soprano” sono termini di genere maschile, eppure contralti e soprani sono tutti femmine; in che modo questa nozione dovrebbe “plasmare la realtà” o alterare il pensiero o altre facezie di questo genere? Sono solo sequenze di suoni, mica evocano demoni. Se noi ci intendiamo che un contralto è una femmina quale altro effetto potrebbe mai avere quell’uso linguistico sulla nostra psiche?

Difficile rispondere ad un argomento che nessuno ha portato, a dei dati che nessuno ha prodotto, ad un’idea che nessuno ha supportato. Mi sono andato a cercare dei dati su questa presunta influenza del maschile inclusivo sulla psiche delle persone, e non ne ho trovati. Ho chiesto a chi conduceva questa crociata di portarmeli lui, ma nessuno lo ha fatto. Vi prego, lettori miei, se avete qualche dato che indichi 1) la correlazione fra maschile inclusivo e atteggiamenti sessisti e anche 2) il rapporto di causalità del primo verso i secondi, linkatemelo qui sotto. VOGLIO leggere questo lavoro rivoluzionario.

Anche perché sarebbe interessante capire COME CAZZO POSSA FUNZIONARE UNA COSA DEL GENERE. Perché onestamente, non si riesce a ipotizzare una plausibilità o un meccanismo di azione per questo presunto effetto. Normalmente il linguaggio è il sistema che permette di intendersi associando segni a idee: se io vado in Giappone, fermo qualcuno per strada e gli dico con un bel sorriso “sei un figlio di puttana” e poi me ne vado, quello, che non sa l’italiano, resterà un po’ perplesso, cercherà di indovinare cosa potessi voler dire, e non registrerà minimamente l’insulto. Questo perché non ha uno schema di significati da calarvi sopra e che gli permetta di trarne un senso. Non c’è l’intesa fra me e lui secondo la quale “figlio di puttana” è un insulto molto volgare. Questo meccanismo del quadro comune di significato è alla base dell’intendersi e dunque del linguaggio, è sulla base dell’intesa che il linguaggio esercita l’effetto. Non sulla base dei suoni, non sulla base degli intenti, non sulla base dell’etimo. Sull’intesa, solo quella.

Ora, sicuramente le parole plasmano i comportamenti delle persone, questo è così lapalissiano da non necessitare nemmeno di dati a supporto… ma lo fanno attraverso uno schema di significati. La parola evoca il suo significato nella mente dell’altro, è così che lo influenza. “Figlio di puttana” è un insulto se entrambi lo intendiamo come tale, ovverosia solo se io voglio usarlo come insulto e il mio interlocutore lo vede anch’egli come un insulto.
Ma con il maschile inclusivo lo schema di significato dice che quel maschile grammaticale ha un significato neutro, che comprende tanto il maschile che il femminile; non c’è nessuna “invisibilizzazione” o negazione delle donne, sono comprese nel significato. Rispetto al significato, l’unica differenza fra “direttrice d’orchestra” e “direttore d’orchestra” è che nel primo caso voglio specificare che la Venezi è una donna, e nel secondo invece potrebbe essere sia donna che maschio. Quindi questo crea un uso differenziale nel momento in cui io voglia dire, per esempio, “è la migliore direttrice d’orchestra del mondo” che avrà un senso diverso da “è il miglior direttore d’orchestra del mondo”: nel primo ci limitiamo ai direttori donna, nel secondo a tutti. E se invece volessimo dire che un uomo è il miglior direttore d’orchestra, ma limitatamente agli uomini? Allora dovremmo dire “è il miglior direttore d’orchestra uomo”.
Caspita, molto razzista nei confronti degli uomini dover aggiungere quella parola per specificare che parliamo dei maschi, vero…?

No, non è vero. Stiamo solo cercando di trasmettere significato e di capirci, non ci sono chissà quali malignità dietro. La Venezi preferisce enunciare il proprio ruolo senza accentuare il proprio sesso, ma ciò non significa che stia dicendo di essere uomo, o che solo gli uomini possono avere quel ruolo, o che non esistano direttrici d’orchestra donne (seriously? Ma come si fa a pensare un’idiozia simile?). Semplicemente affida alla regola grammaticale del maschile inclusivo l’intesa che potrebbe essere sia maschio che femmina.

Quindi sul piano del significato stiamo parlano letteralmente del nulla: “direttore” o “direttrice” differiscono esclusivamente per una sfumatura di enfasi sulla forma dei genitali della persona. “Il direttore d’orchestra” vuol dire “la persona che dirige l’orchestra”, maschio o femmina che sia. Fine.

Quindi, quale che sia l’influenza che si attribuisce a questo linguaggio capace di “plasmare la realtà”, la cosa strana è che questa influenza prescinde dal significato. Ovvero prescinde dalla funzione stessa svolta dal linguaggio, che è quella di intendersi.

Sì, il maschine inclusivo significa “neutro”, è il suo modo di funzionamento. Eppure, si dice, anche così in qualche modo avrebbe il potere di negare la femminilità. Viene attribuito qui, alla parola, un potere che trascende il suo senso, il modo in cui viene intesa. Vi è in essa un qualcosa di più, un aspetto ineffabile e sottile, subconscio, pervasivo ma impercettibile al tempo stesso.

Uhm.

Una filosofia del linguaggio in cui le parole hanno valore indipendentemente da come le intende chi le ascolta…

Dov’è che abbiamo già visto una cosa del genere?

STAR WORDS EPISODE III: REVENGE OF THE CAZZARIS

Oh, sì, scrissi fiumi di inchiostro per criticare la filosofia del linguaggio di Gualtiero Cannarsi, in un mio articolo che riscosse un discreto successo.

Forse me la giocavo troppo facile: dopotutto il lavoro di Cannarsi è evidentemente disastroso, quindi andare a spiegare quali sono i vizi filosofici che stanno dietro a quel disastro è semplicemente un esplicitare qualcosa che il lettore già sa e con cui concorda.

Non altrettanto immediato, però, è riuscire a capire nel profondo l’estensione e il significato dei vizi filosofici di Cannarsi, e quindi vedere gli stessi vizi se vengono applicati in altri ambiti, magari in modo meno plateale, più subdolo.

Il mio suggerimento è di andare a leggere l’articolo su Cannarsi prima di andare avanti, se non l’aveste già fatto; ma se non volete vi faccio un breve riassunto delle puntate precedenti: Cannarsi è un adattatore che presta la propria fenomenale competenza per gli adattamenti in italiano degli anime dello Studio Ghibli. Più che famoso è famigerato perché i suoi adattamenti sono caratterizzati da una strana e macchinosa traduzione letteralista: Cannarsi non tenta di tradurre il giapponese nella forma italiana che meglio ne riproduce il senso, bensì in quella che meglio ne riproduce la lettera (qualche esempio). I risultati sono quelli che si possono immaginare: non puoi riprodurre strutture sintattiche e costrutti specifici di una lingua alla lettera in un’altra lingua, ne esce fuori una roba che è incomprensibile nella lingua d’arrivo. Difatti, questo è quello che fanno i programmi di traduzione come Google Translate: prendono le parole e cercano la parola corrispondente in Italiano, perché non hanno la capacità di capire il senso e non sanno renderlo. Non cambiano l’ordine delle parole, non cercano il termine che renda meglio l’intento comunicativo dell’originale, non si sforzano di riprodurre le stesse impressioni e in generale gli stessi significati. E Cannarsi fa la stessa cosa, in un certo senso egli traduce cercando di non tradurre, traduce senza occuparsi di rendere bene il senso; egli sembra considerare la traduzione automatica fatta dai programmi appositi una specie di ideale regolativo.

La filosofia del linguaggio di Cannarsi, che nell’altro articolo paragonavo a quella dei letteralisti biblici, sarebbe quella secondo cui in un testo, in una sequenza di parole, il nucleo che conta di più non sia il significato, bensì un universo di rimandi e relazioni esterne fra le parole stesse, che sta nel loro ordine, nel loro suono, nella loro lunghezza e frequenza.

Ora, non è che i rimandi, le allusioni, gli echi, la storia e l’etimo di una parola non siano utili nella composizione o traduzione di un testo. Figurarsi. Sono importanti alla luce di quanto possono precisare e delineare meglio sfumature di senso… ma non fino a mettere in parentesi il senso, non fino a mettere il senso in disparte o perfino oscurarlo. Gli orrori linguistici di un ragionamento secondo cui nell’analisi del linguaggio si può accantonare il problema di cosa esso trasmetta, di cosa esso significhi, in favore di una fantomatica riverenza nei confronti della sua forma, sono autoevidenti: perdi il senso, scrivi cose che non significano niente.

E questo modus cogitandi cannarsiano è lo stesso che sta dietro tutte queste epiche battaglie contro il sessismo nella lingua. “Direttore d’orchestra” al maschile ha un significato neutro, è questo che significa e non c’è molto dibattito possibile a riguardo (specie se a usarlo in quel modo è proprio una donna che dirige l’orchestra, quindi non vi sono possibili ambiguità). Ma alcuni non sono contenti di ciò che significa, non gli basta, e vanno ad immaginare che quella forma possa rimandare ad altro: si guardano la storia, la sequenza dei suoni, l’etimo – generalmente in modo molto superficiale, peraltro – e iniziano a fare ipotesi sul perché e sul percome si usi un maschile grammaticale… e in tutta questa analisi viene però completamente cancellato il significato, e cioè quello di un’espressione che è neutra rispetto al genere.

Esattamente come Cannarsi si maschera da grande cultore di lingua e cultura giapponese e traveste i suoi pastrocchi da raffinati esercizi intellettuali, le riflessioni insistite ed ossessive sul genere grammaticale diventano anch’esse grandissime masturbazioni intellettuali che superficialmente paiono complesse e argute, ma di fatto non hanno alcun contatto con la realtà. Semplicemente, mentre a Cannarsi non riesce bene di farsi passare per genio e cultore della lingua, ai cazzari che impostano epiche battaglie per le sorti dell’umanità su di una convenzione grammaticale questa recita riesce un po’ meglio. Ma non vi sono differenze filosofiche: dietro la mascherata di grande avanzamento scientifico e sociale si nasconde una profonda regressione culturale che riconduce il pensiero ad uno stadio pre-linguistico, una condizione in cui segni e simboli non possono più essere compresi in quanto significanti, ma diventano formule magiche e riti.

Perché in effetti che cos’è la frase “il linguaggio plasma la realtà”, se non una dichiarazione di fede nella magia? La convinzione che segni e suoi influenzino la struttura della natura è alla base del pensiero magico primitivo. Questo non è progresso sociale, politico, scientifico. Molto banalmente, si chiama superstizione.

Conclusioni

E qui si ritorna all’inizio, quando dicevo che i problemi sono ben altri, e c’è chi molto a luogo fa notare che i problemi sono ben altri, ma nel frattempo su questo problema ho scritto sei pagine di word.

Ma d’altro canto, perché in passato ho scritto tanto anche su Cannarsi, quando a me gli anime dello Studio Ghibli manco piacciono particolarmente?

Perché se è vero che la desinenza di un sostantivo non cambia di una virgola la vita di nessuna donna o uomo della terra, e in questo senso si potrebbe semplicemente ignorarla, quello che non si può ignorare è il deterioramento filosofico che questa battaglia porta con sé. Di fatto, quando un dibattito del genere si impone sul pubblico, questo è sintomo di un generale abbrutimento intellettuale, di una perdita del contatto proprio con la lingua, con le sue funzioni, potenzialità e scopi, e in generale di un’involuzione delle nostre capacità di pensiero astratto.

Non ultimo, piantare grane epiche su queste sciocchezze ha tutta una serie di effetti collaterali pericolosi: si vanno a creare divisioni e conflitti politici gravi sulla base di temi di infima importanza, si fornisce agli estremisti un pretesto per incancrenirsi ulteriormente nelle proprie posizioni, e ci si aliena gli alleati. Personalmente, sono stato attaccato ed insultato per le mie opinioni abbastanza da alienarmi per sempre le simpatie di qualsiasi causa femminista, anche quelle che condivido, perché non ho intenzione di trovarmi affiliato o nella stessa squadra con dei nazisti linguistici pronti a darmi di fascio sulla base di una -a o di una -o alla fine di una parola.

In buona sintesi, queste battaglie linguistiche sono in primis inutili, in secondo luogo sono spesso semplicemente sbagliate (come quando si afferma erroneamente che il maschile non marcato sia scorretto), successivamente hanno presupposti filosofici viziati, e come se non bastasse scatenano conflitti che però possono avere conseguenze, queste sì, serie.

Con un rapporto costi-benefici così disastrosamente sbilanciato dalla parte del danno una persona intelligente una battaglia così la abbandonerebbe subito, o quanto meno ne smorzerebbe TANTO i toni.

Non che di persone intelligenti il mondo sia prodigo, purtroppo.

Ossequi.
E anche ossequie, dai, se no invisibilizziamo le donne.





Il COVID-19 e la sinistra allo specchio del Male

24 01 2021

L’innamoramento della Sinistra per i lockdown – e più duri sono meglio è – può sembrare difficile da spiegarsi in un’ottica di storia del pensiero politico. Dopotutto, il virus dal punto di vista socioeconomico è assolutamente egalitario, è una forza biologica, non fa differenze di classe sociale. Viceversa, i lockdown colpiscono in modo sproporzionato i ceti medi e bassi, insomma, i poveri: darwinismo sociale allo stato puro, dunque.

Ma questo fraintendimento deriva dall’identificazione del pensiero di sinistra con il pensiero marxista, con la sua enfasi sui rapporti di produzione e le classi sociali. La realtà è però che il pensiero di sinistra è, in essenza, “luciferiano”, non marxista.
Per pensiero “luciferiano” intendo quel pensiero che ritiene che l’uomo sia in grado di sostituirsi a Dio e di fare il lavoro di Dio meglio di lui. “Dio” qui è solo una parola che si riferisce a quell’insieme di norme e di fatti che regolano l’andamento del cosmo, all’ordine naturale, se vogliamo.

Il pensiero di destra è storicamente rispettoso di Dio, ovvero dell’ordine naturale, spesso fino al punto di negare il diritto dell’uomo a migliorare la propria esistenza a dispetto dello stato “naturale” delle cose. La destra è quella che dice che cambiare l’ordine sociale è un crimine contro Dio, è quella che dice che lo status quo è giustificato dal diritto divino; per essa vi è nel modo in cui le cose vanno “naturalmente” un’intrinseca saggezza, e lotta per mantenerlo – anche in quei casi in cui esso sia ampiamente perfettibile.
La sinistra invece è quella forza che vuole sovvertire l’ordine delle cose, è una forza che agisce “contro-natura”, che vuole sostituirsi a Dio e ritiene in effetti di poter fare meglio di lui. Come Lucifero, appunto – e per questo ho detto “luciferiano”, e non “satanista”. Essa lotta per sovvertire l’ordine naturale delle cose e creare il Paradiso in Terra.
Attenzione: tutto ciò non va inteso come indicativo di una tendenza della sinistra verso il “male”. Ripeto: non ho parlato di satanismo, ma di luciferanesimo. La sinistra non solo non è incline al male, ma è incline al bene molto più della destra. La destra conosce e riconosce l’esistenza del male, o se preferiamo delll’oscurità, nel mondo. Sa che il mondo ha pestilenza, carestia, guerra e morte, i Cavalieri dell’Apocalisse. Ma per la destra queste cose hanno un ruolo nell’economia del cosmo, una funzione assegnata dalla saggezza di Dio o comunque dall’ordine della natura. Sì, nel Paradiso non ci saranno sofferenze di alcun tipo… ma il Paradiso è in cielo, non in terra. La Terra è il regno di pestilenza, carestia, guerra e morte. Non dobbiamo ingannarci sulla natura oscura e tragica dei quattro cavalieri, ma anche nella loro oscurità e tragedia sono forze “sane”, sono da accettarsi. Non così per la sinistra, la sinistra le vuole annientare e danzare sui loro cadaveri. Sì, tutte e quattro, perfino la morte, l’attimo definente del vissuto umano, nel lungo termine il pensiero luciferiano vuole annientarla. La sinistra vuole annientare il Male ovunque esso si annidi e con qualunque mezzo, lo vuole così tanto che è insoddisfatta del lavoro fatto da Dio in proposito, e in questo senso ha una tendenza al Bene molto superiore a quella della destra.

Beninteso: l’ordine naturale di cui sto parlando qui non è il fatto fisico irriducibile, la Natura così come necessità ordina che vada. Quello di cui parlo è principalmente qualcosa di percepito, un avatar dello status quo, delle “cose così come sono”; non stiamo parlando di ciò che effettivamente è irriducibile e necessario, ma di ciò che viene percepito o meno come tale: le cose che sono come sono perché così devono essere, che vanno come vanno perché così è giusto che vadano. Poi ci sono cose che sono così come sono perché non possono essere altrimenti, le vere leggi naturali, e altre che sono così perché così sono state impostate dalla società e sono modificabili.

Tuttavia, dal punto di vista psicologico, possono essere molto difficili da distinguere, e in effetti il problema è proprio quello: che la destra scambia alcune mere consuetudini e costrutti sociali per immutabili e sacre leggi del cosmo, mentre la sinistra spesso scambia le sacre ed immutabili leggi del cosmo per mere consuetudini e costrutti sociali. Abbiamo fatto su questo blog molti esempio del primo caso; per esempio la destra è tipicamente convinta che i bambini debbano essere cresciuti da due genitori di sesso opposto perché “così è naturale”, ma in realtà stanno parlando semplicemente di una consuetudine, non di una necessità. Il principio implicito è che “se le cose sono così come sono, c’è sicuramente un buon motivo e vanno mantenute così.” Questo tipo di ragionamento è chiaramente difettoso: non sempre il motivo per cui le cose sono così come sono è davvero buono, e anche in casi in cui lo sia stato in passato, magari oggi è sorpassato.
Ma della destra questo blog ha parlato tanto; il problema della sinistra, invece, è che non rispetta le ragioni preesistenti di un certo status quo, le quali non sempre sono buone e valide, ma in moltissimi casi sì: un buon motivo di essere ce l’hanno. Inoltre, la sinistra ha un tendenza a non riconoscere l’esistenza di dati naturali irriducibili che limitano la sua azione. Laddove il pensiero cristiano della destra è caratterizzato dal senso del timor di Dio, il pensiero luciferiano è caratterizzato dall’orgoglio, dalla hybris, la tracotanza. Va da sé, però, che se nella vita è importante avere un po’ di orgoglio, è anche importante saper riconoscere i propri limiti, perché chi ha troppo orgoglio può far male a sé stesso e agli altri…

Il marxismo è una delle declinazioni di questo pensiero luciferiano: la specie umana può con le proprie forze sovvertire completamente l’ordine sociale, e con ciò s’intende ogni ordine sociale, e costruirne uno nuovo, giusto e perfetto, un Paradiso. Nel caso del marxismo, l’ordine da sovvertire sta nel modo in cui è fatta la società, che abbiamo costruito noi stessi, e quindi l’obbiettivo sembra immediatamente a portata di mano… l’ostacolo insormontabile qui è la famosa “natura umana”, la cui esistenza infatti la sinistra tendenzialmente nega.
Ma il marxismo è solo una forma di pensiero luciferiano. Il suo principio resta che l’uomo può, e dunque anche deve, creare il Paradiso in terra e annientare il Male. Nel caso della pandemia la declinazione del pensiero luciferiano è la seguente: l’uomo può annientare il Male, in questo caso la pandemia, e dunque deve anche, e deve fare tutto quanto in suo potere allo scopo.

L’innamoramento della sinistra per una metodica di lotta che in termini economici è l’apoteosi del darwinismo sociale, una specie di nazismo economico a ben vedere, non sorprende se ci si ricorda che la persona di sinistra ha spesso come imperativo di creare il Paradiso in Terra, deve farlo a qualunque costo e rispetto a questo obbiettivo le forze che si oppongono, siano esse naturali o sociali, sono tutte ostacoli da spazzare via.
E quale minaccia peggiore al Paradiso in Terra di una catastrofe naturale…? In un certo senso le catastrofi naturali sono inammissibili nel pensiero luciferiano più puro, perché sono un tentativo di quel dannato Dio di rimetterci in catene. Come disse un commentatore che lessi su facebook e di cui non ricordo il nome, “per la sinistra le pandemie sono costrutti sociali particolarmente reazionari”. La sinistra ha deciso di ignorare completamente il dato di fatto scientifico, quello per cui una pandemia per la quale non hai un vaccino non è un fenomeno contenibile con strumenti umani, e sta ancora ignorando completamente i limiti di sostenibilità sociale ed economica di uno stato di blocco prolungato di tutta la vita del continente – anche questo un fattore che non dipende minimamente da fattori sociali, da politiche, da interventi, ma è un semplice “fatto”, un elemento dell’ordine delle cose: una società deve produrre per vivere.

Il minimo comune denominatore del dibattito europeo – inesistente, in realtà – sulle misure contro il coronavirus è l’eliminazione dal discorso del dato biologico irriducibile. Anche nei rari casi che qualche voce critica verso la gestione di Conte e dei suoi si elevi, che cosa dice quella voce? Che potevano fare meglio, che potevamo avere meno morti, con una gestione migliore (magari, perché no, con un lockdown più duro e lungo ancora! Ci piacciono le cose dure e lunghe).
E si vanno a dissezionare le mortalità di tutti i paesi del mondo, scrutando quei numeri enigmatici, di complessità infinita, determinati da migliaia di variabili regionali diverse, li si viviseziona fino alla terza cifra decimale, alla ricerca di null’altro che dei segni che una politica abbia funzionato meglio o peggio di altre. Il tutto come se la pandemia fosse, appunto, un semplice fatto sociale e politico che obbedisce ai DPCM, e non un fenomeno biologico che obbedisce alle leggi della fisica e della chimica. Il dato biologico è lì soltanto per essere trasceso, controllato, imbrigliato. E generalmente la persona di sinistra termina la sua vivisezione dei numeri della pandemia concludendo, colma di ammirazione, che la Cina, sanguinaria dittatura dalla matrice comunista ed esecuzione capitalista, è il paese migliore del mondo, perché col ferro, col fuoco e col sangue, essa ha trionfato sulla biologia stessa. Ha sconfitto il virus, e ha così dimostrato l’inesistenza di un ordine naturale, o che se esiste noi possiamo fotterlo.

Marxismo presente solo in tracce, qui, come la frutta a guscio sulle etichette degli alimenti. Ma la sinistra è in grado di levare critiche ai governi anche sul piano economico… per esempio rimprovera al governo la povertà dei ristori e il ritardo a fornirli. Ovviamente non c’è ristoro che possa compensare un piccolo imprenditore o negoziante di due anni di inattività forzata; dopotutto i soldi sono solo una misura convenzionale della nostra capacità di produrre, e se tu non stai producendo i soldi diventano carta igienica. I ristori servono a rendere un po’ meno cataclismico il lockdown, ma il lockdown resta sempre un cataclisma, e se una persona non lavora per due anni non è con una mancetta di due lire che la rimetterai in carreggiata. Ma dopotutto, se si può rivoltarsi contro la biologia e trascenderla, ed è la definizione stessa di “ordine naturale”, figurarsi se non ci si può rivoltare contro l’economia.

E nel caso della pandemia, la declinazione marxista del luciferianesimo, che si rivoltava verso la natura umana e le strutture sociali che ne derivano, come appunto l’economia, è stata “sorpassata” da una rivolta molto più vasta e radicale contro la natura tout court, contro la biologia, contro i virus, contro la costituzione dei nostri organismi, i nostri corpi, le cellule del nostro sangue. Sotto accusa non è più solo il modo in cui vendiamo e compriamo e produciamo e ci procuriamo il cibo; ora è sotto accusa il modo in cui respiriamo, il modo in cui facciamo sesso, il modo in cui frequentiamo le persone e abbiamo una vita sociale, il modo in cui camminiamo, l’uscire di casa, il godere del sole e dell’aria. L’uomo è questa scimmia sociale evolutasi nella savana, fatta per correre, cacciare, raccogliere, e poi giocare coi suoi simili, farci sesso, baciarli, abbracciarli… questo è il dato biologico umano. Ovviamente virus, batteri, parassiti, non fanno che sfruttare la nostra biologia contro di noi, è il loro modo intimo di funzionamento… Sono, in un certo senso, parte di noi. Certo non possiamo bandirli senza in qualche misura lasciarci alle spalle la nostra biologica umanità.

E questo è il nuovo obbiettivo. Il 2020 ha formalizzato un progetto globale di “riforma biologica” dell’essere umano, il primo della storia. Dopo aver tentato di bandire la guerra e la carestia, e per inciso senza neanche esserci riusciti, già ci sentiamo pronti a fare il passo successivo: bandire la pestilenza – e in futuro, la morte. Questo è l’apice della rivolta luciferiana.

Una ribellione ha semplicemente assorbito e cancellato l’altra.





La coperta corta di Malthus

9 12 2020

Cosa ci insegna la crisi del Coronavirus?

Che insieme, unito, il paese può affrontare ogni minaccia?

Nah. Più che altro ci insegna tutta una serie di orrende verità su come funziona la psiche umana e in particolare la psiche dell’occidentale del 2000.

Ma più ancora, pone una lapide su tutti i sogni più sfrenati di ecologisti e malthusiani.

Ma facciamo un passo indietro, di un annetto, quando l’argomento caldo (no pun intended) era il riscaldamento globale. Quando Greta Thunberg gridava appassionatamente che questi governanti le hanno rubato il futuro. Ma sono davvero stati loro? Cos’era questo futuro?

Il modello di sviluppo della società industriale, che sia esso socialista o capitalista non ha in realtà la minima importanza, si basa su una capacità dell’uomo di sfruttare le risorse ambientali che non ha precedenti storici prima del Novecento. Razziando cieli, mari e terre l’umanità ha iniziato a produrre quanto basta a soddisfare ogni suo bisogno e anche ogni suo capriccio, in effetti. E questa incredibile, inedita prosperità ci piace, non vogliamo rinunciarvi.

Gli ecologisti, infatti, ci dicono che dovremmo dare un taglio a tutto questo lusso, che non è sostenibile. Che presto non potremo più permettercelo, perché il riscaldamento globale distruggerà anche l’economia e il nostro stile di vita etc.

La soluzione proposta dagli ecologisti sembra essere: dobbiamo dare un taglio al nostro stile di vita ORA, altrimenti dovremo farlo DOPO.

Curiosamente questo argomento per cui dovremmo vivere da malati per morire sani non convince tanta gente. Qualcuno nota che, se dovessimo davvero dare un taglio drastico all’uso dei combustibili fossili, i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo sarebbero condannati a restare per sempre in miseria, e a parte che valli a convincere, forse non sarebbe neanche moralmente corretto convincerli a fare una cosa del genere.

Cioè, il punto è che noi vogliamo mantenere la prosperità in cui viviamo, e anche dell’ambiente ci interessa solo nella misura in cui ci è garantita la prosperità; non serva a nulla salvare l’ambiente senza la prosperità.

Purtroppo, però, la prosperità è una condizione per certi versi “innaturale”. La biologia dei viventi è adattata per farli abitare in uno stato di costante scarsità di risorse. Gli animali mangiano e bevono ogni volta che possono, non si mettono a dieta, e questo perché il cibo scarseggia sempre ed è faticoso procurarselo. E noi umani non siamo diversi, non siamo fatti per essere frugali, e difatti soffriamo delle cosiddette “malattie del benessere”, malattie collegate ad una sovrabbondanza di risorse che nuoce alla nostra stessa fisiologia. Quando ci troviamo in condizioni di prosperità noi non facciamo altro che mangiare di più, di solito, almeno finché il cibo non finisca.

Gli ecologisti suggeriscono invece di mettersi a dieta, onde preservare la prosperità, si direbbe; temono che le risorse finiscano e l’abbondanza cessi. Ma il punto è che qui si sta nuotando contro la biologia stessa: le popolazioni crescono e consumano all’infinito, non si mettono a dieta; non lo fanno i conigli e non lo fanno neanche gli umani. E anche se ci mettessimo “a dieta” e consumassimo molto di meno, continueremmo comunque a riprodurci e ad aumentare di numero. Se consumiamo la metà, ma diventiamo il doppio, non abbiamo fatto un gran progresso. Il problema è il seguente: la crescita di una popolazione è limitata soltanto dalla quantità di risorse. L’esplosione demografica è una conseguenza del benessere, non si sarebbe verificata senza sovabbondanza di risorse. Ma proprio per questo è destinata a “mangiarsi” quelle risorse e ad esaurire quella stessa sovrabbondanza. La crescita di una popolazione si ferma quando sono finite le risorse per crescere, a quel punto raggiungerà un equilibrio stabile. E così faremo anche noi.

E infatti gli ecologisti più sgamati digievolvono e diventano malthusiani, e questa è già una prospettiva più interessante – di cui sarà bello scoprire i limiti intrinseci.

Dunque, la popolazione crescerà fino ad un momento in cui l’ambiente non la reggerà più. Nel concreto: la finiremo di crescere quando i neonati ricominceranno a morire di fame o malattie. Non ha molto senso chiedere alla gente di rinunciare all’abbondanza ora per non dovervi rinunciare comunque dopo, no? Inoltre, se la popolazione continua a crescere, quegli sforzi si riveleranno comunque inutili.

E qui arrivano i malthusiani che trovano la soluzione perfetta: “e se facessimo meno figli?”

C’è del genio in quest’idea. Fare dodici figli non è una necessità per nessuno oggigiorno, né un desiderio. È preferibile averne due o tre, addirittura uno solo. Ora, se la popolazione smetterà di crescere o addirittura diminuirà perché facciamo meno figli, noi avremo trovato il modo di mantenere in eterno la prosperità: la nostra “dieta demografica”. Per far ciò basterebbe che ci mantenessimo sul tasso di sostituzione di 2 figli per donna: se ogni donna fa due figli la popolazione non cresce. In realtà, però, la vita media si allunga, quindi anche con due figli per donna in media la popolazione crescerà. Bisogna scendere sotto il tasso di sostituzione. Ma anche quello è perfettamente fattibile e ci stiamo già arrivando.

Quindi abbiamo la soluzione: un po’ di Malthus, facciamo meno figli, poi un po’ di Greta, andiamo di meno in aereo… e vivremo per sempre nell’abbondanza.

Be’… forse.

In realtà la vita ha un carattere ciclico, è nella sua struttura base: nascita, crescita, riproduzione e morte. Un sistema in equilibrio. Noi vogliamo andare a sopprimerne una parte: vogliamo bloccare le nascite. In sostanza, stiamo andando a mettere un tappo al flusso. Al contempo, però la vita media continua ad allungarsi. Supponendo che le dimensioni della popolazione rimangano sempre le stesse, il tappo alle nascite ridurrà via via la percentuale dei giovani e causerà un accumulo di anziani.

E non è bello tutto ciò? Dopotutto, cos’è l’anzianità se non il più grande lusso che l’umanità si concede? Il gatto che non si può riprodurre e che non ci vede più abbastanza bene da catturare prede muore. L’umano invece lo facciamo sopravvivere, lo manterranno coloro che invece sono ancora abbastanza in forze. Ciò è reso possibile dalla medicina, ma c’è anche un patto intergenerazionale a garanzia di questo meccanismo. Purtroppo, questo patto si basa sulla natura ciclica del processo: ci saranno sempre un tot di giovani che possano mantenere gli anziani, e di solito i giovani sono più numerosi degli anziani. È un modello basato sulla crescita, funziona finché la popolazione cresce. E noi, in un modo o nell’altro, vogliamo bloccare la crescita; il fatto che la blocchiamo ad uno stadio solo non serve a niente se poi da un altro lato la crescita continua uguale a prima. Anzi, la situazione rischia perfino di peggiorare: i giovani presto o tardi non potranno più mantenere gli anziani.

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L’enfasi qui deve essere posta su una comprensione fondamentale del fenomeno della vita in generale e dell’esistenza umana in particolare. Di nuovo: nascita, crescita, riproduzione e morte. Il ciclo funziona perché ci sono tutte e devono essere in equilibrio.

Fare meno figli sembrerebbe in sé una buona idea, ma andrebbe aggiustata in qualche maniera, e sappiamo tutti cos’è che riequilibra questo sistema: si tratta della fase successiva-precedente del ciclo, la morte.

Se vogliamo fare una rigida dieta demografica che ci permette di mantenerci in salute senza abbuffarci troppo di risorse esaurendole, non basta fare meno figli: occorre anche morire un po’ di più.

Ma mentre l’idea di non fare figli, e quindi di suicidarsi demograficamente, è sorprendentemente accettabile per le persone, nonostante conduca di fatto alla morte della civiltà e sia a tutti gli effetti anti-vitale, quella magari di non insistere a prolungare a tutti i costi le vite fino a 150 anni è molto meno digeribile. Non si riesce a vedere in questa tendenza psicologica altro che l’effetto di un estremo egoismo ed egocentrismo generalizzato, per cui è concepibile la morte della società, che sopraggiunge se non si fanno figli, ma non è concepibile la mia che sopraggiunge perché ho 97 anni.

E qui il COVID-19 ci ha aiutato a capire delle cose in più. In particolare, ci ha aiutato a capire quanto cazzo è corta questa coperta demografica che tiriamo da tutti i lati e da cui dipende la sopravvivenza della civiltà.

Si è presentata una nuova malattia che per le sue caratteristiche epidemiologiche è sostanzialmente una piaga per gli anziani. Governo e media si sono dati con tutte le proprie energie a enfatizzare gli sparuti casi di under 40 che ne sono morti, ma il fatto irriducibile è che anche all’apice della crisi la media dell’età dei decessi è stata 80 anni. Tant’è che una delle ragioni per cui ne sono stati colpiti tanto severamente Europa e USA è l’elevata età media. Che sfortuna, che viviamo così tanto! Siamo piagati dalla nostra longevità. Se solo avessimo meno benessere, non avremmo il COVID-19!

Ovviamente c’erano vari modi di affrontare questo problema, e qui c’era da porsi una domanda interessante dal punto di vista psicologico e filosofico. È arrivata una catastrofe naturale che colpisce specificamente gli anziani. È una catastrofe naturale, non è che l’abbiamo creata noi, è semplicemente arrivata. E siamo una società che inizia a soffrire pesantemente degli squilibri causati dalla propria stessa opulenza. Uno di questi squilibri è, banalmente, il fatto che si viva decisamente troppo a lungo.

Ora, ogni catastrofe è una catastrofe e catastrofe va chiamata, nessuno le mette il tappeto rosso davanti. Ed è ovvio che si dovesse fare qualcosa per limitare i danni, questo non è in discussione.

La questione però è… quanto? Perché dopotutto questo sistema biologico, il coronavirus, ha caratteristiche che dal punto di vista ecosistemico lo rendono quasi necessario: la vita che si accorcia un po’ per cause naturali. Nell’ottica del funzionamento del sistema umanità, un evento di questo tipo sta tutto in un equilibrio naturale e perfino sano: accorciando la vita di pochi anni si consuma tutti di meno, il sistema pensionistico si alleggerisce, ci sono più risorse per tutti, la percentuale di popolazione attiva aumenta.

Attenzione, qui non sto dicendo che sia una cosa “bella”. Dopotutto, forse che la morte è una cosa bella, cui tutti andiamo incontro con danze e canti? No, la morte è una tragedia. Ma è al contempo una forza di equilibrio, un necessario sistema regolatore della vita, ne abbiamo bisogno. E qui non si è parlato di fare stermini sistematici di anziani come nelle distopie di fantascienza, non stiamo parlando di una crudele e sistematica azione umana. Stiamo parlando di una catastrofe naturale e di come gestirla.

Ora, nel momento in cui si doveva fronteggiare questo evento così estremo ma al contempo così “sano” rispetto alla situazione attuale, cosa si è deciso di fare? Qualcosa, ovvio; naturale che si sarebbe fatto “qualcosa”… ma fino a che punto ci si poteva spingere? Quanto eravamo disposti a fare per combattere questo meccanismo?

La risposta è stata una, unanime e semplice: TUTTO.

Ogni cosa che rientrasse nell’immaginazione umana doveva essere fatta per impedire che questo specifico meccanismo regolativo facesse ciò per cui esiste, i.e., accorciare le vite. Si sono sacrificate la libertà, l’economia, la socialità, la salute mentale… quando è arrivato il momento di decidere quale spazio lasciare ad un meccanismo naturale di regolazione della vita, la risposta è stata: NESSUNO.

Per contro, nessuno ha mai parlato di favorirlo, non si è mai parlato di spargerlo… Magari si è ventilata l’idea di avere verso di esso dei margini di tolleranza. Ma la risposta non è cambiata: margini ZERO, tolleranza ZERO, siamo disposti a fare TUTTO.

Quindi se ci chiediamo cosa è disposta a fare l’umanità per affrontare i problemi strutturali che minacciano la prosperità in cui vive, ora sappiamo che non è in grado nemmeno di muoversi in termini di “inazione”. Non solo non è disposta a ridurre attivamente la propria crescita, ma non è disposta nemmeno a lasciare che un meccanismo naturale di regolazione delle popolazioni abbia dei margini, ancorché ridotti, di azione per farlo lui.

Purtroppo per iniziare a pensare ad una decrescita da qualche parte qualche rinuncia va fatta, e non parliamo di cazzate tipo mangiare meno carne… parliamo di meno vite che appesantiscono il sistema. Qualche parte questa coperta non riesce a coprirla.

Dunque, questa società vuole conservare la propria prosperità, non è disposta a rinunciare al benessere materiale, e non è disposta neanche a tollerare che minime alterazioni possano sopraggiungere attraverso cause esterne a riassestarne la demografia in senso decrementale. Insomma, non è capace di nessuna decrescita di nessun tipo. Vuole crescere, crescere, e crescere: consumare sempre di più, bruciare sempre di più, vivere sempre di più, e niente su questo o altri mondi potrà anche solo permettersi di rallentare questa corsa. Se proprio, è disposta a fare meno figli, che di tutte le cose che poteva fare è quella meno efficace e nel lungo termine può perfino aggravare le cose.

Ecco quant’è corta la coperta di Malthus. Ecco quanto è fallimentare l’ideologia ecologista. Per quanto furbi noi umani riteniamo di essere, non possiamo eludere le trappole della nostra stessa natura. No, non ci metteremo MAI a dieta demografica. Non decideremo MAI di produrre e consumare di meno.

Noi consumeremo tutto fino quando non lo avremo finito, e poi moriremo di fame. E vivremo sempre più a lungo fino a quando la società non potrà più sostenere il sistema sanitario e pensionistico e moriremo per quello.

Non c’è nessuna soluzione dolce, nessun compromesso moderato, nessuna decrescita felice.

Ci sarà solo una decrescita molto, molto infelice.





Il Grande Assente

6 07 2020

Voglio tornare ancora una volta sulla questione delle statue abbattute. Giuro, l’ultima. Per commentare questo articolo, che in tanti mi hanno segnalato, e che ho trovato sorprendente.

Perché sorprendente? Be’, l’autrice ci ha messo dell’olio di gomito, e degli argomenti anche interessanti… e tuttavia il risultato è bislacco a dir poco. In teoria vorrebbe rispondere agli argomenti ricorrenti contro l’abbattimento delle statue… e sempre in teoria, lo fa, finendo col definirli “fuffa”. Ma, qui è il fatto sorprendente: le risposte non sono mai una vera demolizione dell’argomento. Al contrario, in tutte quante deve riconoscere che ci sono delle basi valide sotto quel discorso, dovendo per forza concludere in più punti che il discorso iconoclasta comunque è pericoloso e va tenuto sotto controllo…

MA…

Ma per quanto gli argomenti siano validi, non sono validi in questo caso qui; per quanto l’iconoclastia sia pericolosa, non è pericolosa in questo caso qui. In altri casi, magari, che chissà dove staranno mai… ma in quelli attuali? No way! Sin qui è tutto perfetto, impeccabile, proprio.

Questa confidenza non sembra avere spiegazioni razionali, visto che una volta che hai abbattuta una statua vecchia di 125 anni di un uomo morto 300 anni fa perché era razzista, non si vede molto quale possa essere il freno storico o morale a distruggere tutte le statue d’Europa. Men che meno si spiega come faccia ogni volta l’autrice a riconoscere che l’argomento è valido, e poi alla fine dedurre comunque che “in questo caso” è fuffa.

Di certo gioca un ruolo la convinzione, taciuta o palese, che tutti questi argomenti in realtà siano scuse per il razzismo e per il conservatorismo politico. Dopotutto, siamo tutti razzisti, no? Tutto è razzismo! E siamo tutti politicamente parziali, no? Tutto è politica!

… Come dire che niente lo è, nevvero?

Ma c’è una ragione per cui l’autrice di quel pezzo si impantana in questo vicolo cieco retorico e non può uscirne. Perché c’è un tema, un argomento specifico, che nel suo scritto manca… e la sua mancanza si sente. Si sente perché dovrebbe esserne il protagonista, ma lei non può mai nominarlo come tale, e allora continua a evocarlo, e toccarlo tangenzialmente, a sfiorarlo… ci si intrattiene sulla soglia, ma senza mai invitarlo a entrare.

E qual è, questo grande assente?

Ovviamente l’argomento centrale nella questione delle statue è la Storia, ma non è lei l’assente di cui parlo. Domanda da un milione di dollari: di che materiale è fatta la Storia umana? Forse di vicende umane?

Ok, sentiamo: se io dico “gli umani si riproducono tramite fecondazione della donna da parte dell’uomo”, questa è un’affermazione storica?

No. È un’affermazione biologica: descrive un dato fisso, un tratto immutabile della natura umana. Certo, alla luce di Darwin possiamo dire che anche i dati biologici hanno una dimensione storica; ma i tempi dell’evoluzione sono così dilatati che possiamo considerare la maggior parte dei dati biologici come “funzionalmente eterni”. Il dato biologico è fisso, non cambia, è sempre e stato e sempre sarà.

Viceversa, se dico “nel 1924 uccisero Matteotti” la situazione è cambiata: questo evento è specifico, si è verificato una volta come conseguenza di una serie di cause antecedenti, ha causato a sua volta altri eventi, e non si riverificherà mai più. Si inserisce in una sequenza direzionata di eventi determinati da legami di causa ed effetto.

Il Tempo.

Don't Hug Me I'm Scared 2: Time (2014)

Il Tempo è il protagonista indiscusso della Storia, la Storia è FATTA di Tempo. È lui il nostro grande assente.

E a sua volta che caratteristiche ha, il tempo?

Non è posto questo per approfondimenti filosofici eccessivi, ma in generale si concorda tutti, oltre che sulla direzionalità del tempo, che è il suo tratto fondamentale, in una sua divisione tripartita in una sfera che non esiste ancora ed fatta di possibilità infinite, il futuro, una di estensione imprecisata che è vissuta nel momento, il presente, e infine una dimensione che è immota, cristallizzata nella memoria ed ormai impossibile da modificare, il passato.

Si concorda anche, in generale, che le tre sfere così distinte debbano essere trattate in modo diverso.

Quasi sempre.

Non negli USA.

Nasce negli USA questa diatriba idiota sulle statue, cosa che non mi sorprende neanche un po’: sono un paese che di Storia innanzitutto ne ha poca, e quella che ha è dannatamente noiosa. Hanno avuto una guerra civile 150 anni fa, dopodiché la guerra l’hanno sempre esportata senza mai trovarsela in casa. A noi può sembrare assurdo che ancora si accapiglino su fatti di un’epoca in cui noi stavamo facendo l’Unità d’Italia, ma si consideri che noi abbiamo avuto in mezzo una dittatura e due guerre mondiali, loro in buona sostanza niente. Oltre a ciò, gli USA sono forse il paese del mondo in cui minor presa ha avuto l’hegelismo, e conseguentemente un paese in cui lo storicismo non ha mai preso piede.

Dunque, gli USA non hanno troppo il senso della suddivisione tripartita fra passato, presente e futuro. Fra 150 anni probabilmente li troveremo ancora infervorati sulla guerra civile esattamente come lo sono oggi.

Noialtri, però, di solito pensiamo che il tempo arrivi, diventi presente per un po’, ed in questa finestra noi combattiamo le nostre battaglie politiche, e dopo un altro po’ passi nella “Storia”, che è fissa lì e va solo studiata e capita. E così il tempo prende tutte le cose umane e le muta fino a renderle irriconoscibili: gli oggetti, le dottrine, le morali, i testi… niente può sfuggire al suo effetto.

Ma la nostra autrice ha deciso che il Tempo non ha effetto… o al massimo ce l’ha solo come dice lei.

Per esempio, il Tempo ha un effetto sulla società, e quindi la visione che ha piazzato la statua sul piedistallo è diventata obsoleta. Quindi, ABBATTEREEEEE!

Quello che sembra sfuggirle, però, è che i simboli e i significanti sono anch’essi soggetti al Tempo. Non è che tutto il mondo è andato avanti e invece il significato di quelle statue è rimasto fermo – donde la necessità di abbatterle per “aggiornamento”.

Io in soggiorno ho una vecchia macchina da cucire Singer. Che cos’è? A cosa serve? A cucire?
Non v’è dubbio alcuno che chi l’ha inventata volesse proprio usarla per cucire. Tutta la sua struttura porta le tracce del progetto originario, e in effetti volendo si potrebbe ancora usarla per cucire, e, certo, ci sarà anche chi la usa per cucire e ci fa dei graziosi video ASMR su youtube. Ma la macchina da cucire che sta nel mio soggiorno non serve a quello, nessuno la usa per quello. È lì per bellezza, fa arredo. E il fascino che ha essa lo ricava dalla sua capacità di evocare il passato, di dare un senso di storia, di permanenza delle cose… Non dal fatto che si usi per cucire, cosa che nessuno fa più.

Di certo la statua di uno schiavista può essere anche vista come una celebrazione della schiavitù. Ma non è una celebrazione della schiavitù, non ha quella proprietà intrinseca, è una cosa che gli viene appiccicata sopra. La nostra autrice fa una lodevole analisi del ruolo che svolgevano i monumenti nella volontà dei loro creatori, e che volendo potrebbero svolgere anche oggi. Potrebbero. Ma non sono affatto obbligati, ed anzi si può senz’altro sostenere che nella maggior parte dei casi non lo fanno, perché… è passato Tempo. Il cazzo di TEMPO. Anche le statue che avevano un significato politico lo perdono, passati un tot di anni. Ah, ma giusto “ogni statua è politica” … yeah, ok. Vuol dire che nessuna lo è. Più realisticamente: alcune statue, costruite da poco, sono politiche; altre, vecchie, non lo sono più. Perché non sono più attuali, perché è passato TEMPO.

Ma niente, non può lei ammettere che il Tempo in questo discorso abbia un ruolo, altrimenti dovrebbe ammettere che questa diatriba è una colossale minchiata. Particolarmente rivelatrici sono le otto-righe-otto che dedica alla questione delle piramidi, irrilevanti perché i faraoni sono tutti morti (corsivo suo). Ah, certo, perché Edward Colston invece è vivo e gioca a golf con Elvis Presley e Robert Lee.

Sì, è vero, sono tutti morti i faraoni. Come sono tutti morti gli schiavisti, e gli schiavi, e i loro nipoti, pronipoti, pro-pronipoti. La statua di Colston fu eretta quasi due secoli dopo la sua morte, e ne è passato un altro prima che decidessimo che era cattivo e andava abbattuta. Duecentonovantanove anni; cazzo, potevano aspettarne un altro, almeno facevano cifra tonda. E non solo: la statua di Colston fu eretta nel 1895; la tratta degli schiavi in UK era stata vietata nel 1807, quasi un secolo prima; e durante quello specifico secolo il Regno Unito fu anche particolarmente attivo contro la tratta, dando carta bianca a navi che si occupassero attivamente di intercettare e sequestrare i vascelli dei mercanti di schiavi (forse gli Inglesi si sarebbero risparmiati lo sforzo, se avessero immaginato che essere stati la prima civiltà della storia a combattere attivamente lo schiavismo sarebbe stato ripagato col rinfacciargli che “alcuni” inglesi fossero schiavisti). La verità è che il tema dello schiavismo in UK era già obsoleto nel 1895. Oggi? Pagliaccesco. Certo, il razzismo non è un tema obsoleto, ma se dobbiamo abbattere tutte le statue di razzisti non resta in piedi manco una cazzo di madonnina agli angoli delle strade.

La verità è molto semplice, non ci vogliono tanti sofismi: nessuno se la prende con le piramidi perché su di esse è passato il TEMPO. E il tempo travolge i significati, riscrive il senso. Ma se si ammette che il tempo cambi i significati, allora ci si deve confrontare anche con la disturbante ovvietà del fatto che nella maggior parte dei casi queste vecchie statue non significano più niente di tutte le nefandezze che sono loro attribuite, neanche in quei casi in cui davvero, in origine, lo significavano. In compenso, il tempo ha fatto acquisire loro il valore di testimonianza storica, nel nome del quale sarebbero da preservare.

Ma il grande assente fa sentire la sua assenza anche altrove, come nel buffo discorso sulla statua di Montanelli. La Sinistra, che mai ha tollerato l’esistenza di un intellettuale di Destra che godesse di un certo prestigio, un paio di decadi dopo la morte di Montanelli si è gettata contro la sua statua, sfruttando l’ondata iconoclasta… Ma la cosa buffa qui è: nessuno degli argomenti “storici” si applica alla statua di Montanelli.  Quella statua è più giovane di me, non esiste un criterio secondo il quale si possa definirla “storica”. Ben venga discuterla nel suo merito di opera celebrativa, dico io, perché non è un pezzo di storia, è un pezzo di attualità: è stata messa lì per celebrare, e lo sta facendo anche oggi. Contrariamente alla statua di Colston.

Quindi sì, sorpresa! Io sono del tutto favorevole ad una discussione sulla statua di Montanelli. E non dovrebbe sorprendere nessuno, visto che io tengo conto del Tempo.

Ma se il tempo non lo tieni in considerazione, allora non potrai cogliere alcuna significativa differenza fra Montanelli, Edward Colston, il generale Lee e Cheope. Venti anni sono diversi da centoventicinque e hanno un impatto diverso sulle cose; diverso è il nostro livello di coinvolgimento, la nostra distanza, la nostra consapevolezza… ma se uno si rifiuta di vederlo allora ieri è uguale a tre secoli fa che è uguale a tre millenni fa.

E su questa scia si deve ovviamente proseguire con le statue dei nazisti, che sono statue sì abbattute… ma subito dopo la caduta del regime, quando ancora erano attuali e avevano un significato ben preciso. Ancora una volta, da questo discorso manca completamente Lui. Ho sentito più volte parlare di “storia viva” per riferirsi a queste “mosse” da ribbbbelli con cui si buttano giù le statue, come se la storia passata e la storia presente potessero essere trattate allo stesso modo. Ma la Storia non è “viva”, è passata; se è viva si chiama “attualità”. Noi consideriamo “storico” ciò che ormai è stato consegnato alla memoria, da cui abbiamo quella distanza necessaria per poterlo comprendere con una certa oggettività. Quella che viviamo oggi sarà storia domani, non oggi. Addirittura, lessi da qualche parte qualcuno dire spregiativamente che la mia visione equivale a vedere la storia come se fosse “una cartolina”… Ma perché, che cosa si vorrebbe che fosse una roba successa trecento anni fa? Il nostro pulsante vissuto quotidiano? È esattamente “una cartolina”: una cosa ferma, lì, di cui noi abbiamo le tracce, che noi guardiamo e studiamo per cercare di comprendere meglio il presente, ma che non abbiamo il potere di modificare. Se no non è Storia, è attualità.

Ma, certo, se il Tempo non è un fattore in gioco, allora non ha neanche troppo senso ripercorrerne in modo ordinato il filo sino ad oggi. E suppongo allora si possa anche mancare di capire in che cosa consista l’esperienza della storia. Rifiutandosi di applicare il principio di carità, e in realtà andando borderline nello strawman, la nostra autrice liquida l’affermazione secondo cui distruggere le statue equivarrebbe a cancellare la storia, perché “la storia sta sui libri e nei musei”. Seriously…? Ma è ovvio che nessuno sostenga che senza la statua di Colston l’informazione su Colston andrà perduta nella polvere dei secoli. Su Wikipedia la trovi ancora la sua storia; finché un dittatore non la farà cancellare in venti secondi, resterà senz’altro registrata su un server da qualche parte. Il punto non è l’informazione sulla storia, è l’esperienza della storia, la connessione del presente con il passato attraverso il vissuto sensoriale. Quando perdiamo una di queste statue perdiamo un’occasione di contatto con la Storia. È questo quello che si intende quando si dice che si “cancella la storia”; sono sicuro che Wikipedia resterà al suo posto anche senza statue, ma avremo perso un oggetto concreto, un segno tangibile. Non ci serve certo che Auschwitz resti in piedi per ricordarci della Shoah, no? E se è per questo, Auschwitz se “celebra” qualcosa celebra proprio la Shoah. Eppure vogliamo tutti che resti in piedi, e gli unici che hanno cercato di abbatterlo sono stati proprio… i nazisti. Ma come mai?

Ma, ancora una volta il problema è che non c’è il fattore Tempo, qui. Ovvero non si riconosce che il tempo conferisca alle cose valore storico, perché si rinnega che il tempo abbia effetto sulle cose. E continuiamo a girare in cerchio su questi argomenti come mosconi senza un’ala.

E in realtà basterebbe proprio gridare che l’imperatore è nudo e il Tempo è una cosa che esiste, per rendere quasi tutto l’articolo… come dire… fuffoso?

Ma ci sono anche un altro paio di cose su cui voglio fare riflessione, e in particolare la nozione un po’ girotondina che una protesta debba per forza dare fastidio (mentre glisserò sulla retorica del white privilege; non ci bastava importare il razzismo stile USA, dobbiamo sorbirci pure l’anti-razzismo stile USA…).

Ora, io capisco che vuoi dare fastidio ai poliziotti, visto il tema della protesta. Non vedo perché devi dare fastidio gratuitamente a me, che non sono razzista.

Lo so, lo so… “siamo tutti razzisti”! Again: vorrebbe dire che non lo è nessuno. Concretamente e realisticamente: nessuno di noi è completamente immune a pregiudizi, ma molti di noi non vivono la propria vita sulla base di idee e principi razzisti e non appoggiano politiche discriminatorie. Dunque, non vedo che gusto particolare ci sia, o che risultato specifico si consegua, a “turbare la mia coscienza”, quando io non sono fra i razzisti. Non mi sentirò razzista solo perché rispetto la storia europea, e abbattere una di quelle statue non salverà nemmeno una vita che sia una, o vi assicuro che lo appoggerei. In compenso ovviamente questa cosa mi ha reso il movimento BLM molto meno simpatico. È un po’ una cifra della Sinistra quella di respingere il più possibile potenziali alleati nel campo dei nemici… ma io non posso accettare che mi si costringa a scegliere fra la solidarietà alla causa antirazzista e il mio apprezzamento per la Storia europea. E se qualcuno proverà a obbligarmi a farlo, sceglierò come io ritengo di fare… ma chi mi sta operando questa violenza parte già un bel po’ svantaggiato.

No, abbattere statue non aiuta nessuno. No, il mio vivere la mia vita in pace non sottrae nessun diritto a nessuno. No, il fatto che uno stia male per la sua condizione non significa che io debba accettare tutto quello che fa come sacrosanto, se no anche gli incel stanno male, come la mettiamo? E infine, se davvero non dovremmo concentrarci tanto su queste statue perché i problemi veri sono altri… Fantastico! Non posso che apprezzare questa forma di benaltrismo reverse (come se non fosse iniziato proprio in seno alla Sinistra Americana, questo discorso ridicolo), e demandare però che sia seguita con coerenza.

Visto che i problemi sono altri – e per me non sono “altri”, sono “altri” ma anche “questi”, anche il nostro rapporto con la storia è un problema – fatemi sentire la frasetta: “hai ragione sulle statue”… no, dai, sto chiedendo troppo… facciamo: “il tuo punto di vista sulle statue è legittimo e rispettabile”, e questa contesa sarà finita all’istante.

Anche perché dopo aver visto uno di sinistra abbandonare un pochino la pretesa di superiorità morale assoluta avrò visto tutto ciò che la vita aveva da offrire, e andrò a suicidarmi in modo spettacolare.

Ossequi.





La decadenza

29 06 2020

“Oh, è furbo, questo Disney! Lo ammetto dal profondo della mia misantropia. Fai piangere un coniglietto, rivela un cuore di pietà dietro il guscio di una tartaruga, inventati una buona azione per la vipera e pensieri gentili per l’ermellino, e hai in mano la chiave del cuore dell’uomo moderno. E Disney lo sa. Al cuore del suo segreto c’è un’espansione del mondo animale con una corrispondente deflazione di ogni valore umano. C’è un profondo cinismo alla radice del suo, come di tutto, il sentimentalismo.”

P.L. Travers

Tempo addietro lessi un articolo di filosofia morale bellissimo, dove per “bellissimo” si deve intendere “la Convenzione di Ginevra avrebbe dovuto vietare la scrittura di merda simile”, in cui si sostenevano le basi giuridiche secondo cui non dovremmo sperimentare sugli animali in generale e sui primati in particolare.
L’argomento, che nella sua perversione non faceva una grinza, era: poiché i primati non umani non hanno le facoltà mentali necessarie a esprimere consenso a procedure sperimentali, esattamente come bambini o persone con disabilità psichica, per i quali presupponiamo che non vi sia consenso, dovremmo presumere anche per loro che il consenso non ci sia.

Ovviamente si omette qui tutta una serie di dettagliucci su come i rapporti interspecie non siano assimilabili ai rapporti intraspecie… tuttavia, in un certo senso il discorso funziona.
Dal mio punto di vista, se abbiamo di fronte una specie diversa da quella umana che non è capace di dialogare con noi nei termini di consenso, dissenso e ragionamento morale, siamo autorizzati a dettare noi le regole morali di quel rapporto: è il vantaggio che ci viene dall’essere capaci di pensiero astratto ed etica.
Ma se noi pensiamo, invece, che non debba esserci alcun privilegio o vantaggio collegato al ragionamento morale e al pensiero astratto… allora, be’, ovvio: dobbiamo presumere il dissenso.
Questo però ha delle conseguenze interessanti quanto paradossali. Difatti viene fuori che io sono autorizzato a sperimentare sugli umani, anche in modo potenzialmente rischioso, a certe condizioni (il consenso su tutte)… mentre non posso sperimentare sugli animali a nessuna condizione.
Insomma l’animale è molto più tutelato dell’umano. Chi fa sperimentazione sugli animali in Italia sa che per certi aspetti è già così.

Il pensiero morale corrente, che però va un po’ a scemare come presa, sarebbe fondato sul concetto di equità: io ti tratto come mi aspetto di essere trattato. Diritti e responsabilità vanno di pari passo, e la famosa distinzione fra “agenti morali” e “pazienti morali” è nella sua struttura fondamentale completamente campata in aria: possono esistere soggetti che hanno tutele specifiche pur non avendo i corrispettivi doveri, ma il framework che va ad inquadrare il discorso morale è che diritti e doveri vadano in parallelo. I famosi “casi marginali” sono appunto casi marginali: effetti collaterali che non fanno la struttura del metodo del ragionamento morale.
C’è anche una ragione pratica per questo, ed è proprio quella espressa qui sopra: se essere “creature morali” significa avere tantissimi doveri e nessun diritto aggiuntivo, allora automaticamente essere “morale” mi porrà in svantaggio. Se io decidessi che nella mia vita mai e poi mai posso fare del male ad un animale per il mio tornaconto… be’, prima o poi un animale mangerà me, visto che lui non ha letto Peter Singer.
Mark Twain – vegetariano e animalista, non a caso – espresse questo concetto esplicitamente in The Mysterious Stranger, dove abbiamo uno sciocco prete che elogia il pensiero morale dell’uomo, mentre un angelo, di intelletto superiore e molto più sgamato, lo identifica subito per quello che è: una grandissima fregatura, un lose-lose totale, una cosa che ti pone al di sotto dei vermi, al di sotto delle piante, dei batteri, perfino al di sotto dei sassi. La capacità dell’uomo di pensare in senso morale è per l’uomo un disastro totale. Dopotutto, se l’uomo vuole sopravvivere deve autorizzare sé stesso a comportarsi peggio dei sassi e delle piante, deve concedersi la possibilità di sopraffare, di conquistare.

Ovviamente, la realtà storica-evolutiva è che la morale si è evoluta esattamente come un adattamento della specie, che proprio in quanto selezionatosi positivamente, dà un vantaggio evolutivo alla specie sopra le altre. Noi siamo costruiti per essere morali, come specie, ma questo perché la cosa ci dà dei vantaggi; se fosse solo una fregatura colossale non l’avremmo sviluppata.

La dottrina antropocentrica si è sviluppata innanzitutto per permettere all’uomo sopravvivenza & successo: se l’uomo non pensa prima a sé stesso, non lo aiuterà di certo nessun altro animale, né alcuna pianta o sasso. Il diritto umano di sopraffare l’animale equivale al diritto di Homo sapiens di esistere come specie e di portare avanti il proprio compito biologico. E più in generale, non viviamo in un mondo cruelty-free: anche all’interno della nostra specie si verificano i conflitti, e la capacità di prevalere, di sopraffare, è una dote essenziale, che dovrebbe stare sempre molto in alto nella scala dei valori. Per inciso, trattasi della dote peculiare del maschio: il corpo del maschio è un corpo fisicamente adatto a usare la forza per prevalere, e questa dote è stata a lungo premiata dalla civiltà.

Ovviamente c’è tutto un universo post-modernista coscienziosamente dedito a dimostrare l’indimostrabile: che che la natura umana sia infinitamente malleabile e interamente costrutto sociale, e dunque per esempio anche il nostro “mangiar carne”, il nostro gusto per la caccia, il piacere della lotta, l’istinto della gerarchia… cose che hanno fatto parte della specie umana da quando esiste, sono un costrutto sociale. Di certo c’è molto nella natura umana di costruito socialmente e storicamente… ma non TUTTO. Per quanto costoro possano sistematicamente accecare sé stessi a riguardo, l’uomo è, prima ancora che una creatura sociale e storica, un ente biologico inserito in un macrosistema biologico; ha da obbedire alle leggi della sua natura biologica. E la biologia reclama che per avere il successo biologico – che è sopravvivenza – occorre conquistarselo all’interno di un ambiente ostile. Da questa particolare dottrina, quella secondo la quale il cardine primo della nostra morale è che dobbiamo sopravvivere, è disceso tutto uno schema di valori “tradizionali” che, effettivamente, coerentemente con i j’accuse dei postmodernisti ha sempre piazzato il maschio bianco (più correttamente, il maschio della cultura cui ci si sta riferendo, che non è affatto sempre bianco), e io aggiungo il maschio bianco adulto, all’apice, e l’animale come fanalino di coda, con in mezzo donne, bambini ambosessi, disabili psichici, “razze inferiori” eccetera.

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Bello, eh? Peccato che, a destra, qualcuno dovrà spiegare alle meduse che non devono pungerci, ai topi che non devono infestare le nostre abitazioni, e in generale bisognerà convincere tutti quanti a spostarsi quando abbiamo bisogno di costruire una casa…

Al netto dei fraintendimenti sui fatti, sui quali ovviamente la nostra consapevolezza si evolve con la storia (come la convinzione che le donne non possano essere razionali, o i neri siano incapaci di una propria cultura), i valori più o meno sono rimasti sempre quelli e sono valori di sopravvivenza. Non è che sopravvivere oggi sia sostanzialmente diverso dal farlo nel 1200. Cambiano alcune strategie, la forza fisica non è più importante come un tempo (donde la parità dei sessi) ma il punto è sempre mangiare-crescere-riprodursi. In cima alla scala, nella stanza dei bottoni, ci sta quello che è più capace di conquistare la realtà, quello (ritenuto) più forte e più intelligente.
E fintanto che permanga l’idea che la nostra specie debba sopravvivere, questa cosa non può cambiare: dovrà sempre essere quello più forte e più intelligente a comandare, con tutti gli onori ed oneri connessi. E non intendo, ovviamente, che dovrà essere sempre il maschio bianco adulto in cima alla scala… ma sicuramente dovrà essere sempre quello che in quel momento è più forte, più intelligente e più atto a prendere le decisioni.

Ma il punto è che oggi è proprio quel principio che si debba sopravvivere, ad essere messo in questione.

La rivoluzione valoriale che si sta verificando in Occidente sta nella sovversione di quella scala che poneva il più forte e intelligente in cima. Teoricamente, il principio ispiratore di questo nuovo schema di valori sarebbe stabilire un nuovo schema gerarchico orientato alla parità (vedi immagine sopra). Ma, per cominciare, uno schema gerarchico orientato alla parità non esiste, c’è sempre un primus inter pares. Secondo: demolendo sistematicamente e senza pietà tutti quei valori che hanno posto originariamente il maschio bianco adulto nella sua posizione privilegiata, non si ottiene certo la parità, bensì un’inversione.
Il maschio bianco si era preso onori ed oneri. Non gliel’aveva chiesto nessuno? Forse, ma resta il fatto che se adesso gli togli tutti gli onori e gli lasci solo gli oneri allora vuol dire che lo vuoi semplicemente annientare. Nessuna creatura che abbia tutti gli obblighi morali e nessuno dei diritti morali può sopravvivere, perché tutti ne prenderanno e nessuno gli darà.
Nella schema dei valori che sta prendendo piede oggi la scala e sovvertita, ma ovviamente non è scomparsa. Prima il maschio bianco adulto era in cima e l’animale fanalino di coda; adesso l’animale sta in cima: sacro, innocente, puro, intoccabile, anche quando ti sbrana – dopotutto, non ha quella gran sòla del senso morale, è “innocente”, quindi può fare il cazzo che vuole. Seguono i bambini, che essendo meno intelligenti e razionali ovviamente sono la massima espressione dell’umano – e peccato che debbano crescere e corrompersi, ma per fortuna ci vuole tantissimo e infatti s’è deciso che si può restare bambini un po’ quanto si vuole, pure fino a 18 anni: più si resta innocenti, meglio è. Poi arrivano alcune tribù isolazioniste piazzate ai quattro angoli del globo (innocenti e puri anche loro, pure se ti squartano vivo, perché anche loro non hanno quella gran sòla del senso morale occidentale), molto più giù iniziano ad arrivare le “minoranze oppresse”, che non sono più addossate del gravoso compito di dimostrare che meritano di stare in cima alla scala, ovvero dimostrare forza ed intelligenza, bensì si trovano piazzate tanto più in alto quanto meno forza ed intelligenza si sforzino di dimostrare.
Non è cambiato il posizionamento dei soggetti lungo la scala… o meglio, sì, è cambiato anche quello, e questo sarebbe anche positivo – le donne e le “razze inferiori” avrebbero chiaramente salito dei gradini. Ma il punto è che è cambiato anche com’è fatta la scala. Non si chiede più alle donne o agli africani di salire il gradino e entrare nella stanza dei bottoni (anche perché hanno già dimostrato di saperlo fare), si demanda piuttosto l’inversione totale del quadro di valori. Ma chi cazzo vorrà più prendersela la sòla si fare quello “col senso morale”, lo sfigato che ha doveri verso tutti, se non può prendersene anche qualche vantaggio? Vorrei notare che essere “morali” richiede un notevole sforzo; il premio è stare in cima alla scala. Ma se la ricompensa invece consiste nel finire più in basso di tutti, al punto che la tua vita diventa più sacrificabile di quella di un animale… Perché mai dovremmo farlo? Molto più semplice fare l’animale, o il selvaggio, o qualunque altra cosa… l’innocente: tutti i diritti, zero obblighi. Quindi parte la gara a chi arriva ultimo: a chi è più debole e stupido. Perché alla fine essere “innocente” significa solo mancare di comprensione, di intelligenza, di esperienza. Questo è ciò che stiamo glorificando.

La rilettura della storia occidentale cui stiamo assistendo è un passo di questo processo nichilistico. A seguito della riscrittura dei valori, ogni conquista storica viene necessariamente trasformata in una vergogna per cui cospargersi il capo di cenere, in quanto ogni conquista storica, per dirla con Nietzsche, come ogni cosa grande sulla Terra è stata bagnata lungamente e in profondità nel sangue. Dopotutto, le conquiste sono tutte, appunto, conquiste, il frutto dell’atto del conquistare. La tecnologia ci permette di stare meglio che in passato, ma sempre al prezzo di inquinare e consumare risorse, quindi il nostro benessere tecnologico è nettamente “rubato” ad altre specie, quando non direttamente ad altri popoli. Il divieto a celebrare i nostri atti di sopraffazione, o anche solo semplicemente accettarli senza celebrarli, con esso l’annesso obbligo di rinnegarli tutti e sputarci sopra, diventa divieto di essere orgogliosi delle nostre conquiste e obbligo anzi di rinnegarle e sputarvi sopra.

La mia previsione è che siamo solo all’inizio di questo processo, e non mi sforzerò di inventare nomi eccentrici per definirlo, visto che si chiama “decadenza”. Nietzsche ne aveva già intuiti i capisaldi, ma si fece prendere dalla sua foga irrazionalista, finendo di fatto anche lui nella glorificazione della natura animale sulle caratteristiche propriamente umane. Ma suppongo almeno lui sapesse che gli animali sono generalmente feroci, e che lo stato di “innocenza” altro non è che uno stato ferale, di ferocia; la nostra generazione invece è educata da Disney, lei non lo sa: vede nell’animalità una dimensione di purezza infantile di gran lunga preferibile ai tormenti dell’età adulta, con quel suo scomodissimo “senso morale”, con obblighi che diventano sempre più numerosi e privilegi che tendono sempre più allo zero.

La domanda interessante è dove e quando questo processo si fermerà. In generale l’elemento che frena la decadenza è l’istinto vitale, il bisogno di sopravvivere, che è bisogno di sopraffare. Probabilmente si fermerà nel momento in cui sarà messa in questione la nostra sopravvivenza.

Ossequi





Per comprendere.

22 06 2020

L’atto del “giudicare” e quello del “comprendere” sono sempre separati e, oserei direi, incompatibili. Lo psicoterapeuta che ascolta le tue confessioni si astiene dal giudicare, per quanto può, perché ciò gli precluderebbe di capire. L’antropologo che studia i costumi di una piccola tribù del Sudamerica probabilmente giudicherebbe quei culti animistici delle stupide superstizioni, ma se lo facesse si precluderebbe di capire quei culti.

Il problema è il libero arbitrio: quando tu sei dentro una situazione la tua prospettiva limitata ti porta ad esercitare la scelta ed il giudizio. È vero, sei soggetto al principio di causa ed effetto, tecnicamente non hai scelta alcuna… ma come un pupazzo mosso dai fili, non puoi certo pretendere di vedere i fili, non puoi vedere le cause del tuo stesso comportamento ed oltrepassarle: puoi soltanto continuare lo spettacolo facendo “come se” i fili non esistessero. Ed è qui che si esercita l’atto del giudizio.

D’altro canto, nel momento in cui tu sia “fuori” dallo spettacolo, comodamente seduto in platea, allora puoi anche vedere i fili… be’, ovviamente, non i tuoi fili, quelli non puoi mai vederli, ma i fili degli altri sì. Inizi a comprendere come funziona quel fenomeno. Ma questo comprendere ti preclude il giudizio, perché da un lato lo rende inutile agli atti pratici – non sei parte dello spettacolo, non puoi intervenire, e a che serve dare giudizi se essi non possono orientare l’azione? – ma dall’altro, in effetti, lo rende anche futile in senso intellettuale: se vedi i fili, allora sai anche che nessuno di quei pupazzi si muove di propria volontà, sono solo marionette. Non vedrai dipanarsi dinanzi a te una serie di scelte e comportamenti da giudicare, ma solo una serie di cause e di effetti da analizzare.

In un certo senso la dimensione della scelta rappresenta un “buco” nella nostra comprensione dei sistemi di causa ed effetto. Quando non riusciamo a spiegare un fenomeno sociale nei termini dei suoi determinanti storici, allora facciamo intervenire il fattore imponderabile: la “scelta”, la spontanea deliberazione dell’individuo. E non è certo sbagliato tout-court parlare di scelta e di responsabilità in questi casi. In effetti, non è mai sbagliato a priori farlo… ma il problema è che giudizio morale e comprensione scientifica di un fenomeno sono mutualmente esclusivi: quanto più interviene l’uno, tanto più si ritira l’altra. Se si vuole farli entrambi si può tentare solo in momenti distinti, ma mai andrebbero mescolati o sovrapposti. Se introduci giudizio morale, allora hai rinunciato alla comprensione scientifica. Non a caso Nietzsche, uno dei più accesi critici del concetto di libero arbitrio, sottolineò come il fine stesso del concetto di libero arbitrio sia permettere di giudicare e punire, due atti che non hanno senso nel momento in cui esso invece sia stato superato.

Ora, il corrente discorso sul giudizio storico su alcune figure (o più che altro sui simboli ad esse associate, che di storico hanno ben poco, e mi riferisco ovviamente al dibattito sui monumenti di ‘razzisti’ che si vuole abbattere) è nato, non a caso, in un paese che di storia praticamente non ne ha – gli USA – e dove tutti vorrebbero essere al tempo stesso attori – pupazzi – sul palcoscenico storico (coinvolti ed attivi) e anche spettatori (superiori, neutrali, dotati di superiore coscienza). Che ovviamente non si può fare, perché il fulcro del ragionamento storico è che tu ad un certo punto raggiunga un livello di estraneità ai fatti e di completezza delle conoscenze tale che il giudizio morale diventa superfluo, inappropriato. Quando vedi la statua dello schiavista non dovresti più vedere una persona che ha fatto delle scelte immorali, o almeno: quell’aspetto dovrebbe diventare del tutto secondario. Dovresti invece vedere innanzitutto un prodotto di quel periodo storico. Giudicarlo non ha più senso, perché ormai sei in una posizione in cui comprendi il fenomeno storico dello schiavismo. Comprendere vs. giudicare.

Mi piace fare l’esempio di Hegel, perché lo odio (lo giudico male). Ecco cosa scriveva sugli africani:

Nella sua unità indistinta, compressa, l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra sé stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all’esistenza individuale. Come già abbiamo detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità. Le relazioni circostanziate dei missionari confermano in pieno la nostra asserzione e sembra che solo il maomettismo sia ancora capace di avvicinare in qualche modo i negri alla cultura.

Be’, molto razzista. Ma veramente tanto. Tuttavia, per quanto io odi Hegel… era davvero una persona così cattiva? Sicuramente c’era gente meno razzista di lui, in giro, ma probabilmente non erano in molti. Hegel avvalora ciò che dice sulla base dei resoconti che riceve dai missionari, i quali a propria volta filtrano le proprie esperienze attraverso la propria cultura e i propri valori, ed evidentemente in quella fase storica vi era in Germania una certa idea ben precisa di cosa fosse la cultura, e di cosa fosse il senso di ‘umanità’. Chiedere ad Hegel di ergersi titanico sopra questa cultura in cui è nato e cresciuto è una grossa, grossa pretesa. Sì, Hegel era razzista… ma probabilmente non aveva tutte queste alternative.

Dunque, dobbiamo perdonarlo? Il passare del tempo forse scagiona, o assolve gli uomini del proprio tempo? Magari no, ma sicuramente fa intervenire la prescrizione: se dichiari dall’alto della tua coscienza sociale (e storica, e qui in USA arrivano le note dolenti) che sei superiore ad una certa epoca passata, allora devi anche astenerti dal giudizio morale; o quanto meno riuscire a tenere separato il momento del giudizio da quello della comprensione. Non dovrebbe importarmi più di tanto dare di razzista ad Hegel, dovrebbe importarmi comprendere come il razzismo di Hegel sia venuto in essere, come quell’epoca storica avesse sviluppato quel fenomeno. In ogni caso, mai e poi mai si può condannare un uomo del passato senza tener conto di come e dove è cresciuto; sarebbe risibile come fare il processo ad una marionetta: se proprio proprio, guardiamo al manovratore.

E infatti qui si arriva alla deriva più temuta: condannare un uomo senza tener conto del contesto storico che l’ha prodotto è stupido quanto processare una marionetta. Ma si può pensare, certo, di condannare il marionettista… ovvero un’intera epoca storica.

Questo è fattibile. Non ha senso che degli americani di oggi si imbarazzino e si sentano coinvolti quando qualcuno gli rivela che fra i loro antenati c’erano degli schiavisti. E lo fanno, perché gli americani hanno una cultura fortemente antistorica e non riescono a guardare al proprio passato con lo sguardo neutro di chi comprende: devono per forza giudicare.

Però ha senso dire che quell’epoca “è stata brutta” in senso morale. Diciamo che il XIX secolo è stata ‘un’epoca brutta’, perché c’era lo schiavismo, il colonialismo eccetera. Questo è senz’altro meno demenziale che prendere un singolo individuo nato e cresciuto nel XIX secolo e dire che era ‘razzista’. Parlare di un’epoca razzista ha più senso: erano tutti razzisti, e dunque tutti persone di merda.

E tuttavia le conseguenze filosofiche di questo approccio sono allarmanti a dir poco, perché un’epoca non ha inizio o fine, e tutte le epoche sono collegate fra di loro, in tal modo che se ne condanni una sarai costretto a condannarle tutte. Se condanni l’800 devi condannare anche il ‘600, ma ovviamente se condanni tutto il ‘600 o tutto l’800 devi condannare anche tutto il sistema di scambi commerciali le navigazioni, le scoperte, le spedizioni per mappare zone del globo inesplorate, la creazione di nuovi canali di comunicazione, nuove tecnologie, nuovi modi di alimentarsi. E dovrai andare anche più indietro, dovrai condannare la scoperta dell’America… e la corona Spagnola, ma anche quella Inglese…. spoiler: questa catena non avrà mai fine. Tutto il nostro mondo si trasformerà ai nostri occhi in ‘un’unica massa dannata’, come diceva Sant’Agostino. Niente di buono è mai stato fatto, perfino lo stesso ideale del progresso sarà falsificato, perché il progresso è un accadimento storico che deve tenere memoria dei passaggi che lo costituiscono, e qui sono tutti rinnegati come ‘errori’.

La Storia sarà allora diventata soltanto un lunghissimo elenco di mostruosità ed errori, una cosa da cancellare e dimenticare il prima possibile, o quanto meno da passare periodicamente in lavanderia per smacchiarla.

Ma questo significa che la Storia come disciplina non avrà più ragion di esistere. Che ciò non preoccupi nessuno è fattore preoccupante in sé.

Ossequi.





Gualtiero Cannarsi e il letteralismo biblico

14 05 2020

 

Che strana accoppiata nel titolo, eh? Che cosa c’entra Gualtiero Cannarsi, colpevole solo di essere il peggior traduttore (adattatore? Boh) di tutta la storia dell’umanità, con quella corrente del protestantesimo che predica il libero esame del testo biblico, ma solo interpretato in maniera letterale?

Gualtiero Cannarsi - Wikipedia

la tua sensualità non ti proteggerà dalle mie critiche!

Per cominciare, hanno in comune che entrambi si fanno portatori della filosofia del linguaggio più scadente che sia possibile concepire. Entrambi ti forzano addosso questa loro filosofia del linguaggio con tutti gli strumenti che possiedono, facendo in modo che sia difficile o impossibile ignorarli. Entrambi sono convinti che la loro via sia quella giusta, così tanto che se a te non piace sei in torto tu, e comunque t’attacchi al cazzo. Entrambi sono simpatici quanto una medusa nei boxer. Ed entrambi sembra che ci toccherà sorbirceli ancora a lungo. Ma soprattutto: nessuno dei due si rende conto di star adottando una specifica, e piuttosto ardita, filosofia del linguaggio, e di startela forzando addosso: entrambi dicono “io non c’entro niente, è il testo che dice questo, sono gli altri che lo travisano…”.

Ma stiamo su Cannarsi, per il momento. Come lavora, esattamente, Cannarsi? Mi direte tutti: “col culo”, e io dirò, sì, certo, lavora male. Dal punto di vista dell’etica professionale siamo sul livello del chirurgo pazzo di Human Centipede. Ma intendo, che principi ispirano il suo lavoro?

Secondo me ci sono due citazioni che ci fanno capire come (s)ragiona Cannarsi.

La prima è quando giustificò l’incomprensibilità delle sue traduzioni con “è pur sempre una lingua straniera” (perdonatemi, non riesco a trovare la fonte, ma mi rimase impresso).

What's your “Low-code face”? - Dominique Fish - Medium

Ehm… No! Il Giapponese è una lingua straniera. La traduzione in Italiano non è più una lingua straniera, è lingua Italiana. E tu sei pagato per tradurre in Italiano, e quindi devi scrivere un bell’Italiano. Se avevo voglia di spremermi le meningi per decifrare un idioma incomprensibile facevo un corso di Giapponese. Invece pago te perché tu traduca. È il tuo lavoro. Pare un pasticcere che, dopo avergli ordinato una meringata alle fragole, ti porti a tavola dei bianchi d’uovo, dello zucchero e delle fragole e ti dica “eh, mica è un piatto facile da fare, ci vuole un po’ di sforzo”… Non fosse che tu sei pagato esattamente per evitarmi lo sforzo.

Ma il passaggio seguente è molto più illuminante:

«[…] credo che la sensazione che i miei adattamenti siano “riconoscibili” derivi dal fatto che spesso altri adattamenti cinetelevisivi di opere straniere sono banalmente “italianizzati”, e non mostrano quindi la loro prima, comune radice culturale di provenienza. […] questa riconoscibilità non è dovuta a un mio stile personale che sovrappongo alle opere altrui e straniere, no, tutto il contrario».

Wow. È così tanto sbagliata questa cosa. Non si sa dove iniziare. E allora, inizierò da lontanissimo. Dagli anni duemila, in cui un giovane Alberto, appena affacciatosi ad internet, frequentava un gruppo di amici in MySpace coi quali intavolava dibattiti, principalmente sul tema della religione.

In quel gruppo vi erano tre fazioni in costante battibecco: atei, integralisti cattolici, e i peggiori di tutti, gli integralisti evangelici. Questi ultimi fornivano un campionario di stupidate che a ripensarci ancora mi viene da tirarmi via i capelli… Comunque, questi ultimi erano letteralisti biblici, ovvero convinti letteralmente dell’infallibilità della Bibbia. Quello che c’è scritto nella Bibbia era tutto vero, punto, e alla lettera. Tutto. Sì, anche le cose palesemente non vere. Per loro non c’era nulla di interpretato, figurativo, allegorico… nono, tutto esattamente com’è scritto. Dice che le cavallette hanno quattro zampe? Sì, hanno quattro zampe. Dice che il mondo ha seimila anni? Ita est.

Il problema, però, è che se vi andate a leggere qualsiasi traduzione della Bibbia, vi troverete cose ovviamente non vere. Come conciliare questo con l’infallibilità?

E qui ci viene in soccorso il professor Valla, noto al web come “il professor Testoh” perché nei suoi video spiegava che nessun errore della Bibbia era in realtà un errore, e lo faceva richiamandosi continuamente al TESTO originale e giustificando gli errori come semplici problemi di traduzione.

Questo trucchetto non funzionava sempre, perché alcune cose che la Bibbia dice o che se ne ricavano, tipo l’età della Terra, o alcuni resoconti storici, sono completamente campati in aria e non si possono giustificare con giochetti filologici. Ma in certi casi in un certo senso la cosa funzionava… In un certo senso. Per esempio: una volta io feci notare che la Bibbia chiama le lepri “ruminanti”, ma le lepri non sono ruminanti. Una delle mie conoscenze evangeliche mi sfidò letteralmente a porre questo problema direttamente a Valla. Non mi conosceva abbastanza e aveva evidentemente scambiato il fatto che io sia un po’ timido e sulle mie con un timore del confronto. Ma se mi sfidi non mi tiro indietro… e allora ho scritto la cosa a Valla. E indovinate: niente paura, aveva la soluzione! Il termine originale, credo ebraico, per “ruminare” voleva dire semplicemente “riportare su” il cibo; e le lepri effettivamente rimangiano le proprie feci per digerirle di nuovo, quindi “riportano su” il cibo.

Meraviglioso. Ok, non c’è dubbio: il redattore del testo sicuramente intendeva quello, e non che le lepri fossero mucche. Un punto per il professor Testo, qua: il TESTO originale non commetteva un errore così grossolano.

Ma c’è un piccino piccino sebbene cruciale dettaglino: il testo originale è scritto in ebraico antico. Non c’è tutta ‘sta gente in giro che sappia l’ebraico. Quindi il professore ritiene che il TESTO sia perfetto, e ammettiamolo pure… ma praticamente nessuno può avere accesso a quella perfezione, perché nessuno lo capisce, quel testo. A noi poveracci plebei che non abbiamo dedicato la vita a studiare Ebraico, Greco ed Aramaico, la perfezione del testo è irrimediabilmente preclusa. Siamo costretti ad affidarci alle traduzioni, e le traduzioni, a occhio e croce, possono arrivare perfino a confondere le lepri con le mucche.

Questo è un problema ovvio: la Bibbia contiene un messaggio che deve appartenere a tutti. Eppure, mi si dice qui, appartiene invece solo ad una ristrettissima minoranza che capisce di lingue antiche. Gli altri? S’attaccano al cazzo.

Certo, si potrebbe sostenere che la verità della Bibbia non sia letterale, e allora questo problema non esiste più. Se non è letterale, allora non ci frega niente se son lepri o conigli o mucche, si mangiano la cacca o le unghie o le lumache à la bourguignonne, perché non è quello il punto. Ma se è letterale, allora la traduzione diventa un problema, un problema grave. Perché la traduzione interpone un filtro fra me e il testo, e quel filtro, dice il professor Valla, è un filtro che deteriora, che inquina, che corrompe, che ci nasconde l’aurea perfezione dell’originale. Il testo originale è perfetto, la traduzione invece è inaffidabile.

La venerazione dei letteralisti per il testo originale presuppone che vi sia in esso un ineffabile qualcosa, che sta nella sequenza stessa dei grafemi e dei fonemi, e che va al di là della nozione di significato. Il testo vive di vita proprio, non è un semplice schema di senso. C’è qualcos’altro.

Ora, ci sono due approcci filosofici sensati e coerenti ad un testo sacro:

Il primo è quello non-letteralista, che allora dirà che il punto non è tanto quello che c’è scritto alla lettera, con che parole esatte è scritto, in che ordine sono messe le parole; quanto il modo in cui esso in ogni epoca, in ogni luogo, in ogni contesto culturale riesce a parlare con le persone, ad interfacciarsi con loro. Costoro cercheranno di tradurre il testo nel modo migliore possibile cercando di renderlo decrittabile dalla lingua/cultura di arrivo, e senza fissarsi troppo su lepri e mucche e quanta cacca mangino a colazione.

Il secondo è quello letteralista stretto, usato dai musulmani. Il testo è perfetto è puro nella sua lingua originale, vi è in esso qualcosa, nella sua composizione specifica, nella sua sonorità, che è quasi magico. Se è così, non si può tradurlo, non si deve tradurlo. I musulmani, come i letteralisti biblici, credono nella perfezione del Corano, ma sono più coerenti e lo ritengono dunque anche intraducibile: esso è stato dettato da Dio in quel modo, con quelle parole, messe in quell’ordine, con quella sintassi; non puoi tradurlo, lo stai già “sporcando” nel tradurlo. Discutibile, ma almeno questi non fanno danni.

Questi sono i due approcci sensati, ho detto. Ma poi ci sono quelli non sensati, per esempio quello dei letteralisti cristiani: dire che il testo originale è perfetto e infallibile, eppure noi dobbiamo accontentarci lo stesso di una traduzione e far finta che sia infallibile pure quella, nonostante chiaramente non lo sia. Io non lo conosco l’Ebraico, dunque mi si chiede di aver fede non tanto nella Bibbia, che è perfetta, ma nella traduzione di Valla. Be’, magari posso credere nella Bibbia ma non voler affidare la mia vita a Valla, eh?

Non penso sia un problema tornare a Cannarsi, ora, vero? La connessione mi pare chiara: Cannarsi è chiaramente un letteralista cristiano applicato agli anime (sono orgoglioso di essere riuscito a mettere tanto disagggio in una sola frase). Egli è religiosamente convinto che nella lingua Giapponese vi sia di più che uno schema di significato, un rimando delle parole alle cose e delle parole ad altre parole. Nel testo giapponese vi è, sembra credere, il Giappone stesso. L’anime è giapponese, e tradurlo in Italiano è già di suo una porcheria, una cosa zozza, vergognosa, sacrilega. “Italianizzare”… BLEAH! CACCHI CACCHIIII SCHIFOOO!

Il primo problema in ciò è che, esattamente come Valla, ha torto proprio nel suo approccio. Nel senso, ogni lingua è espressione di una cultura, per cui l’atto della traduzione naturalmente altera, come dice il poeta vate, “la loro prima, comune radice culturale di provenienza”. Ma qualsiasi testo deve passare attraverso un passo intermedio interpretativo; l’atto stesso del leggere è un atto interpretativo. Se io imparassi il Giapponese, così da poter finalmente essere iniziato alla sapienza segreta degli anime dello Studio Ghibli, non sarei mica per questo diventato giapponese: sarei comunque solo un italiano che ha imparato il Giapponese, come Cannarsi; e come Cannarsi anche io, leggendo il testo originale, andrei a sovrapporre ad esso le mie categorie culturali ed anche personali, che sono quelle di un italiano. E d’altro canto, non sono forse questo, gli adattamenti di Cannarsi, ovvero una lingua inventata da Cannarsi? Quello non è una resa fedele del Giapponese, ovvero “il modo in cui suona il Giapponese ad un giapponese”, ma semplicemente “il modo in cui suona il Giapponese ad un italiano”: strambo, alieno, contorto, a tratti semplicemente sbagliato. A meno di pensare che il Giapponese sia una lingua innatamente aliena, stramba, contorta e perfino sbagliata, quello che ci sta passando non è “il Giapponese”, bensì “il Giapponese come appare a Cannarsi”… ovvero come appare ad un Italiano che, ad occhio e croce, avrebbe voluto nascere giapponese, e allora cerca di imitare i giapponesi, ovviamente fallendo e sembrando ancora più provinciale.

Non sorprende che nel mondo di Valla e Cannarsi i soggetti che vengono dipinti come più mostruosi siano i traduttori. Il loro ruolo è esattamente quello di rendere un testo proveniente da un’altra cultura ed espresso in un’altra lingua decrittabile dall’italiano contemporaneo. Il lavoro del traduttore è fondamentale, perché prende un testo inaccessibile a molti e lo rende accessibile. Eppure, nel mondo di Valla e Cannarsi, i traduttori paiono una setta segreta, una cricca di criminali ed imbroglioni senza scrupoli dediti all’offuscamento della Verità e alla corruzione del testo.  Dietro traduzioni in Italiano italianizzate (ragazzi, scoop del giorno: le traduzioni in Italiano sono italianizzate; PLOT TWIST) il satanico traduttore obnubila la perfezione dell’originale. D’altro canto, se il testo è perfetto solo nell’originale, e ogni traduzione è una corruzione, bisogna tradurre il meno possibile.

Questo è un problema naturale che sorge laddove si affermi che il “testo puro” è quello perfetto cui dobbiamo riferirci: che non esiste un “testo puro”, il testo viene filtrato all’atto stesso dell’intendere. Intendere vuol dire interpretare; Valla e Cannarsi non interpretano meno degli altri, non sono semplici messaggeri investiti dal testo, dei fili conduttori vuoti: sono filtri, contenitori che danno forma al contenuto. Perché nel testo originale potrà pure essere contenuto il Giappone stesso (e non è così), ma alla fine passa sempre attraverso gli occhi e il cervello degli italiani, che lo leggeranno come lo legge un Italiano. E non può essere altrimenti, perché c’è sempre un medium fra l’intento autoriale e la ricezione del pubblico, essa non è mai “pura”.

Certo, anche i musulmani credono che il testo puro sia perfetto, ma almeno loro ci mettono in gioco il prodigioso, il magico: il Corano è perfetto perché c’è qualcosa di miracoloso in esso che lo rende perfetto solo nella sua lingua originale. Nell’atto di leggerlo, in quella esatta sequenza di suoni, come fosse una formula magica il miracolo si produce e ri-produce. Ma che miracolo si produce nel testo Giapponese di Evangelion? Non credo che sia stato dettato direttamente dal labbro di Allah per essere trasmesso inadulterato.

Ed è qui infatti che la filosofia di Cannarsi si rivela non solo sbagliata, ma anche profondamente incoerente. Perché se davvero Cannarsi ritenesse che il modo esatto in cui la lingua Giapponese compone i dialoghi conferisca ad essi qualche ineffabile proprietà, fino a contenere il Giappone stesso, allora non dovrebbe tradurre affatto. Tradurlo è già averlo inquinato. Dopotutto, tradurre dal Giapponese all’Italiano che cos’è, se non una *GASP* italianizzazione del Giapponese? Non andrebbe fatta. Perché il problema è che puoi anche pensare che tradurre il Giapponese in un Italiano comprensibile, ovvero adattare, non sia possibile, ma l’atto di produrre un adattamento presuppone quella possibilità. Se non ci credi, se pensi che adattare possa produrre soltanto quelle assurde porcate, allora non c’è ragione che tu lo faccia. Speriamo davvero che Gualtiero si renda conto di quanto sacrilego è l’atto che sta compiendo cercando di rendere il Giapponese in Italiano, e decida di fare qualcos’altro nella vita, e si intende, letteralmente qualunque altra cosa (lo vedrei bene a tradurre Bibbie, nessuno ci capirebbe più un cazzo e sarebbe la fine dell’integralismo religioso in Italia).

Ma purtroppo qui c’è un problema ulteriore, e cioè che Cannarsi, come i letteralisti, non sembra rendersi conto di cosa sta facendo, e il suo modo di presentare con nonchalance il suo operato, come se fosse un approccio naturale all’adattamento di opere straniere, rivela un’insipienza filosofica da far rivoltare Eco nella tomba. Cannarsi è un credente, convinto che esista un “testo puro”, un inadulterato qualcosa nascosto fra gli ideogrammi. E lui, lui ha avuto accesso a quel segreto qualcosa. Lui solo è stato illuminato e deve “condurlo” a te… Peraltro non si sa perché proprio lui dovrebbe essere l’illuminato, visto che non è neanche giapponese. Il filtro che egli pone fra gli utenti e l’originale è pesantissimo (e perciò riconoscibile), ma lui non lo vede; non capisce che egli non è affatto invisibile, che nessun traduttore è invisibile e che lui lo è meno ancora. Cannarsi si vede perché ci si è messo tutto, lì dentro, in modo quasi impudico, perché nelle sue traduzione si mette completamente a nudo. Non si rende conto che il suo tentativo di essere invisibile in realtà non fa altro che sottolineare maniacalmente, ossessivamente il suo modo di essere e di pensare. Come sono le sue traduzioni? Ossessive. Puntigliose. Elitiste. Ampollose. Ottuse. Si credono raffinate ed intellettuali quando sono solo ridicole. E le sue traduzioni sono le sue e ci parlano di lui, come le mie traduzioni sono le mie e parlano di me, come le traduzioni di chiunque sono le sue traduzioni e parlano di lui/lei. Ma dalle mie traduzioni, ve lo assicuro, capireste molto di meno su di me, di quanto quelle di Cannarsi ci raccontano di lui.

La mia tesi è che Cannarsi tutto ciò non lo capisca, e che quindi sia in difetto di acume, e non di buona fede. Beninteso, potrebbero mancargli entrambi, o solo la buona fede. È senz’altro possibile che lui in realtà sappia benissimo cosa sta facendo, ovvero che sappia benissimo che le sue traduzioni sono pagliaccesche e impossibili da fruire, ma che lui le usi lo stesso proprio perché vuol portare avanti un punto filosofico: che le lingue siano intraducibili (forse tutte, forse solo il Giapponese perché è quello che piace a lui), e che tradurle sia peccaminoso. E allora crea delle traduzioni volontariamente inutilizzabili per portare avanti questa teoria.

Ciò farebbe di lui un Marcel Duchamp che fa i baffi alla Gioconda, un ardito artista dada che profana l’arte per fare altra arte (sia pur con la differenza che Duchamp non ha davvero rovinato la Gioconda, mentre Cannarsi rovina davvero le opere che adatta).

Sarà forse, Cannarsi, un simile genio?

Ascolto un rigo di dialogo tradotto da lui.

“Papà, che stanotte si va a prendere in prestito era promesso, eh!”

No. Decisamente no.

 

 

Ossequi.





Trans-età?

5 05 2019

Provocazione bipartisan: se è possibile essere transessuali, è possibile essere trans-età? Cioè, è possibile chiedere e ottenere di cambiare l’età che c’è sui documenti, riallineandola a dati differenti rispetto alla semplice data di nascita?
Un tema del genere suona come una reductio ad absurdum contro le istanze della comunità trans, e dunque può essere fastidioso affrontarlo in quell’area. D’altro canto, proporre una cosa del genere in tutta serietà è sicuramente in grado di triggerare, invece, i conservatori. Forse che riusciamo nell’impresa di scontentarli tutti? Senz’altro si può tentare.

In realtà questo discorso potrebbe invece essere un ottimo esercizio di riconciliazione, utile a capire i punti di vista dell’una e dell’altra parte sul tema. E, sì, c’è bisogno di “riconciliazione”; non nel senso di riappacificazione o di compromesso, beninteso, ma di comprensione reciproca: è importante capire il punto di vista degli altri anche laddove non concordiamo con esso, e perfino quando lo riteniamo illegittimo.
Dunque, andiamo avanti con la provocazione e riflettiamoci un secondo: che cos’è l'”età”?
Strettamente definita, è la differenza fra la data di oggi, generalmente arrotondata all’anno, e la nostra data di nascita.
Se la definiamo così strettamente, e attenzione, è del tutto sensato definirla così strettamente (dopotutto, questa è una cosa che i conservatori tendono a non recepire, le definizioni sono solo una convenzione e sono la cosa più semplice da modificare se uno vuole), è del tutto impossibile sostenere che qualcuno possa chiedere di farsene assegnare una differente da quella vera, perché è un semplice dato di fatto.
Ma, come accennavo, non siamo costretti a definirla così strettamente, anche se sembra proprio un percorso obbligato farlo. Quando infatti pensiamo a che cos’è l’età nella nostra vita di tutti i giorni, come ci contraddistingue, in che forme ci identifica e concretamente influisce sulla nostra vita, la data di nascita in sé non dice molto. Voi forse sapete quanti anni ho? E diciamolo: vi serve tanto, saperlo?
Di certo usiamo l’età per dedurre tante cose di una persona… Ma la maggior parte di esse non sono affatto legate all’età nel senso oggettivo di -differenza di date-. La usiamo piuttosto per dedurre altre cose. Per esempio, sulla base dell’età cerchiamo di dedurre lo stato di salute di una persona, la sua maturità intellettuale, la sua maturità emotiva, la sua esperienza di vita, e in mancanza di riscontri fisici anche la sua avvenenza fisica.
Il legame fra tutte queste cose e l’età esiste, ma non è affatto così stretto. Abbiamo cinquantenni idioti, che non hanno mai letto un libro in vita propria e magari sono ubriaconi perenni, e diciottenni colti, responsabili, idealmente pronti a mettere su famiglia. Così come settantenni che hanno ancora almeno una quindicina d’anni davanti a sé e trentenni obesi patologici che potrebbero averne di meno.
Certo, ci sono dei limiti a tutto ciò. Una bambina di nove anni non può essere fertile e matura per un matrimonio. Una novantenne non può avviare un mutuo ventennale o partorire un figlio (al netto di Guinness dei primati). Non stiamo dicendo, dunque, che il tempo trascorso su questa terra, dato oggettivo, sia privo di influenza. Come ovviamente non lo è il sesso biologico di un individuo; una donna trans può fare la vaginoplastica e può crescerle il seno, ma partorire non può di sicuro. Quello specifico dato biologico influisce sulle nostre vite in maniera inevitabile, non può essere cancellato, e in realtà generalmente nessuno vuole cancellarlo. Quello che sto dicendo è, però, che l’età non influisce così tanto, di per sé. Più spesso è un proxy attraverso il quale cerchiamo di indovinare, spesso fallendo, informazioni veramente rilevanti sull’altro.

Ora prendiamo un individuo che magari ha sessant’anni, ma ha sempre praticato sport e condotto una vita molto sana ed è stato baciato dalla genetica, per cui di fatto è come se ne avesse una quindicina di meno ed ha anche un’aspettativa di vita sopra la media. Sarebbe davvero così insensato se volesse essere trattato come un quarantacinquenne? E mettiamo che un trentacinquenne appena entrato, piuttosto tardivamente, nel mercato del lavoro, debba questo “ritardo” a problemi oggettivi, come disturbi seri di salute o roba simile, ma di fatto abbia tutta la tempra e la voglia di fare uno con dieci anni di meno. Sarebbe assurda da parte sua la richiesta di essere trattato come un venticinquenne?
La risposta ovviamente è no. Sono richieste sensate. Così sensate che il più delle volte è naturale accontentarli, in questi casi, e possiamo perfino scordarci quale sia la loro data di nascita. Sui siti d’incontri a cui sono iscritto io mi tolgo sempre due o tre anni, posso permettermelo e dirò la verità: non mi sento particolarmente bugiardo o truffaldino nel farlo; potrei benissimo avere tre anni di meno a guardarmi… ma magari anche di più, eh. Sono un trans-età!

Se seguiamo il ragionamento in tutta onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che l’età “vera”, ovvero la data di nascita, tutta questa importanza non ce l’ha nella vita di tutti i giorni e spesso noi stessi ci comportiamo tutti come dei trans-età, volendo essere visti e trattati sulla base dell’età che ci sentiamo e mostriamo, piuttosto che sulla base di un numerino del cazzo che sta sulla carta d’identità; non solo, spesso facciamo anche operazioni chirurgiche e trattamenti farmacologici per adattare il nostro corpo all’età che sentiamo di meritare.
Essere “trans-età” è possibile e sensato esattamente quanto lo è essere transessuali. La differenza è solo che nessuno sarebbe disposto a cambiarti l’età sulla carta d’identità… e che comunque l’età cambia negli anni, mentre l’identità di genere no, per cui nessuno solleva un problema sociale di trans-ageismo.
Non voglio certo sollevarlo io, in effetti; quello che voglio dire è semplicemente che, come richiesta, quella di farsi dare dalla società un’altra età rispetto a quella che si ha, non è così assurda e insensata come potrebbe sembrare.

Dall’altra parte, però… e qui si richiede uno sforzo di comprensione da parte dei progressisti… che suoni insensata è perfettamente normale. In effetti suona insensata quasi a chiunque. “Ma come, ma che cazzata è, l’età è un dato oggettuale, non possiamo giocarci così!”
E se abbiamo seguito bene il discorso sinora sappiamo bene che il punto non è l’oggettività dell’età come dato, quanto il fatto che sotto quel numerino vengono riassunti tutta una serie di tratti identitari che travalicano il numerino stesso. Sulla base di quel numerino la gente presumerà come mi vesto, cosa mi piace fare nella vita, quanto e come camperò, le mie priorità nella vita. Io non potrei mai volere che gli altri mi riconoscano una data di nascita diversa, perché quella è la data; ma potrei volere che gli altri non mi imprigionino in quel numero permettendogli di determinare interamente la mia immagine di me. Come i transessuali distinguono fra il sesso biologico, immutabile, e l’identità di genere, più flessibile, potremmo tranquillamente distinguere un’età temporale, oggettiva, e una serie di età definite diversamente, come l’età ossea o l’età mentale… concetti che peraltro già usiamo correntemente.

Tuttavia è necessario capire che vi sarebbero resistenze a questo tipo di mutamento, e sono resistenze comprensibili. Come dicevo prima, l’età che effettivamente ho non dice chi sono… ma comunque non può non condizionare vari aspetti della mia vita. E siamo abituati a parlare di età pensando al dato oggettivo, la differenza fra due date. Se da un giorno all’altro inizio a parlare di “età” cambiando il riferimento e pretendendo di scindere il dato oggettuale da tutti gli altri aspetti di cui parlavo… ragazzi, gli altri non ci si possono abituare subito, non è una pretesa razionale che lo facciano. Specialmente se si considera che le nuove categorie non vanno a prendere dei “posti vacanti”, bensì occupano posizioni già prese nel linguaggio: anche l’età ossea e quella mentale si misureranno in anni, anche se in effetti non sono veri “anni” quelli che misurano, ed è quindi abbastanza ovvio che chi è abituato a pensare in termini degli anni che effettivamente ho in termini di date percepisca l’introduzione di nuove categorie come un tentativo di rimpiazzare quelle vecchie.
Insomma, magari a me interessa, per le mie ragioni, sapere esattamente quand’è nato l’altro, e non qual è la sua età ossea o mentale. E mi trovo invece a dovermela giostrare fra tutta una serie di enumerazioni che mi interessano di meno.

Il problema della distinzione fra identità di genere e sesso biologico, al netto della transfobia e della malizia di chi non vuole proprio capire, è solo uno: che i termini “uomo” e “donna” non sono tabula rasa, sono stati usati per millenni in riferimento biunivoco al sesso biologico. Usarli ora in maniera distinta da esso, per parlare di una cosa che invece è distinta da esso, genera resistenze e problematiche.
… Ed è davvero così distinta? Anche quello è argomento di discussione; la transessualità spesso porta a voler assumere tratti somatici che sono tipici di un certo sesso (non “genere”, ma “sesso”). Dunque la ridefinizione dei termini va effettivamente ad occupare uno spot già preso e occupato militarmente con quindici carriarmatini, e la richiesta da parte di chi c’era prima di non esserne scalzato ha un senso. Che non significa che vada accolta, ma ha un senso, si può capire abbastanza da dove viene e che funzioni ha.

Per brutto che possa sembrare dirlo, io credo che la ragione principale per cui le preoccupazioni dei conservatori sono fuori luogo sia la marginalità numerica del transessualismo. Per dire, la classica obiezione omofobica che “se tutta l’umanità fosse gay ci estingueremmo” non ha senso, fra le altre cose, perché i gay se lo desiderano possono anche avere figli, ma principalmente perché i gay sono più o meno il 5% della popolazione e non è mica vero che crescano fino ad invadere il mondo: son sempre quelli. Anche se fossimo tutti preti ci estingueremmo, ma il punto è che non siamo chiamati ad essere tutti preti.

La preoccupazione specifica dei conservatori, quella di vedersi “scippate” le categorie del sesso biologico vedendole sostituite con quelle dell’identità di genere, si esprime nel termine molto offensivo che usano per definire le donne trans: “traps”, trappole, persone che ti traggono in inganno “fingendosi” donne quando invece sono “uomini”. Hanno insomma il terrore di vedersi sostituite le donne biologiche da donne trans. Paradossalmente non è una paura del tutto insensata, in via astratta. Si intende: io uomo etero posso non avere nulla contro le donne trans ma non avere voglia di iniziare rapporti con loro per questa o quella ragione; magari per motivi del tutto sensati come il desiderio di avere figli biologici con la partner. Mi sentirò dunque più a mio agio sapendo che posso approcciare qualunque donna nel locale con la ragionevole certezza che corrisponda a quella mia aspettativa. Messa così è abbastanza ragionevole, no?

Ma i transessuali sono tipo uno su diecimila persone. Quindi sì, se una donna transessuale si “confonde” con una donna biologica non mette a rischio la tua sicurezza che in quel locale quella che ti piace possa anche partorire. Non più di quanto la metta al rischio il fatto che potrebbe essere semplicemente sterile. Certo se fossero il 50% della popolazione, ecco, lì il problema si potrebbe porre legittimamente. Quella dei conservatori è una preoccupazione che potrebbe essere compresa e contestualizzata e neutralizzata, ma che più spesso viene ingigantita e prende la forma della fobia, con tutta l’aggressività e l’irrazionalità che ne consegue. Ed ecco dunque che si immaginano un futuro prossimo in cui non esistono più donne biologiche e loro non possono più avere figli e sono costretti ad accoppiarsi per forza con “donne col pisello”…

Pensare a queste cose solleva riflessioni molto interessanti, per esempio il paradosso apparente per cui una certa situazione può essere normalizzata solo in virtù della propria marginalità ed eccezionalità. Omosessualità e transessualità sono normali e sane perché sono marginali, numericamente. Se non fossero marginali non sarebbero sane, o quanto meno, dovrebbero essere ripensate e integrate in modo diverso nel tessuto sociale. A pensarci, ciò non è così strano: abbiamo tutti bisogno di chirurghi e di operai e di manager, ma se fossero tutti chirurghi chi costruirebbe i palazzi, se fossimo tutti operai chi farebbe il manager, se fossero tutti manager chi aprirebbe la pancia alla gente?

C’è un elemento di irriducibile diversità nell’essere LGBT. Questo va accettato e secondo me si digerisce facilmente. Ora si tratta di capire cosa farne.

 

Ossequi.





La scienza di Destra

29 12 2018
Ho notato che è molto comune oggi, presso gli ambienti alt-right, la tecnica di vendersi come alfieri della ragione e della scienza VS la sinistra irrazionale ed emotiva.
 
Da un lato si tratta di un’innovazione comunicativa radicale; s’intende, tutti gli ideologi cercano di tirare la scienza dalla propria parte, perché la scienza è “roba forte”, la vuoi avere nel tuo angolo… ma tipicamente la Destra non se la mette sulla bandiera, perché quello è il posto riservato per tradizione e passione, che vinceranno sempre sulla scienza.
E in effetti per la Destra è ancora così, tradizione e passione vincono su scienza. Ma allora come e perché mettono la scienza sulla bandiera?
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Premettiamo necessariamente che la scienza non è mai né di destra né di sinistra, perché aderire ad un’ideologia richiederebbe che la scienza si adegui ad essa, mentre è sempre il contrario che deve accadere: l’ideologia deve adeguarsi alla scienza. Ma, a parte quest’ovvietà, diciamo che la scienza ha sempre avuto una certa attrattiva per la Destra, perché essa è un metodo per ordinare il mondo in schemi mentali. La Destra adora gli schemi mentali, e dunque adora la scienza… almeno nella misura in cui le offre una sponda per calare sul reale degli schemi-gabbia rigidi in cui imprigionarla.
Caso di studio le Sentinelle in Piedi, che si presentavano come alfieri del dato di fatto scientifico: esistono uomo e donna e i bambini nascono da uomo e donna. Allora prendiamo questo schema binario uomo-donna e caliamolo su tutto l’esistente, utilizzandolo come pretesto per stuprare la realtà stessa: si usa dunque il binarismo biologico come trucco retorico per negare la molteplicità del comportamento sessuale umano e non solo. Ci sono due sessi biologici… Ok, possiamo prendere il dato biologico in questione e soppesarlo nell’insieme delle nostre valutazioni insieme a tutti gli altri dati biologici: l’esistenza dei comportamenti omosessuali, la natura socialmente costruita dei ruoli di genere, l’esistenza della disforia di genere… Il punto è che da Destra tutti questi altri dati biologici, altrettanto solidi, vengono completamente disconosciuti. Ma sono dati, nel senso, non si apre neanche discussione su questi punti, sono puro fatto, come il becco dei pinguini o la forma della luna.
 
Il punto è che il pensiero scientifico crea sì degli schemi per inquadrare il mondo, ma questi schemi devono calzare al mondo al modo stesso in cui un abito su misura deve calzare al committente: stretto abbastanza da non cadergli di dosso, ma anche comodo abbastanza da farlo respirare e da non irritargli la pelle. Una scienza che si rifiutasse di categorizzare la realtà sarebbe inutile… ma una scienza che voglia per forza far stare la realtà in categorie decise a priori è anche peggio che inutile: è dannosa. E non è vera scienza.
La Destra è sedotta da questi abiti stretti, e non so quanto in buonafede e quanto in malafede, pensa di vendersi come scientifica perché anche la Destra, come la scienza, cala schemi sulle cose. Ma non è quello il punto della scienza, non è che basti osservare le cose, inventarsi uno schema rigidissimo che ci pare calzi loro, e poi costringere a viva forza la Natura ad indossarlo, non funziona così. C’è sempre l’altro lato da considerare: la scienza deve descrivere il reale e adeguarsi al reale, e la molteplicità infinita del reale è sfuggente rispetto ai nostri schemi mentali, per quanto raffinati.
Per di più, raramente gli schemi mentali della Destra sono raffinati. La punta di diamante della strategia retorica qui è in effetti l’utilizzo di schemi rigidissimi e semplicissimi. Da un lato gli schemi semplificati fanno parte della scienza; si pensi ad esempio ai gas perfetti o all’approssimazione gaussiana… ma in genere questi modelli semplificati rappresentano un punto di partenza su cui aggiungere strati ulteriori di complessità, e raramente sono efficaci nel descrivere la realtà così com’è. In ogni caso, quando non lo sono vanno sostituiti con schemi più raffinati; non esiste invece che la realtà venga piegata per entrare a forza in questi schemi.
 
Ovviamente, chi ha inclinazioni più o meno marcatamente destrorse sentirà spesso la seduzione degli schemi forti da calare sulle cose. Mi ci metto pure io dentro, e potremmo fare molti altri esempi a riguardo; me ne vengono in mente almeno tre, presi fra piccole celebrità del web: Uriel Fanelli, per esempio, o Albanesi, o Butta, che commentai qui piuttosto impietosamente (ragazzi, ma sarà mica una cosa da ingegneri…? Comunque se non li conoscete, fa niente, secondo me non è nulla di imperdibile). Il tratto comune che rende seducente per alcuni (fra cui anche per il sottoscritto) la retorica di questi blogger, e che la rende ad altri allo stesso modo repellente, è la forte impressione di rigore che trasmettono nel momento in cui calano i propri schemi sul reale. La seduzione deriva dal fatto che quegli schemi sono così rigidi ed eleganti ed ordinati… Peccato per quel piccolo difetto che spesso hanno di essere inadeguati o del tutto campati in aria, al punto di costituire ogni tanto delle involontarie parodie della realtà che vorrebbero descrivere.
Gli sfoghi dell’uno sui Napoletani possono racchiudere qualche elemento di riflessione interessante sui problemi del meridione, ma in ultima analisi sono un becero luogo comune razzista che pretenderebbe di sussumere un milione di napoletani sotto un unico tipo umano. Quell’altro può sembrare tanto intelligente nel momento in cui ti disseziona una frase estratta da un dibattito TV secondo i criteri della logica matematica; ma un approccio del genere diventa ridicolo, e più banalmente sbagliato, se ti richiede di far finta che non esista nel linguaggio una dimensione metaforica, iperbolica, associativa, evocativa e via dicendo che quel metodo lì, in quella forma iper-semplificata, manca in toto. Per non parlare poi di chi improvvisa calcoli su quanti musulmani ci saranno in Italia fra dieci anni senza ritenere di consultarsi dieci minuti con un demografo che queste cose le studia per vivere, e che magari può fargli notare numeri alla mano qualche erroruccio.
 
Schemi, appunto, attraenti nella misura in cui sono reminiscenti del linguaggio della scienza, e ne evocano tutta la potenza veritativa… Ma che di fatto vanno in briciole nel momento in cui ti ricordi che ci sarebbe anche, nel metodo scientifico, quel dettaglio di confrontarsi con la complessità del reale, rispetto alla quale certi schemi risultano non solo inadeguati, ma al livello del ridicolo involontario.
 
Per un esempio più su larga scala, usando questa tecnica di creare schemi-gabbia semplici e seducenti e presentandoli come “scientifici”, viene condotto da anni in USA un attacco spietato contro l’intera disciplina degli studi di genere, e trattasi del fenomeno che ha originato poi per esportazione la teoria del complotto del gender (quindi un problema non trascurabile).
Fermo restando che molte teorie sociologiche sul genere sono opinabili e alcune possiamo tranquillamente classificarle come puttanate, gli studi di genere restano comunque una materia di studio del tutto valida, che ovviamente si pone su un piano d esattezza diverso rispetto a discipline come biologia e fisica e più sul livello di studi storici e sociologici, ma non per questo è un mucchio di cazzate, come non sono cazzate la storia e la sociologia. A volte la complessità della materia di studio è tale che non si presta a iper-semplificazioni… Anzi, quasi mai la realtà si presta a iper-semplificazioni. L’invito a rientrare per forza in schemi rigidi e semplificati laddove la materia di studio richiede complessità è di fatto un tradimento del metodo scientifico a più livelli, e il genere è una di queste realtà altamente complesse, che se devono essere approfondite richiedono che si vada un momentino oltre le donne che mettono le gonne e partoriscono bambini e i mariti che hanno il pisellino e fanno gli idraulici.
Se proprio volete farvi del male, vi offriranno tanti altri esempi di questo tipo specifico di pseudoscienza nella comunità redpill. Mi colpì in particolare, fra questi, un tale che denunciava “una visione molto serendipica e non statistica della vita” in alcune donne. Essendo io statistico di professione, qui ho fatto un sorrisetto, perché il modus cogitandi dei redpill non è statistico per nulla; la statistica si basa su approssimazioni che riassumono aspetti interessanti della realtà tenendo conto delle variazioni di misurazione tramite indici di dispersione. La metodologia dei redpill consiste piuttosto nel negare la molteplicità del reale tacciando tutto ciò che non corrisponde alla teoria di essere una deviazione irrilevante, il che statisticamente parlando è un metodo abominevole. Questo fraintendimento della statistica è la ragione per cui alcuni scherzano su di essa affermando che “la statistica è quella disciplina per cui se io mangio un pollo e tu nessuno abbiamo mangiato mezzo pollo a testa”. Ovviamente non è così, ma la statistica dei redpill è perfino peggio di così, visto che se uno dei due mangia un pollo e l’altro nessuno sostiene che le donne abbiano mangiato tre polli a testa, che i maschi bianchi eterosessuali siano affamati e stiano morendo come le mosche per via della carenza di polli, che i musulmani abbiano preso il controllo dell’intera industria del pollame e che in capo a cinque anni il mondo intero sarà una teocrazia islamica controllata da polli musulmani geneticamente modificati e dalle femministe. Nella realtà, la statistica deve trovare il modo di perdere meno informazione possibile ed è consapevole che in ogni caso sta approssimando e riassumendo, dunque si perde lo stesso qualcosa per strada. La realtà non si esaurisce in incel, cuck e chads o similari, e non si riassume l’avvenenza delle persone in una scala da 1 a 10. Cercare di ridurre la realtà ad uno schema così infantile è un cazzo senza vasello e preservativo nel culo della biologia, della sociologia e della psicologia.
Quello che si verifica in certi ambienti di estrema destra è, insomma, una sorta di volgarizzazione della scienza, dove il termine “volgarizzazione” va inteso nel senso peggiore come deformazione del pensiero scientifico in forme quasi parodistiche e perfino apertamente menzognere. Contrariamente alla pseudoscienza classica, che di solito si muove cercando di attribuirsi un’autorità simile a quella della scienza ma poi di fatto non le somiglia neanche vagamente, questo nuovo tipo di pseudoscienza è a mio avviso più pericoloso, perché invece imita attivamente il linguaggio scientifico in certi aspetti chiave. I parallelismi storici più calzanti sono quelli con il “razzismo scientifico” ottocentesco o quello dei nazisti; entrambi si basavano sulla proposta di schemi iper-semplificati che magari potevano richiamarsi anche a certi dati scientifici, ma poi di fatto li stiracchiavano e storpiavano in forme pazzesche e ridicole, facendo di entità biologiche fluide e sfumate la cui stessa esistenza è discutibile, come le “razze umane”, realtà monolitiche determinanti la totalità dell’esistenza dell’essere umano.
 
Per inciso, molti critici della scienza (“dello scientismo”, preferiscono di solito loro) che invece vengono da sinistra spesso si riferiscono proprio a questa forma di pseudoscienza come proprio target polemico e ci trascinano dentro tutto il metodo scientifico vero e proprio… salvo perdere anche loro di vista quello che è scienza e quello che non lo è. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
 
Ossequi




Accusa del Complottismo

25 05 2018

Mi capita giusto oggi sotto gli occhi un articolo dal titolo che è tutto un programma: apologia del complotto.
Non potevo esimermi dal rispondervi, perché esprime un modus cogitandi che già altre volte ho incrociato e che necessita di vigorosa correzione.
Riassumendo tantissimo (ma vi invito a leggere), l’autore, Alessandro Lolli, risponde ad un altro articolo di Emanuele Giusti su L’Eco del Nulla. Emanuele è colpevole, secondo l’autore dell’apologia, di combattere il complottismo con troppa foga e assumendo colori politici. Sostiene Alessandro, dunque, che il debunking venga utilizzato come arma per supportare alcune parti politiche attraverso la costruzione di un simulacro di verità scientifica e la delegittimazione dell’avversario in quanto “complottista”, e dunque sciroccato. Si sorprende, infine, che il discorso anticomplottista sia particolarmente fiorente in Italia, dove effettivamente esiste evidenza storica di alcuni “complotti” reali mirati a nascondere al pubblico delle verità scomode al potere.
Come dicevo, ho già letto altre volte roba simile, tipicamente viene dalle dita di autori di estrema destra o estrema sinistra (che tanto ormai chi le distingue più) che stanno per sparare qualche gigantesca stronzata complottistica, Fusaro style, e mettono le mani avanti con una difesa d’ufficio del cospirazionismo. Tuttavia, non conoscendo l’autore non gli imputerò una simile intenzione, ma mi limiterò a spiegare perché sbaglia su quasi tutta la linea.

Ho detto quasi, quindi diciamo prima dov’è che ha ragione: è vero che a volte si adopera impropriamente il lessico del debunking e del fact-checking per affrontare questioni che non possono, per loro stessa natura, essere oggetto di rigoroso fact-checking. L’autore stesso fa un esempio validissimo in tal senso: che la riforma costituzionale del governo Renzi rischiasse deriva autoritaria è una tesi che, per com’è formulata, non si presta a fact-checking, ovvero ad una verifica rigorosa, stringente, provata punto per punto. Certo si può sicuramente argomentare punto per punto che questa tesi sia sbagliata, o che viceversa sia giusta, ma non si può risolvere la questione mettendoci sopra una pietra tombale nello spazio di un articolo di giornale. Altre tesi similmente strutturate possono essere cose tipo “occorre abbassare le tasse” o “l’immigrazione è dannosa alla società”. Possono essere vere o false, e sicuramente si possono discutere in termini rigorosi, ma non si prestano al formato del fact-checking. Questo perché, attenzione, il fact-checking e il debunking sono modalità comunicative specifiche e ben codificate in un formato. Il debunker deve prendere una notizia, un’informazione ben localizzata e individuata, e valutarne la veridicità effettiva in un breve articolo, o al massimo una serie di articoli se l’argomento è complesso. Per restare sulla riforma costituzionale, uno esempio potrebbe essere se uno avesse detto, com’è accaduto in campagna referendaria, che avrebbe permesso alla maggioranza di “eleggersi il Presidente della Repubblica da sola”; numeri alla mano, questa cosa la si poteva dimostrare falsa molto facilmente e in spazi molto ristretti. Ma il debunker non può mettersi a confutare o validare intere ideologie o worldview, ciò esula dallo scopo e dai mezzi del fact-checking, e non può essere chiamato debunking ciò che si pone obbiettivi così ambiziosi.
Ciò detto, però, ci sono varie precisazioni da fare.
La prima è la seguente: il fatto che il fact-checking non possa prendere come oggetto di confutazione o validazione intere worldview, non può essere preso a significare che il fact-checking sia neutrale rispetto a worldview e ideologia.
Si possono fare esempi molto semplici e molto illuminanti a riguardo. Per esempio, il Cristianesimo non è oggetto di debunking e fact-checking; tuttavia il creazionismo, l’Intelligent Design, la storicità dei Vangeli, le teorie riparative dell’omosessualità, i miracoli, sono oggetto di fact-checking e debunking. Va da sé che un debunker che faccia bene il suo lavoro, e dunque sbufali miracoli, creazionismo e via discorrendo, non farà un gran servigio al Cristianesimo. Ovviamente uno potrà restare cristiano anche al netto di grosse dosi di debunking di miracoli e creazionismo, ma se volessimo sostenere davvero che il debunking di creazionismo e miracoli è neutrale rispetto al Cristianesimo faremmo ridere i polli.
Il punto è questo: come già ho notato altre volte nel  mio blog, la verità non è una cosa neutrale e super partes. Tutt’altro. Oserei dire che la verità è una bomba H ideologica. Certo, può essere difficile rendersi conto di quanto la verità non sia una cosa neutrale, ma diventa più intuitivo se uno pensa al fatto che il suo opposto, ovvero la menzogna, è chiaramente non neutrale: la menzogna di solito serve uno scopo preciso ed è spesso politicizzata. Dire una menzogna è sovente un atto politico, e quanto più si politicizza la menzogna, tanto più si politicizza anche la verità. Suppongo che negli anni ’30 i “debunkers” che sostenevano che non vi fosse nessun complotto ebraico per conquistare il mondo venissero tacciati di anti-nazismo, per esempio. E probabilmente lo erano davvero, anti-nazisti, visto che la teoria del complotto pluto-giudaico era la spina dorsale del nazismo…
E qui si risponde facilmente anche alla sorpresa di Alessandro nel vedere quanto in Italia il discorso anticomplottista sia avanzato (sì, ho usato il termine “avanzato”; perché lo è ed è una cosa buona che lo sia); la risposta è delle più semplici: il primo partito del paese e principale forza di governo, il Movimento 5 Stelle, ha una potentissima componente complottista, così come il suo partner leghista. Il complottismo e le fake news in Italia sono pesantemente politicizzate, conseguentemente la battaglia contro di esse non può che finire con lo schierarsi. Non si diventa anticomplottisti perché si è schierati, al massimo si diventa schierati perché si è anticomplottisti, molto banalmente; ciò non nel senso che se sono anticomplottista automaticamente divento un fanboy di Renzi, ma è chiaro che il PD mi farà meno cagare a spruzzo del M5S perché non ha una componente cospirazionista neanche lontanamente così forte. Per questo il PD parla di combattere le fake news e il M5S subito inizia a ergersi in difesa della “libertà di parola”, con una coda di paglia lunga 830 Km; perché fake news e complottismo sono politicizzate e utilizzante prevalentemente (seppur non esclusivamente) da certe parti politiche.

D’altro canto il problema nel discorso di Lolli è più profondo del non vedere quanto il discorso veritativo sia naturalmente non-neutrale e anzi politicamente incisivo. Il problema è che non sembra comprendere l’essenza stessa del fenomeno complottista. Sembra invocare un anticomplottismo neutrale, piccolo e sostanzialmente innocuo; invoca un anticomplottismo che si dedica solo a sciroccati con copricapo di carta stagnola.
Si potrebbe fare un discorso anticomplottista piccolo, neutrale ed innocuo, se fosse piccolo neutrale ed innocuo il complottismo, ma non lo è. Lolli sembra mancare completamente la portata immensa e la perniciosità sconfinata del discorso complottista; questo perché, come altri, definisce il complottismo solo sulla base dei suoi specifici contenuti e di “impressioni” collegate a questi contenuti, invece che dei suoi metodi. Analogamente a quelli che vedono la scienza come una specie di religione, ovvero come un insieme di credenze più o meno valide, mentre invece la scienza è un metodo, Lolli vede il cospirazionismo come un container di credenze pazzesche, laddove invece è un metodo.
Il complottista, secondo Lolli, sarebbe uno che crede in una qualche cospirazione, e le cui credenze sono completamente pazzesche e ridicole. Questi due requisiti, “crede in un complotto” ed “è sciroccato”, non catturano minimamente l’essenza del discorso complottista e non ci permettono nemmeno di definirlo rigorosamente. I complotti, per esempio, ovviamente esistono; quindi non è che solo perché uno sostiene che ci sia un complotto gli si può dare di sciroccato, potrebbe avere ragione, come nota lo stesso Lolli… E infatti il complottista non è chiunque creda che esistano dei complotti, altrimenti dovremmo esserlo tutti visto che esistono. Resta l’altro requisito per definire il complottista, e cioè che la sua teoria sia evidentemente pazzesca, ma questa è solo la “impressione” di cui parlavo prima: le teorie complottiste sarebbero quelle che suonano folli: che so i rettiliani, gli Illuminati, ‘ste robe qui. O il complotto mondiale degli ebrei, che sarà stato pure ridicolo e folle ma ha dato inizio ad una guerra mondiale.
La cosa che mi fa pensare che Lolli non conosca affatto bene il complottismo è proprio quest’ultimo punto: sembra credere che le teorie cospirazionistiche siano pazzesche, chiaramente assurde, strutturalmente incredibili. Non lo sono affatto.

Cioè, chiariamoci, spesso (ma non sempre) sono contrarie al sentire comune, contrarie alle credenze più diffuse nella popolazione… Ma se le analizzi nella loro struttura logica, la caratteristica preminente delle teorie del complotto è al contrario la loro rigorosa, strettissima coerenza razionale, unita ad un immenso potere esplicativo. Dopotutto, non abbiamo un complottista ante litteram in Cartesio? Ricordate, il “genio maligno” che ci fa vivere in un sogno…? Certo, è molto controintuitivo pensare che viviamo in un sogno prodotto da un genio maligno, ma secoli dopo Cartesio ancora i filosofi non hanno trovato una prova logica conclusiva contro l’argomento del genio maligno. Non è confutabile, logicamente parlando è solido e dannatamente seducente.
Nella mia personale esperienza, ebbi intorno ai diciotto anni il primo contatto con le teorie del complotto, e lo ricordo come estremamente perturbante, perché queste teorie sembravano solidissime ed effettivamente parevano capaci di mettere in dubbio ogni tua certezza, fornendoti al contempo uno strumento interpretativo onnipotente capace di dare nuovo significato a tutto il reale. Dopo aver letto una teoria del complotto sugli ebrei cattivi, improvvisamente sui giornali iniziavo a vedere dappertutto l’opera di questi perfidi ebrei; di qua Israele, di là quel regista che è ebreo, di là c’è Gad Lerner… inizi a vedere ebrei ovunque ed è un soffio rendersi conto di quanto facilmente potrebbero essere colpevoli di tutto. Certo, si potrebbe dire anche che ci sono anche un sacco di fatti che depongono contro questa o quella teoria del complotto, ma le teorie del complotto hanno anticorpi naturali contro i fatti che le smentiscono. Qualche fatto smentisce la teoria? Be’, allora quel fatto è un falso messo in giro dai cospiratori, che sono onnipotenti onnipresenti ed onniscienti come il genio maligno di Cartesio, e dunque possono falsare qualsiasi prova.

Fortunatamente, siamo allenati ad essere un po’ sospettosi di alcune specifiche teorie del complotto, come quella sugli ebrei. Ma solo perché abbiamo visto che razza di danni hanno fatto, altrimenti ci cascheremmo ancora. E fortunatamente siamo attrezzati con il pensiero scientifico, che ci vaccina dal cospirazionismo… Perché in realtà le teorie cospirazioniste sono logicamente del tutto coerenti e non suonano affatto pazzesche, se non sei abituato ad avvertirle come tali per altre ragioni.
Emanuele Giusti fa benissimo a vedere del complottismo anche nella scelta di non votare PD; non è che tutti quelli che non votano PD sian complottisti, ovviamente, ma in molti casi può essere puro e semplice complottismo la ragione di quello come di altri comportamenti… E non è una buona ragione, ça va sans dire. In sostanza quando Giusti parla di complottismo indica la luna, e Lolli ha guardato il dito. Il complottismo non è una serie di teorie sciroccate su questioni ridicole. Il complottismo non è un insieme di contenuti. Il complottismo è un modus cogitandi malato, un virus del pensiero.

Ancora una volta si capisce bene cos’è il complottismo se si pensa al suo opposto, il pensiero scientifico. La scienza non è, come i più credono, un insieme di contenuti, bensì un metodo che può essere applicato a quasi tutti i contenuti immaginabili. Tutto può essere inquadrato e analizzato nei termini del pensiero scientifico.
Allo stesso modo, il complottismo è un metodo, e tutto può essere inquadrato ed analizzato nei termini del pensiero complottistico. Solo che il complottismo è, in buona sintesi, l’opposto del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico parte dai fatti e poi cerca di costruire teorie “unendo i puntini”; il pensiero complottistico parte da un’immagine e poi va alla ricerca dei puntini che la costituiscano.
Se uno va a vedere come si compone un argomento complottista, si accorge che è costituito interamente di fallacie logiche. Avvelenamento del pozzo e altre fallacie ad hominem, per esempio. il complottismo si costruisce quasi tutto su fallacie ad hominem: la veridicità delle affermazioni non viene valutata sulla base del loro merito effettivo, ma solo sulla base di chi è che le sta facendo. Una persona che dice cose che non corrispondano alla teoria può essere automaticamente screditata individuando qualche interesse che la spinga a dire bugie, e dunque tutto ciò che essa dice è screditato. Quello dice qualcosa che non ci piace? Beh, ovvio: è ebreo. Beh, ovvio: è un ateo. Beh, ovvio, e un piddino. Non ci si può fidare di un ebreo o di un ateo o di un piddino, quindi tutto ciò che egli dice è falso. E se sono in dieci, in cento, in mille a dire quella stessa cosa? Beh, saranno tutti ebrei, tutti atei, tutti piddini … Tanto non lo so mica se davvero è ebreo o ateo o piddino, in realtà lo sto deducendo dal fatto che dice qualcosa che non mi piace. Capito il trucco? Dunque se una nota testata nazionale analizza il programma di governo gialloverde e, numeri alla mano, dimostra che non sarebbe realizzabile neanche in un milioni di anni… beh? Evidentemente è una testata che fa parte del complotto nazionale (degli ebrei? della lobby gay? degli americani? dei piddini? Vanno tutti bene, anche quelli che non avrebbero nessun motivo di partecipare al complotto possiamo tranquillamente gettarceli dentro).
Ma hai voglia a individuare fallacie nel pensiero complottista… Come dicevo, ne è interamente costituito. A parte le fallacie ad hominem che sono tutte rilevate in blocco dal complottista, ve ne sono varie altre. Petitio principii: in realtà le fonti affidabili vengono selezionate sulla base del fatto che corrispondano alla tua teoria. Bias di conferma: “unisci i puntini”… Sì, però li unisci secondo un’idea precostituita, quindi in realtà tu selezioni solo le “prove” che sono a tuo favore. Cherry picking: tutti i fatti che depongono contro la tua teoria sono in realtà bugie frutto del complotto e vengono dunque eliminati.
In generale, mentre la pietra d’angolo del pensiero scientifico è la falsificabilità, la pietra d’angolo del pensiero complottista è l’infalsificabilità. È letteralmente impossibile provare ad un complottista che si sbaglia, perché qualunque prova porti contro la sua tesi è frutto del complotto, un artefatto creato da un malvagio, potentissimo qualcuno.

Vista la versatilità del pensiero cospirazionista, si può dunque arrivare a dire senza troppe remore che se ne può trovare ovunque e ad ogni livello di strutturazione del pensiero umano. La mia ex moglie pensa che io sia uno stronzo. I miei colleghi pensano che io sia uno stronzo. Il mio capo pensa che io sia uno stronzo. I miei parenti pensano che io sia uno stronzo. La cassiera che ho insultato stamane pensa che io sia uno stronzo. Sarà mica che sono stronzo…? No! Posso sempre dire che sono vittima di una cospirazione perché, boh, sono “uno scomodo”, sono invidiosi del mio successo o qualche altra pantagruelica cazzata.

In estrema sintesi, se dovessi definire il cospirazionismo, lo definirei così: è il discorso menzognero sistematizzato, raffinato e portato al suo più alto livello di complessità; è l’eleganza massima del mentire, analogamente a come il pensiero scientifico è la ricerca del vero portata alle sue massime raffinatezza ed eleganza.
Ne consegue che, del complottismo, non se ne parla mai abbastanza, e mai abbastanza male. Troppo poco lo si individua e si denuncia, troppo poco si lancia l’accusa di complottismo, troppo poco accorti siamo contro di esso.
E proprio se per una volta il discorso viene reso un po’ più avanzato, ovvero se per una volta qualcuno si accorge che il discorso complottista si sta già pericolosamente gonfiando fuori di misura nel nostro paese e lo denuncia… Viene accusato di essere schierato e di star esagerando perché tutto sommato è roba innocua.

Mala tempora currunt.

Ossequi.