Barbie e il problema dell’identità

9 08 2023

Esce Barbie, il film evento di Greta Gerwig. Un film che scatena delle controversie, particolarmente riguardo alla sua trattazione di temi come il femminismo e il patriarcato, e attira addirittura da parte di alcuni l’accusa di essere un film misandrico, che “odia gli uomini”

Personalmente credo che abbia perfettamente ragione chi rigetta, almeno in parte, questa tesi e sottolinea che Barbie non è un film sul femminismo o sul patriarcato, ma sull’identità e gli stereotipi. È stra-vero. Femminismo e patriarcato sono temi di Barbie, ma non sono il tema di Barbie. Il tema di Barbie è l’identità.

Tuttavia, è proprio lì che Barbie mostra più gravemente i suoi limiti, nonchè i limiti dell’ideologia che gli sta dietro.

Il messaggio finale di Barbie è “trova la tua identità al di là di ogni stereotipo di genere”.
Bisogna riconoscere al film una certa coerenza in questo. È vero, sì, gli stereotipi legati agli uomini, ai Ken patriarcali, sono molto più severamente criticati di quelli legati alle Barbie, e in questo c’è una chiara asimmetria. Quest’accusa è valida e fondata. Ma fermarsi lì significa mancare il punto: Barbie effettivamente ce l’ha con gli stereotipi di genere, tutti. Diciamo che ne odia alcuni un po’ più di altri, ma il messaggio è coerente.
E non è un messaggio nuovo o originale o rivoluzionario. Di questi tempi, in effetti, è il messaggio più banale di tutti, praticamente tutti i film che escono hanno lo stesso messaggio ed è il messaggio di cui si è appropriata la critica sociale progressista, che si sintetizza in: bisogna abbattere gli stereotipi, gli stereotipi sono oppressivi, gli stereotipi sono il nemico.

Ma ecco… ne siamo sicuri?

Intendiamoci: essere forzati in ogni modo a entrare in un certo schema è doloroso. Sentirsi forzare addosso un’identità è una pena infinita, quanto dover indossare a forza scarpe due taglie più piccole. Se non lo so io che sono omosessuale bipolare e in odore di Asperger. E tuttavia, proprio in quanto io in quegli schemi non sono mai riuscito a stare, so anche come ci si sente nel momento in cui ti trovi fuori da ogni schema, in cui ti sei in qualche modo “liberato”. Per un omosessuale quel momento è il coming out, e per alcuni può essere un momento molto delicato. Puoi trovarti a uscire da una gabbia in cui sei stato per anni o lustri o decadi… e ti trovi libero ma nel deserto, perché non hai indicazioni su come ricostruire la tua immagine, la tua vita e, soprattutto, ti manca il punto di riferimento più importante: una comunità di gente simile a te.
In realtà la comunità esiste, ovviamente, ma devi andartela a cercare e la parte più divertente è che, non appena ti riesca di trovare una comunità che un po’ ti somiglia… ecco che essa ti accoglie ma ti suggerisce anche caldamente di rientrare in una serie di schemi: ecco come essere un maschio omosessuale, ecco come essere una lesbica modello eccetera. Rispetti questi requisiti, di certo faciliteranno l’elaborazione della sua candidatura.

Questa mia non è da intendersi una critica ad una specifica comunità ma solo come un esempio che dice tanto, perché ogni comunità fa questo, è il prezzo per starci dentro. Ogni comunità ti fa pressione per aderire a degli schemi. A volte questa pressione è più pesante o perfino schiacciante, come nei totalitarismi, a volte è più leggera, ma non ci sono eccezioni a questa regola: si deve stare assieme, si deve cercare di trovare cosa da fare assieme, idee da condividere, musiche da ascoltare eccetera eccetera. Quindi, schemi in cui rientrare. Non sei costretto a rientrare in tutti gli schemi, ma ogni schematismo che ti renda riconoscibile e ti faccia parte di un gruppo facilita l’integrazione.
Non è per forza un male, questo: stare assieme agli altri in una comunità ci serve per definirci anche come individui, ma per stare insieme agli altri dobbiamo anche abbracciarne alcuni schemi.
E questi schemi sono quelli che poi diventano gli stereotipi, e non sono tutti quanti il male assoluto, dipende da con quanta forza siano imposti e quanto siano esclusivi e totalizzanti. Per dire, la società tende a proporre ai maschi di interessarsi agli sport competitivi, c’è un po’ di pressione in tal senso. Ok, io li odio: mi sia data la possibilità di rifiutare la proposta. Ma, personalmente, non sento come oppressivo il fatto in sé che ci sia questa proposta privilegiata rivolta ai maschi. L’alternativa è essere senza proposte o direzioni, e non è detto che non avere neanche proposte sia meglio. Per questo gli adolescenti formano branchi in cui ascoltano tutti la stessa musica e vestono tutti allo stesso modo, perché è quella la via attraverso cui si possono “identificare” e, alla fine, trovare un equilibro fra il sé la comunità. Quei quadri di riferimento, al livello di proposta, di indicazione, tornano utili.

Ma secondo alcuni questi schemi, tutti questi schemi, sono malvagi e da combattere. Greta Gerwig pare pensarla così. Il pensiero femminista cui Barbie si ispira è dichiaratamente non soddisfatto dal sapere soltanto che le donne non sono più obbligate a diventare madri, e che non ricevono più neanche grosse pressioni sociali in tal senso. A questo femminismo non basta che quegli schemi non vengano imposti, non chiede altri schemi alternativi, modelli più vari e differenziati a disposizione (altrimenti la bambola Barbie, con tutte le sue infinite variazioni sul tema, dovrebbe essere una soluzione più che soddisfacente), bensì è insoddisfatto che esistano schemi e modelli, punto. Una donna, ma anche un uomo, non deve guardare un film, leggere un libro, vedere un cartellone pubblicitario, ascoltare un podcast, e trovarvi un’indicazione su come costruire la propria identità sessuata. Se succede è il male, è l’oppressione, è… boh? Il patriarcato?

Ma qui Barbie diventa strano, perché l’umore che traspare dal film non è il senso di oppressione dovuto a stereotipi invasivi, quanto il disorientamento di chi si sente senza indicazioni. In questo senso, il monologo femminista contro il patriarcato che il film ci propone sembra curiosamente schizofrenico, o quanto meno diretto al nemico sbagliato. Il patriarcato non mette le donne in nessuna “dissonanza cognitiva”, come il film lo accusa: sotto il patriarcato le donne devono essere mamme o suore o al più puttane; dove sarebbe la dissonanza cognitiva? Mi pare chiarissimo e lineare: sei una cittadina di serie B che deve fare faccende di casa e sfornare bambini. Sotto il patriarcato il problema delle donne che “devono comandare ma non essere troppo cattive”, o che “devono avere i soldi ma non posso chiedere soldi” non esiste: sotto il patriarcato comandano gli uomini e gli uomini hanno i soldi, le donne lavano i piatti, se no che patriarcato è? Qual è questo patriarcato in cui le donne hanno il potere e il denaro? Quanto meno, uno in PESSIMA salute. Di che stiamo parlando? E d’altro canto, il discorso tira delle chiare bordate proprio al femminismo, come il problema di “riconoscere che il sistema è truccato [in favore degli uomini] e al contempo esservi grata”. La richiesta di “riconoscere che il sistema è truccato” non viene certo dal patriarcato, viene dal femminismo; il patriarcato ti vuole “grata” e basta, di certo non ti crea nessuna dissonanza cognitiva chiedendoti anche di metterlo in discussione. Greta Gerwig, insomma, pare turbata dal femminismo tanto quanto dal patriarcato. Da Barbie come dai bambolotti. Il disagio espresso da quel discorso sembra, paradossalmente, piuttosto collegato alla crisi del patriarcato: alla confusione che deriva da un mondo che il giorno prima ti dava indicazioni fin troppo dirette e severe e che da un giorno all’altro ti lascia da solo, o in questo caso da sola, a dover decidere chi diventare senza alcuna direttiva.

E questo in effetti è Barbie. La bambola, intendo. Un simbolo di infinita potenzialità, di illimitate possibilità identitarie, la donna che può essere tutto e proprio per questo non sa più chi essere. Il simbolo della piena autodeterminazione che però porta con sé anche lo smarrimento, il senso di inadeguatezza di chi si trova capitano di una nave durante una tempesta e il giorno prima era il mozzo.

Barbie è un film che confonde e che non ha una lettura semplice e univoca e che ha scatenato reazioni contrastanti, e credo che questa sia la ragione: Barbie è fondamentalmente un film contraddittorio, senza orizzonti chiari. Vuole denunciare tutti gli schemi che sono oppressivi e dannosi, eppure al fondo esprime col suo linguaggio il disagio che deriva da non avere schemi. Per questo le Barbie col “cervello lavato” dai Ken stanno così bene: hanno degli schemi molto precisi e semplici. E quando esse vengono “liberate” non è perché il monologo ha rivelato le contraddizioni della loro condizione – che non ci sono: sono univocamente subalterne – bensì ha creato delle contraddizioni. Perché la libertà ha in sé il contraddittorio, il paradosso, l’incertezza, l’equilibrismo.

E l’unico modo in cui il film riesce a passarla liscia in questa contraddizione è perché manca completamente di pars construens. Ken rinuncia agli stereotipi della virilità e ad essere un riflesso di Barbie, ma non abbiamo diea di cosa ne sarà dopo di lui. Barbie decide di diventare umana e coltivare la propria identità, ma non abbiamo idea di come lo farà, di che tipo di donna diventerà. Se la mia esperienza dice qualcosa, per loro la parte più difficile rischia di essere proprio quella che viene adesso. E con difficile, intendo: potrebbero trovarsi a rimpiangere i tempi più semplici.
Nessuno si accorge di quanto Barbie sia confuso e non sappia cosa vuole davvero, perché il film si ferma nel momento in cui dovrebbe dare la risposta più importante: chi saranno Barbie e Ken, ora che sono usciti dagli stereotipi?
Greta Gerwig non ritiene di avere responsabilità di dare una risposta. Ci limita a dirci che è molto complicato essere umani. Cosa che sapevamo già. È sufficiente? Specie dopo che ce lo dicono tutti i film usciti negli ultimi vent’anni? Chi va a distruggere gli schemi già noti non ha la responsabilità di suggerire a propria volta una via alternativa? Basta scaricare sul pubblico questo compito a casa?

No. Per me no.





La Normale, il merito, il capitalismo

10 03 2022

Ha sollevato un certo polverone, l’anno scorso, il discorso di due studentesse della Scuola Normale Superiore di Pisa alla cerimonia del Perfezionamento (sarebbe il dottorato ma con un nome più figo), molto critico verso la Scuola stessa, accusata di aver ceduto alle lusinghe del capitalismo ed essersi trasformata in una mostruosa università-azienda.

Come sia possibile accusare di essere diventata un’università-azienda un’istituzione pubblica più vecchia dello stato italiano resta un mistero, ma alle ragazze va dato almeno un merito: hanno attratto l’attenzione su alcuni problemi interni della scuola, seppure hanno dovuto avvolgere la pillola nell’unica capsula che rende digeribile qualsiasi cosa agli intellettuali italiani, ovvero una dolce patina di goloso pseudo-marxismo.

Ma direi, purché se ne parli, bene così.

Non tutti sanno che il sottoscritto è un normalista; non pubblicizzo troppo la cosa per ragioni che saranno chiare alla fine del post, ma da qualche parte a casa dei miei c’è un tubo con la pergamena del diploma di licenza. Il mio rapporto col passato in Normale non è conflittuale ma neppure idilliaco, e credo che la mia esperienza possa aiutare a capire meglio la Normale, cosa dà, cosa non dà, e soprattutto cosa prende.

Ma per parlare di questo servirà una piccola autobiografia professionale che inquadri chi sono stato come studente e chi sono come professionista. Pazientate.

Mi diplomai al liceo classico con 100/100, ma nella classe peggiore della scuola. Cambiavamo professori ogni anno e molti di loro erano incompetenti. Penso nessuno dubiterebbe che fossi il migliore della classe, e uno dei migliori della scuola, ma il problema era che si trattava di una classe pessima che mi fornì una formazione terribilmente lacunosa… specialmente nelle materie scientifiche. Un po’ problematico, se come me nella vita avevi sempre sognato solo di fare il ricercatore.

Fatto sta che alla fine del quinto anno di liceo ero preparato decentemente in biologia, indecentemente in matematica, e la mia preparazione in fisica e chimica era semplicemente assente, come non averle fatte.

Fu mia madre ad avere l’idea che potessi tentare di entrare in Normale, esclusivamente sulla base di una fiducia sconfinata nel mio cervello e nelle sue potenzialità. Ma l’idea mi stuzzicava, la retorica dell’eccellenza mi ha sempre sedotto; mi piace sentirmi più intelligente degli altri e la Normale è il posto ideale per quelli così. Il problema è che l’esame verteva su tre materie: biologia, matematica, una a scelta fra chimica e fisica. Io capivo qualcosa solo della prima. Possibile recuperare qualcosa come tre anni di programma di matematica e fisica in tre mesi?
Be’, sembrava un lavoro per me.

Presi un insegnante privato per recuperare tutta la matematica e fisica che non avevo fatto a scuola e i tre mesi dell’estate dopo la maturità li passai tutti sui libri, ben conscio che con quei presupposti l’impresa di entrare alla Normale fosse virtualmente impossibile. Se non che, faccio lo scritto di biologia e matematica e… toh. Lo passo. Non ci credevo nemmeno io, fu un’assoluta sorpresa. Purtroppo, all’orale non andò altrettanto bene, perché lì c’era anche fisica, e onestamente non ero riuscito a recuperare anche quella.

Mi iscrissi all’università in un’altra città, e ringraziai comunque la fatica che quell’esame d’ingresso mi aveva costretto a fare: mi divorai la triennale in quattro e quattr’otto e gli esami di matematica e fisica furono forse i più facili di tutti, a quel punto. Sviluppai addirittura un interesse particolare per la biomatematica, al punto che fui uno dei forse sei studenti su trecento che seguirono un corso di complementi di matematica per la biologia. Quando ero prossimo alla laurea, la Normale mi ricontattò per propormi un corso di orientamento, casomai fossi interessato a ritentare da loro per la specialistica. Accettai e, subito dopo la laurea rifeci il test d’ingresso da loro, stavolta superandolo agevolmente ed entrando dunque alla Normale al quarto anno. È dunque importante capire subito un aspetto della mia esperienza in Normale che la rende poco comune: io non sono nato e cresciuto normalista, come la maggior parte di loro, quanto piuttosto sono stato adottato in un secondo momento, sono un normalista “ibrido”, se vogliamo. Se da un lato ciò significa che non ho goduto i momenti più belli e significativi della vita di un normalista, significa anche che sono rimasto in gran parte estraneo e naive rispetto a certe dinamiche interne. Ed è inoltre importante anche sottolineare che la mia esperienza in Normale è un’esperienza da biologo, e i biologi sono in Normale una ristretta minoranza, anche se adeguatamente rispettata e finanziata.

Ciò detto, quei tre anni (me ne servì uno extra per la tesi) furono infernali per me, ma non a causa della Normale. Avevo già avvisaglie di depressione prima del trasloco a Pisa, ma dopo divenne conclamata a causa di tutta una serie di problemi personali. Inevitabilmente la mia carriera accademica ne fu impattata, anche se non abbastanza da farmi deragliare del tutto.

Fintanto che si trattava di dare esami, infatti, andò tutto piuttosto bene, di solito riuscivo a prendere 27 anche non aprendo libro. Il primo, grosso colpo che presi fu quando entrai in un laboratorio per la tesi. Ci rimasi credo tre o sei mesi, non saprei dire di preciso, ma fu un’esperienza disastrosa, forse perfino traumatica. La ragione? Semplicemente, gli esperimenti non mi riuscivano.

Quando parlai della cosa con il supervisor mi fu detto che “tu non stai riuscendo a fare gli esperimenti, e questa non è una fabbrica di tesi”. Fair enough. Lasciai dunque quel laboratorio, il che mi pareva la cosa più semplice a quel punto, e andai in un altro; questa volta andò meglio, anche perché questo era un lavoro più analitico, leggasi: più numeri e computer, meno pipette e reagenti, e gli esperimenti erano pochi e difficile sbagliarli… E poi a questo punto la mia priorità era riuscire a scrivere una tesi passabile e laurearmi, questo giochetto mi era già costato un anno e non volevo perdere il titolo.

Ci riuscii, mi laureai con 110/110. Senza lode. C’è gente là fuori che per uno scherzo del genere avrebbe commesso omicidi, ma io la presi con filosofia: ero consapevole che la lode è una cosa puramente simbolica, nei fatti, e comunque fui diciamo così simbolicamente “ricompensato” ottenendo la lode all’esame interno della Normale, cosa che non è così scontata. Mi iscrissi dunque a un PhD in un’università italiana.

Il PhD in questione andò malissimo, per una serie di ragioni, non ultimo il fatto che stavo iniziando a capire come forse fare gli esperimenti… be’, semplicemente non facesse per me. In laboratorio mi sentivo completamente inutile e quella situazione mi fece scivolare in una grave crisi vocazionale.

Ma nel mio PhD era obbligatorio un periodo di sei mesi all’estero, così mi mandarono in America e lì conobbi il mio supervisore in loco. Costui si rivelò una persona estremamente importante nel mio percorso, perché fece una cosa che nessuno aveva mai fatto prima: all’incirca il mio primo giorno di lavoro lì mi fece un lungo colloquio in cui parlammo delle mie aspettative, di quello che mi piace fare, di quelli che sono i miei talenti o le mie debolezze, di cosa mi avesse portato lì, di successi, di delusioni e incidenti.

A seguire, anche in ragione di ciò che avevamo discusso, mi propose una rosa di progetti su cui poter lavorare, e poiché nel nostro colloquio era venuto fuori che io sono un po’ meno bravo nel fare gli esperimenti e molto meglio nella parte di teoria, mi propose anche un piccolo side project che consisteva nell’analizzare quantitativamente alcune registrazioni sonore. Le registrazioni c’erano già, nessun esperimento da fare, solo stare al computer.

Gli altri progetti morirono più o meno miserevolmente, non foss’altro che perché non c’era tempo di svilupparli veramente… ma quello lì mi appassionò un sacco, ne tirai fuori un po’ di dati e mi permise di completare la mia tesi alla bell’e meglio. Il dottorato si concluse, con un paio di pubblicazioni a secondo o terzo nome. Mi piacerebbe dire “sansa infamia e sansa lodo”, ma qualunque addetto ai lavori può confermare che un esito del genere tende molto all’infamia. Anni sprecati.

O forse… no?

Perché ironicamente, quel piccolo progetto analitico, che in realtà non arrivò nemmeno alla pubblicazione, fu la cosa più importante cui mi sia mai dedicato. Mi indicò la via: io ero bravo in quello, io non sapevo fare gli esperimenti… ma sapevo analizzare i dati. Ed eccezionalmente bene. Avrei fatto solo quello, allora.

Mi armai di santa pazienza e dopo laurea e PhD, per un totale di nove anni di studi, mi misi a studiare statistica medica – altri due anni – ignorando lo scetticismo di chi pensava non fosse più tempo per me di rimettersi sui libri. Ma fu la scelta giusta. ICome biostatistico in nove mesi pubblicai due paper, uno a primo nome e uno da solo, molto meglio di quanto non fossi riuscito a fare in tre anni di dottorato.

Il resto non ci serve analizzarlo nel dettaglio, ma per riassumere: in sì e no cinque anni ho pubblicato circa venticinque articoli, cinque di questi a primo nome di cui uno a nome unico, e un altro come (co-)corresponding author, e ci tengo a sottolineare che il mio nome non è su quei venticinque articoli perché, tipo, ero nella stessa stanza di chi li ha scritti: nella maggior parte di essi l’analisi l’ho fatta tutta quanta io – naturale, essendo lo statistico – e negli altri ho comunque contribuito attivamente o all’analisi dei dati o alla scrittura.

Ora lavoro nel privato e, anche se mi è rimasto un pochino il cruccio di aver rinunciato all’idea di insegnare in università (e chi ha seguito qualche mio corso tenuto a studenti di master o in corsi residenziali dice che io sia un didatta particolarmente efficace), mi consolo pensando che il mio stipendio è significativamente superiore a quello di un professore universitario, e comunque continuo a fare ricerca anche ora con un discreto output.

Questa storia ha dunque un lieto fine.

Ma che ruolo ha la Normale in questo percorso a lieto fine? Mi ha aiutato? Mi ha abbattuto?

La risposta, che dice tutto nella sua semplicità, è: nessuno dei due. È stata irrilevante, ininfluente, una parentesi senza strascichi.

In Normale sono riuscito ad arrivare alla fine del percorso, vero… ma non sono riuscito a prendermi grandi soddisfazioni, e, quando feci un poco convinto tentativo di entrare al PhD – pardon, Perfezionalmento – da loro, non passai. Dal mio punto di vista possiamo dire in prima approssimazione che in Normale io abbia fallito, anche se tecnicamente sono arrivato alla fine e quindi ho fatto decisamente meglio di moltissimi altri. Non posso dare alla Normale la colpa dei miei fallimenti; non è colpa loro se sono distratto, non è colpa loro se alla quinta volta che l’esperimento fallisce io non me la sento di provare la sesta e piuttosto mi metto a piangere in posizione fetale sul pavimento. Non è colpa della Normale nemmeno la mia depressione.

Ma, ovviamente, non intendo nemmeno darle merito dei miei successi.

Lasciate che sottolinei un paio di cose per capirci meglio: la prima, la Normale è fissata con l’eccellenza. Ecco, se guardiamo il mio curriculum attuale, se guardiamo il ritmo della mia produzione accademica negli ultimi anni, o anche più materialisticamente se consideriamo il mio stipendio, io sono diventato esattamente un’eccellenza. Una di quelle su cui la Normale avrebbe buoni motivi di voler mettere la firma.

Altra cosa da notare: la Scuola Normale è letteralmente ossessionata dalla matematica; costringe i propri studenti di biologia a seguire corsi di matematica e fisica avanzata che al 99.999% dei biologi non serviranno assolutamente a niente, se non a vantarsi di averli seguiti, e di recente obbliga chi voglia entrare a biologia al quarto anno a superare una prova di matematica e fisica, la quale include argomenti che non sono presenti in nessun curriculum da biologo in Italia e nel mondo.

Insomma, ci tengono assai alla mate, pure troppo, si potrebbe sostenere efficacemente.

Alla luce di ciò… com’è possibile che un biologo che aveva nascosto dentro di sé un ottimo biostatistico, e quindi con un bel pallino per la biomatematica, sia stato tre anni dentro la Normale e sia passato completamente sotto il radar? Cioè, nessuno se n’è accorto, manco io. Si direbbe che ci tengano un sacco all’aspetto quantitativo della biologia, no? Nessuno che abbia pensato “mmmh… ma non ti pare che questo qui sia portato per i numeri?”? Fra l’altro… guardate cosa ho fatto pressoché da autodidatta, e immaginate cosa avrei potuto fare, invece, con una guida esperta, con un tutoring avanzato e una preparazione più formale sulle basi algebriche della statistica, del tipo che si può trovare in posti come, non so, non me ne viene in mente nessuno… magari la Scuola Normale Superiore di Pisa?

In realtà non è così sorprendente che sia andata così, perché, come dire… non ci sono corsi di biostatistica, in Normale. Sì, ok, un piccolo corso complementare facoltativo c’è, ma non c’è assolutamente un percorso formativo dedicato. Modello di Drude semplificato per la legge di Ohm locale? Yeah, fondamentale per un biologo, non possono non saperlo! Come funziona un test di ipotesi? Nah, troppo plebeo, possono studiarselo da soli. Difficile identificare un talento per la biostatistica se quella cosa lì proprio non è minimamente considerata nel curriculum.

Inoltre, e questo detto a loro difesa, la mia vocazione statistica era abbastanza nascosta, non c’è dubbio. C’è voluto un professore in America con vocazione alla santità per portarla alla luce. E chiariamolo: non è obbligatorio che un supervisore faccia questo tipo di lavoro, che si metta lì ad un tavolo a fare un discorso di orientamento come quello che fu fatto a me, che faccia quel miglio extra per cercare di tirare fuori i tuoi talenti nascosti, comprendere e tamponare le tue debolezze, cercare di far risplendere i tuoi punti di forza. Non è obbligatorio. Forse ci aspetteremmo che lo facesse, non so, un istituto di educazione di eccellenza, ma di certo non è uno standard of care. In Normale non l’hanno fatto, e a un certo punto uno può dire, “mica erano obbligati”.

Ma vedete, siamo dunque di fronte ad uno strano paradosso: un’istituzione fissata con l’eccellenza, e che considera l’approccio quantitativo ai problemi una sua punta di diamante, si lascia completamente sfuggire da sotto il naso uno studente che eccelle nell’approccio quantitativo. E questo è innegabilmente un dato interessante. Come accade una cosa del genere? Come si lega alle accuse fatte di recente alla Normale?

Apparentemente poco, perché in effetti quando accusano la Normale di essere diventata un’università-azienda (*cavalli che si imbizzarriscono come quando si nomina Frau Blucher*) pare che la accusino proprio della cosa di cui non puoi mai accusarla e che non è una colpa: il fatto di funzionare. La Normale, nella sua spietatezza assoluta, nella sua concentrazione totale ed esclusiva sul risultato, nel suo potare senza remore qualsiasi ramo che mostri un afide verdino su di un germoglio, funziona: produce ricerca di altissima qualità e personale tecnico-scientifico estremamente qualificato. Funziona, cazzo, ce l’avete con lei perché funziona, adesso?

Nah, quello secondo me è un tema che neanche necessiti discussione, la Normale è davvero un centro di ricerca di eccellenza. Tuttavia, occorre capire quali sono le dinamiche che la portano ad essere tale, e se mi chiedeste se la Normale sia un centro di formazione di eccellenza… probabilmente risponderei di no.

Nessuno poteva accorgersi che avessi un talento nascosto per la biometria, e semplicemente perché la Normale non scova talenti nascosti, non fa veramente orientamento, non coltiva amorevolmente piccoli germogli di cultura concimandoli col sapere e innaffiandoli con la motivazione, dando loro direzione e attenzione, fino a farne splendidi bonsai da frutto. La Normale più che lamarckiana è darwiniana: prende le (se)menti migliori che ci sono in giro (ragazzi brillanti), le butta per terra, ci sparge sopra un chilo di fertilizzante (i.e. soldi, tanti tanti soldi), quindi se ne va, se li scorda lì, torna dopo un po’ a vedere chi è sopravvissuto agli agenti atmosferici e ai parassiti.

Ovviamente, sopravvivono solo i più forti: il normalista di successo non è solo estremamente intelligente, ma sa anche già la propria strada, è altamente consapevole di sé e dei propri obbiettivi, ha una determinazione incrollabile, sopporta livelli di pressione assurdi ed è capace se necessario di dedizione maniacale al proprio lavoro. È un survivor, è la specie dominante in un ambiente incredibilmente ostile. Ma la domanda che viene da porci è: quando vediamo una specie che sa fare qualcosa di straordinario, come quei vermi che riescono a sopravvivere nelle sorgenti sulfuree… il merito è dell’ambiente? Cioè, il merito è di chi ha sistematicamente ucciso tutti i più deboli? Perché la Normale, essenzialmente, funziona così: manda avanti i forti attraverso lo sterminio dei deboli. Se quel vermetto rosso è così bravo da sopravvivere in una sorgente sulfurea, non è forse merito del verme, piuttosto che non delle sorgenti che alla fine hanno solo ucciso tutti gli altri?

A nessuno è mai importato molto che io fossi o meno portato per la statistica o per la matematica, perché solo un ingenuo può pensare che quella tortura di esame di matematica per biologi della Normale serva a saggiare che questi biologi siano abbastanza matematici da poter essere considerati biologi; solo un ingenuo può bersi davvero che “la preparazione in campo matematico e fisico data dall’università al biologo non è sufficiente” (wow, Scuola Normale, prima in Italia e nel mondo ad aver capito qual è la preparazione in matematica e fisica “sufficiente” per un biologo; mettiamolo nei suoi achievement nel campo della ricerca). No, tutto ciò non serve a preparare meglio, serve a selezionare di più. Queste cose servono a sterminare chi non ce la fa, sono selezione darwiniana. Quello è il metodo. Quando sorgono problemi coi suoi studenti, la Normale risponde sempre con la selezione: se qualcuno in Normale non ce la fa non è un errore o un problema per la Normale, se non nella misura in cui vuol dire che non era selezionato bene sin dal principio; dunque, la prossima volta bisognerà fare una selezione ancora più severa e precoce. Credo la Normale sia l’unico istituto d’istruzione che considera abbandoni ed espulsioni come dei successi, e che quasi si fregia di quante teste abbia falciato.

Dunque, ora possiamo dare risposta ad alcune domande che l’intervento delle studentesse, da cui prendevo spunto all’inizio, naturalmente scatena. Almeno dal mio punto di vista e per quanto la mia esperienza lo consenta.

È vero che la cultura dell’eccellenza in Normale è tossica come molti dicono?

Secondo me, sì, e con orgoglio. L’idea di eccellenza che la Normale coltiva non ha a che vedere col coltivare gli intelletti fino a portarli al successo accademico o lavorativo, quanto con la selezione di soggetti che, per i propri tratti caratteriali e intellettuali, il successo lo avrebbero avuto comunque, e si basa tutta sull’idea del survival of the fittest. Per essere normalista devi costantemente dimostrartene degno, superando una dopo l’altra tutte le prove del fuoco e del sangue che la Scuola ti mette davanti, e al primo fallimento sei fuori, indipendentemente da quanto tu possa oggettivamente valere e aver dimostrato di valere. Ma nella vita il successo professionale ha senz’altro a che vedere con intelligenza e voglia di mettersi in gioco, ma va ben oltre, e l’idea sottaciuta che l’eccellenza consti tutta di questa attitudine da carrarmato accademico è semplicemente sbagliata. Ironicamente, la Normale aiuta proprio gente che non aveva alcun bisogno di aiuto, se non forse, ça va sans dire, aiuto economico.

È colpa del capitalismo, tutto ciò?

Ma che cazzo c’entra, dai, la Normale ha duecento anni ed è sempre stata così. Please. Adesso sarà colpa di Bezos pure quello che ha fatto Napoleone. Capisco che dire “è colpa del capitalismo” fa fare bella figura, ma NO, i problemi della Normale non sono colpa del capitalismo.

Però, però, però… se si va a vedere qual è il contributo oggettivo della Normale alla formazione dei suoi studenti, difficile non identificare il soldo come quello preponderante. Nessuno può accusare la Normale di non spalancarti le porte dei laboratori più all’avanguardia, di non metterti a disposizione i macchinari più fantascientifici e non ultimo di non mantenerti all’università gratis dai due ai cinque anni. Questi fattori innegabilmente esistono, la Normale ti dà una marcia in più in termini economici e poi con la sua reputazione e i suoi collegamenti. Ma se parliamo di talento, la Normale non solo non te lo dà, ma neanche lo coltiva o alimenta con particolare amorevolezza. Direi che essenzialmente il talento lo prende e basta, lo coscrive; prende talento, rende soldi e reputazione. Non solo: la reputazione si regge poi sugli studenti e sul loro successo, quindi la reputazione della Normale, con tutti gli agganci e ciò che ne consegue, in effetti è “talento riciclato”, raffinato e restituito, lo stesso talento che ha preso agli studenti. Fa un po’ come certi canali youtube che ti chiedono di mandare loro i tuoi video e poi ti fanno il favore di usarli per ottenere traffico sul loro canale… E tu magari accetti perché quella pubblicità ti fa comodo, ma i contenuti restano i tuoi, quel canale non ha fatto niente. Eccetto, of course, fornire soldi e pubblicità.

Non direi che sia così capitalista, come approccio, anche se può sembrarlo da quanto detto sin qui; la persona che ha voluto spendere un po’ più di tempo ed energie su di me io l’ho trovata in America, patria del capitalismo. In generale, nel contesto capitalista, malgrado vi sia un interesse a “spremere” l’impiegato il più possibile (e questo è l’unico aspetto che vedono i marxisti) esistono anche nozioni collegate a ritorno dell’investimento e produttività. Quale azienda, dopo aver investito un patrimonio per formare un tecnico altamente specializzato per anni, lo butterebbe fuori a calci senza batter ciglio solo perché il suo rendimento è sceso un peluzzo sotto l’abituale? Notare che non è che se uno esce dalla Normale la sua carriera è finita, eh, tutt’altro: se passi dalla Normale, e riesci a non suicidarti, dopo quasi sempre fai una bellissima carriera, con o senza il pezzo di carta del diploma in mano. Solo che se ti cacciano magari la tua carriera la vai a fare da un’altra parte, non dentro la Normale… alla “concorrenza”, potremmo dire. In senso aziendale non ha alcun senso investire tanto in qualcuno e poi mandarlo alla concorrenza, no?

Senonché, la Normale non ha concorrenza in senso proprio, e finanziamenti e produttività sono entrambi garantiti, i primi anche solo dal nome della SNS, la seconda dal fatto che quelli che entrano lì dentro hanno il Quoziente Intellettivo medio di Lex Luthor sotto steroidi. Nessuna azienda funziona così e la Scuola Normale non è un’azienda. La Normale funziona come funziona proprio perché può muoversi al di fuori di qualunque logica aziendale, perché il capitale che essa accumula è tutto simbolico e si quantifica in “reputazione”.

Non la definirei affatto un’università-azienda. La Normale è più che altro il culmine evolutivo del sistema universitario italiano.

Qual è la filosofia nelle università?

Ti ho preso sotto la mia ala, ergo ora possiedo la tua anima; sei fortunato ad essere qui dentro, ringrazia sempre; devi dare di più di adesso, indipendentemente da quanto stai già dando; non c’è limite a quanto si possa spremere un ricercatore, uscirà sempre sugo e comunque bisogna essere competitivi mica pizza e fichi; lo studente è come il carbone, se lo spremi a volte va in pezzi e a volte esce un diamante (cit.); le vacanze sono per falliti… etc etc.

Una filosofia in genere disastrosa che genera abbandoni, depressione, stress, burnout, precarietà… e che non ultimo abbassa la qualità della ricerca, perché non è affatto vero che lo studente (o il dottorando o il postdoc) più lo spremi e più produce. Ecco, la differenza è che in Normale, nonostante ciò, la qualità della ricerca non cala, a riprova che, se hai una fiumana di soldi e sei costantemente rifornito di cervelloni stachanovisti da spremere come gialli limoni maturi, quel sistema funziona.

E per come ragiono io, che sono un pragmatico… be’, ragazzi, basta che funzioni, no? Va perfettamente bene. Va detto che non è male che esista un’istituzione universitaria in Italia che seppure secondo standard discutibili valuti davvero il merito, grande assente dal nostro paese, e lo ricompensi anche economicamente in una misura che non permetta di barare sull’ISEE per accedervi. E va anche detto che in effetti non sta scritto da nessuna parte che uno studente debba poter avere accesso a tutto ciò che la Normale offre: è tutto un di più, è tutta una possibilità extra che ti viene data; malgrado non si tratti esattamente di un “regalo”, viene da dire che a caval donato non si guarda in bocca. Se vogliono dare delle risorse extra solo a chi supera una selezione selvaggiamente spietata, insomma, alla fine è una libera scelta di come utilizzare quei soldi, e si sa che i soldi pubblici ognuno li usa come vuole.

Dunque, che problema c’è?

Ok, a parte l’occasionale casualty il problema è che la Normale funziona bene come sistema chiuso, ma è estremamente problematica se guardi cosa rappresenta nel vasto ecosistema universitario italiano.  La Normale non ha inventato i suoi metodi da spremiagrumi, tutto l’universo ricerca in Italia li usa (e in buona parte anche fuori), è tutto selvaggiamente competitivo e in modo tutt’altro che sano, e normalmente se applichi quei metodi ad un non-normalista… no, non ottieni un diamante. E a dire il vero, spesso non lo ottieni neanche dal normalista, il diamante, solo che in quel caso basta cacciare via l’indegno e la prossima volta selezioniamo di più, raddoppiamo le prove di matematica, ci infiliamo un esame di ingegneria termonucleare per biologi e problem solved, baby.

La Normale fa da rinforzo positivo ad un sistema malato, ne dà validazione ai più alti livelli, lo giustifica e, purificandolo dalle imperfezioni umane del non-normalista, lo santifica. L’ideale accademico in Italia è la Normale, tutti provano a fare come lei… e a parte che, come obbiettivo, è molto discutibile (ok, saremo pure geni noialtri, ma l’università è fatta anche per chi ha un QI sotto il 135), non è una via praticabile senza avere accesso alle risorse della Normale.

Da qui in avanti potrebbe essere tutta una lunga disamina del mondo dell’accademia e del perché è così deprimente, con la nota a margine che in Normale pure o peggio, è che tutto ciò ha ben poco a che vedere con l’università-azienda, ma se possibile con l’opposto. Per esempio, nel settore privato c’è un’enfasi costante sul lavoro di squadra, sul saper fare la propria parte e far funzionare il team. In università l’enfasi è sempre sul singolo geniale ricercatore, sul suo famoso contributo di ricerca originale, il ricercatore è costantemente spronato a fare da solo e a farsi dare quel benedetto primo nome sull’articolo. E nella Normale devi essere ancora più solitario e geniale, di conseguenza. E potremmo fare una disamina della filosofia superomistica che anima l’ideologia dell’eccellenza in Normale, un concetto per cui lì si coltiva il Genio, e Genio è l’individuo che sa trionfare sull’ambiente ostile, in perfetta solitudine.

Però andremmo oltre gli scopi di questo pezzo. Credo che l’obbiettivo di questo scritto sia un altro: riportare l’attenzione su ciò che non va nell’università. Ed ecco, per me questo potrebbe essere un primo passo: iniziamo a smitizzare la Normale di Pisa.

Ossequi.

EDIT

C’ho questa bizzarra fisima che, dopo aver pubblicato articoli di un certo successo (questo qui al momento ha circa 500 letture in poche ore) e leggo alcune critiche, li edito per rispondervi.

Lo farò anche stavolta, però… ragazzi, che squallore, veramente. Il livello è più basso del solito, stavolta, vero e proprio odio a tratti.

Tenore delle critiche:

“L’autore parla troppo di sé stesso”.

Ho scritto questo articolo perché io sono normalista, sono esperienze vissute e viste da vicino. Dopo il discorso delle studentesse altri ex-allievi si sono espressi, e molto più severamente e in disaccordo con loro di me. Questa esperienza è parte del mio vissuto, è l’esempio più vivo che possiedo di ciò che voglio dire. A qualcuno darà fastidio, ad altri piacerà, ma la pretesa che non parli di quello che ho vissuto…
E lascia stare poi quegli altri che “generalizza la sua esperienza individuale”, come se in tre anni là dentro tu non potessi conoscere decine di normalisti e osservare TUTTO quello che vivono e fanno.

“L’autore è un pomposo narcisista pieno di sé”

Ma ho anche dei difetti.
Ma poi, veramente, raramente vedrete qualcuno esporre con tanta franchezza i propri limiti e i propri difetti. Io sono un eccellente biostatistico e, come ho sottolineato, un pessimo, pessimo laboratorista. Quando lasciai il laboratorio in cui mi ero trovato tanto male ci fu più di una persona a me vicina che suggerì che potessi addirittura essere stato sabotato. E io a queste rispondevo e rispondo sempre: “no, è semplicemente che non ero bravo”.
Cosa cazzo di altro volete, che metta un saio e chiede l’elemosina come San Francesco per mostrarvi la mia umiltà? In certe cose faccio schifo alla merda e in altre sono un fenomeno, sono conscio di entrambe.

“Non è anticapitalista”

I più con la bava alla bocca sono questi, quelli che hanno deciso che mi odiano appena si sono accorti che sono anti-comunista e hanno decretato che ogni cosa che scrivo è sbagliata. Perfino quando loro hanno detto la stessa identica cosa. Se io dico “la retorica dell’eccellenza in Normale è tossica” sono una merda umana, se un altro dice “la retorica dell’eccellenza in Normale è tossica – perché capitalismo brutto” è un genio. Anche se, senza falsa modestia, io la scrivo molto meglio. Fa la differenza il colore della maglietta.
Non me ne vergogno, non sono particolarmente di sinistra, sono un centrista e anzi tendo a destra. Deal with it. Mostrate la maturità di saper comprendere un testo senza schiumare come idrofobi solo perché chi l’ha scritto non ha la vostra stessa estrazione politica.

“Non capisci niente di marxismo”

Cinquemila parole di articolo. Ho usato la parola ‘marxismo’ due volte. DUE VOLTE. Una delle due fra parentesi.
Facciamo così: visto che vi danno tanto fastidio, quelle due frasi saltatele a pie pari, ok? Fate finta non ci siano, così riuscirete a leggere il resto senza crisi epilettiche.

“Non ha capito il discorso delle ragazze”

Il discorso l’ho capito così tanto che sono in gran parte d’accordo con loro; dissento solo sulla tiritera che “colpa del capitalismo cattivo”. Se foste abbastanza intelligenti da saper comprendere un testo ve ne sareste accorti. Che avreste detto se davvero avessi cercato di demolire quello che hanno detto pezzo per pezzo, come Claudio Giunta per esempio? Vi sto antipatico perché pensate mi creda più intelligente dei miei lettori; no, non di tutti i miei lettori, solo di voi che non capite un cazzo di niente.

Be’, che dire. Fin qui squallido. Veramente squallido. Tuttavia, se guardo la ratio like/commenti degli hater, sembra essere 65/35, quindi c’è ancora speranza per il mondo, e poi la maggior parte di quei 35 non hanno alta aspettativa di vita perché il Protocollo di Milwaukee funziona solo in una minoranza di casi. Ma un consiglio: se decidete di lasciare un pungente commento a questo articolo, pijiateve prima ‘na camomilla.





Se il MOIGE fosse femminista

30 09 2021

Voglio spendere due parole sul caso tragicomico delle accuse di sessismo verso lo scultore Emanuele Stifano, reo di aver ritratto la Spigolatrice di Sapri appena velata, di modo che se ne vede il fondoschiena più o meno come fosse nuda.

Alla fine di questo post, sarà necessario innanzitutto che vi chiediate tutti come siamo arrivati a questo.

Il nudo si è sempre utilizzato nell’arte senza bisogno di particolari giustificazioni, semplicemente perché il corpo umano è affascinante per gli artisti. Stifano scolpisce quasi sempre nudi e ha dichiarato che fosse stato per lui la spigolatrice l’avrebbe fatta proprio nuda, perché è il suo modo di lavorare (e se guardate le altre sue statue, come il Palinuro, vedrete che è vero). Perfino quella professoressa che per giustificare la tirata moralista ha dovuto tirare in ballo il “decorum” ( il buon vecchio “senso del pudore” il cui oltraggio è punito per legge e che si usa proprio per censurare i capezzoli delle donne), diventata virale su facebook per l’enorme numero di parole con cui è riuscita a dire “è un’indecenza signora mia”, ha ammesso che quell’uso del nudo è sedimentato nell’arte, forse consapevole che se lo avesse negato si sarebbe giocata qualsiasi straccio di credibilità in questo campo.

L’idea che mostrare il culo su una statua sia in sé, solo perché si è mostrato il culo (manco fosse un fallo eretto o una vagina bagnata) “sessualizzazione” è una barzelletta, è di una stupidità quasi commovente, spingerebbe a fornire un sussidio di invalidità a chi la propone.

I più furberrimi infatti se ne accorgono e inventano dunque giustificazioni più fantasiose ed elaborate per il loro “signora mia, che indecenza oggigiorno!”, tipo: “il problema non è il culo, è che un culo troppo sexy” (non come quello dei bronzi di Riace, del David, o le tette della Libertà di Delacroix, che sono tutti cessi); “il problema è che il culo non ha a che fare con il tema della statua” (mentre il pisello di fuori del David è integrale al mito biblico, e di certo non puoi rappresentare adeguatamente l’allegoria di Libertà senza mostrarne il seno); “le spigolatrici non si vestivano davvero così e non avevano il culo così allenato” (mentre i guerrieri greci notoriamente andavano in guerra seminudi e avevano il pene di un bambino di otto anni). Argomenti che farebbero ridere se non facessero piangere: sono gay, io, ero cresciuto in un mondo in cui la sinistra appoggiava la liberazione sessuale, in cui il progressista provocava e scandalizzava talora anche gratuitamente, e ora mi tocca vedere la schiera dei progressisti trasformatisi in zelanti guardiani del “decorum”… O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo.

Se dovessimo prendere sul serio quelle argomentazioni, si dedurrebbe che tutti costoro siano disposti ad accettare il nudo artistico come idea, sì: ma solo come una cosa del passato, defunta, che sta nei testi e nelle sculture antiche; se uno si permette di fare nudo artistico oggi – e quindi applicando standard estetici contemporanei – è una specie di mostro pervertito. Che coincidenza: tutti gli standard estetici della storia vanno bene e non sono sessualizzazione… tranne quelli che piacciono a noi italiani del 2021.

Forse ai nostri critici sarebbe andato bene se Stifano avesse scolpito una donna coi fianchi un po’ più larghi e il seno più piccino, insomma imitando di maniera gli standard neoclassici? Domanda che non avrà risposta, ma “devi per forza farla nello stile che piace a me se no è immorale” è comunque una pretesa che non puoi avanzare ad un artista: Stifano scolpisce nudi ispirandosi all’idea del corpo perfetto, e dunque renderà il corpo perfetto secondo standard che sono più o meno consapevolmente i suoi e del suo tempo: non ottocenteschi, non greco-classici. Certo, avrebbe potuto voler usare uno stile che evocasse nella mente l’immagine esatta della donna ottocentesca di ceto basso, magari ispirandosi a dipinti e sculture del tempo, e quindi creare la donna ottocentesca perfetta secondo l’uomo dell’ottocento, insomma darci una rievocazione ottecentesca, insomma ottocentare l’ottocento con l’ottocentazione dell’ottocento ottocentizzato… Avrebbe potuto. Invece ha fatto una scelta artistica diversa: enfatizzare quello che lui vede come corpo femminile archetipico. Ovviamente, non è davvero “archetipico” nel senso di universale e atemporale… ma nessuno degli archetipi femminili ritratti nell’arte classica è davvero al di sopra del suo tempo, l’arte è influenzata dal suo contesto anche quando si ispira all’idea di eterno, e quando il millenial pensa al corpo femminile in quanto tale non gli viene certo in mente quello della Primavera di Botticelli.

È quasi penoso vedere tanti omini e donnine arrampicarsi sugli specchi per dare interpretazioni diverse dell’opera, ma è davvero così semplice: è un nudo artistico, si è sempre fatto e non è che rappresentare un culo è più o meno sessista a seconda dei canoni estetici cui quel culo risponde; al massimo può renderlo sessista una posa provocante, un contesto ambiguo… ma non certo il fatto che sia bello o brutto, secco o ciccione, sodo o cadente.

In effetti, la Venere Callipigia citata da alcuni è già un esempio di una statua molto più erotica, ambigua e seducente della Spigolatrice, pur se non ha “il culo di una pin-up”. Sì, avete letto bene, tutti voi che dite che NON BISONNIA PARAGONALLLEEE SONO TOPPO DIVESSE; forse avete ragione, sono molto diverse: nella Venere c’è dell’erotismo, la posa è morbida e lei si guarda proprio le chiappe richiamando l’attenzione su di esse, mentre la spigolatrice è rigida come un palo, una posa quasi militare (sicuramente una scelta artistica precisa, visto che celebra il Risorgimento) che è estremamente anti-sesso. La verità è che tutto questo preteso “erotismo” e questa immaginaria “sessualizzazione” non discendono in alcun modo dalla posa o dall’espressione ritratti nella statua; essi derivano, nell’anima dei critici, dalla sola somma di due fattori: nudità e avvenenza. Se una donna è nuda ed è bella, automaticamente è “sessualizzata”. Mi raccomando, potete stare nude solo se siete brutte. E se qualcuno di voi si sta chiedendo se forse il vero pervertito non sia colui che di fronte ad un bel nudo femminile è capace solo di pensare alle scopate che ne discendono, mi spiace: siete maschilisti.

In realtà quella che nudo+bellezza=porno è una posizione del tutto insostenibile, e visto che i critici non possono affrontare direttamente questo snodo, il fatto che l’opera sia chiaramente un nudo non-erotico, perché farebbe naufragare la polemica in un oceano di peti mentali, allora ci si gira intorno. La trovata più brillante è quella di chi cerca di imitare (parodiare) Wilde e dice “la statua è innanzitutto brutta”, e poi aggiunge subito dopo “ed è anche immorale” (sì, esattamente come avrebbe fatto Wilde! Wilde coniugava sempre giudizi estetici e condanne morali). Come se il bacchettone fosse in realtà un esteta, come se le ragioni dell’immoralità affondassero in quelle della bruttezza, così fai lo slalom fra le – a quel punto ovvie – accuse di moralismo censorio che ti saresti guadagnato di diritto. No, lo sapete benissimo che non è vero, non la trovate né solo né principalmente “brutta”; ne siete principalmente offesi. Se davvero la riteneste solo brutta, se davvero il vostro fosse solo un giudizio di gusto, non giustifichereste le accuse pagliaccesche di sessismo verso l’autore, come quelle di Laura Boldrini, invece siete tutti a bordo di quella barca infame. Siete come quelli che quando sentono del black humor arruffano le penne e dicono “non mi piace non perché è immorale, ma perché non fa ridere!”. Tesoro, la ragione per cui non ti fa ridere che sei troppo impegnato a scandalizzarti, perché sei un cazzo di moralista bacchettone rompipalle, non perché se troppo intelligente e hai un gusto particolarmente raffinato, come vorresti farci credere.

… Ma visto che sempre di moralismo bacchettone si tratta, c’è qualche differenza fra questo moralismo di sinistra e il classico moralismo cristiano-conservatore tipo MOIGE, o è proprio la stessa cosa sotto un’altra veste?
Una differenza c’è: che dal punto di vista etico questo metodo qui è molto peggio, e la chiave di lettura per capirlo ce la dà la cheerleader di ogni battaglia cazzona, Lorenzo Tosa. Leggiamo le parole di questo genio:

“[…] non posso credere che qualcuno davvero non riesca a capire la differenza enorme tra libertà sessuale e sessualizzazione della donna.
La differenza tra la scelta delle donne e la scelta dell’artista (stranamente uomo).
Che non capiate la differenza tra una donna che, liberamente, sceglie di mostrarsi nuda o svestita senza dover chiedere il permesso a nessun uomo o marito o dover rendere conto a bigotti e bacchettoni e una statua che dovrebbe rappresentare una contadina dell’800 e ideali risorgimentali, e non certo gli stereotipi estetici di un maschio contemporaneo o un catalogo di Victoria’s Secret.”

Ecco il pezzo che ci mancava! Vedete, il vero problema, se ci fossero dubbi, non è il fatto che un artista del 2021 usi standard estetici del 2021 – anche se, dai, che il problema sia quello come scusa pare quasi convincente, se uno ha il QI a due cifre – piuttosto è che l’autore è un uomo. Se la stessa identica statua l’avesse fatta una donna, Tosa sarebbe lì in prima fila a difendere l’alto valore etico, artistico ed emancipatorio dell’opera.
Dando così una luce tutta nuova al concetto stesso del “fare due pesi e due misure”.
Nel pensiero morale classico fare due pesi e due misure è considerata la più abominevole aberrazione morale, perché contravviene alla base di ogni ragionamento etico: il principio di equità. Ma se quella distorsione la travesti da lotta progressista per l’uguaglianza, se ad essere ingiustamente discriminato e vittima di gratuito pregiudizio è il Mostro del momento, ovvero il famoso “maschio bianco eterosessuale” (parliamo di archetipi! Ma sarà eterosessuale, Stifano?), ecco che fare due pesi e due misure non solo è giustificato, ma è perfino nobile, doveroso, e sono sicuro che possiamo tirar fuori un Foucault, un Derrida o qualche altro filosofo francese per spennellare questa idiozia di una patina di finezza intellettuale.

E se qualcuno di voi ha un brividino nel vedere che si stia vendendo per elementare discorso morale la madre di tutte le aberrazioni morali, ovvero il giudicare un atto non in base a intento e impatto ma sulla sola base dell’identità di chi lo compie, se lo tenga stretto quel brivido, perché questa è l’etica che ci vende la sinistra nel 2021, e va sorvegliata strettamente perché tenterà, tenta già, di imporla a tutti.

Caro Emanuele, il mio suggerimento è: la prossima volta resta anonimo e firmati Emanuela. Non solo potrai continuare a ritrarre uomini in tutte le pose e velature che desideri (mai stato un problema, sono solo maschi dopotutto), ma potrai anche ritrarre le donne in qualsiasi posa desideri, anche piegate a novanta con un uccello in bocca e uno dietro ed un tatuaggio sul culo che dice “FUCK ME”; sarà empowering.

Almeno per un po’; perché la triste verità è che qui neanche le donne sono davvero al sicuro…

Ossequi





“Non bisogna far nascere le varianti”. Prima lezione di evoluzionismo per televirologi.

15 07 2021

Io nasco come biologo, neurobiologo molecolare, per la precisione. Ma mi sono in seguito convertito all’epidemiologia e biostatistica.

E in quest’anno e mezzo ne ho viste di corbellerie che voi umani non potete immaginarvi.

E non crediate sia stato indolore passare dal fare il debunking di ciarlatani animalisti laureati al CEPU a farlo all’Arcidottor Triprofessor Espertazzi, docente di Tutto all’Università dei Geni e consulente ufficiale del governo per il COVID-19.

Ma sapete la cosa interessante? Checché ne dicano certi, la scienza È democratica. Quindi, sì, posso tranquillamente correggere gli errori di gente che ha l’H-Index più lungo del mio. Anche perché, lasciatemelo dire: conta di più come lo sai usare.

In quest’anno e mezzo ne ho sentite tante, dicevo. Forse un giorno mi deciderò a trattarle tutte, ma per ora ce n’è una che mi preme particolarmente perché è tornata alla ribalta di recente.

Un anno di chiusure forzate è difficile da giustificarsi secondo qualsiasi criterio razionale; si sono dovuti tirar fuori sempre nuovi spauracchi per convincere la gente a sottostare a tutto ciò. E uno dei più efficaci sembra essere quello delle varianti. “Bisogna chiudere, bisogna che il virus non circoli! Altrimenti possono nascere varianti del virus peggiori!”

Al momento questo argomento sta conoscendo una rinascita perché lo si vuole usare per giustificare green pass e obbligo vaccinale, idee un po’ autoritarie ma che, lasciatemelo dire, dopo quello che abbiamo osservato in questi diciotto mesi mi sembrano quasi capolavori di pensiero liberale da accogliere a braccia aperte. Dunque, adesso bisogna farsi tutti il vaccino – ma proprio tutti, 100% della popolazione, che se ci riusciamo è la prima volta nella storia umana – perché sennò nascono le varianti.

Sono portato a pensare che il diffondersi di questo ennesimo meme virologico sia frutto dell’eccessiva specializzazione nel pensiero scientifico. La nascita di nuove varianti di un virus è un fenomeno evolutivo, dunque spiegare come funziona spetterebbe a gente con una profonda comprensione dell’evoluzionismo. Invece lo fanno virologi che, il più delle volte, sono espertissimi del virus ma se anche solo gli chiedi di parlare di un concetto epidemiologico, o naturalistico, vanno completamente in pappa. Boh, io non lo so… io ora sono epidemiologo, ma comunque feci tre esami di virologia, non vado nel pallone se mi si chiede come si classificano i virus, com’è fatto un capside, cos’è la carica infettante. Anche sul lavoro, il fatto che io non conosca solo gli strumenti statistici per analizzare i fenomeni, ma anche la biologia che sottostà, è uno dei miei asset più importanti. Com’è possibile che ci siano in giro tutti ‘sti professoroni che non hanno la più pallida idea di come funzioni la biologia fuori dal loro ambito iper-specialistico?

Comunque, è con questa mancanza di interdisciplinarietà che mi spiego come mai leggiamo in giro che “bisogna evitare che il virus circoli per non far spuntare le varianti”.

Purtroppo, anzi, per fortuna, ora devo fare una lezione base di biologia evoluzionistica che servirà per comprendere il seguito.

Non vi farò la storia di Darwin e del viaggio sul Beagle, potete leggerla in centomila posti quella… no, andiamo al dunque e tracciamo subito i capisaldi dell’evoluzione darwiniana. Possiamo riassumere la teoria in questione in tre grandi scoperte:

  1. Selezione naturale dei caratteri innati
  2. Speciazione
  3. Gradualismo

Vediamoli rapidamente uno per uno

  1. La selezione naturale dei caratteri innati

Questa è quella che più o meno conoscono tutti. Darwin ragionò che all’interno di ciascuna specie esiste una variabilità di fenotipi, e che in ciascun ambiente ciascuno di questi può conferire all’individuo un vantaggio nella sopravvivenza e nella riproduzione. Nei libri di scuola fanno l’esempio del collo delle giraffe: le giraffe col collo più lungo, in tempi remoti, avranno avuto un vantaggio su quelle col collo più corto, quindi sopravvivevano di più e avevano più occasioni di avere figli, anch’essi col collo lungo come loro. Attraverso questo meccanismo si diffondono nelle specie viventi dei caratteri vantaggiosi. In verità Darwin pensava che alcuni caratteri acquisiti si ereditassero, ma non era così. Oggi sappiamo che il meccanismo della selezione naturale sfrutta le mutazioni casuali nel genoma. Essenzialmente, i viventi sono caratterizzati da invarianza riproduttiva, ovvero fanno copie perfette delle loro informazioni nei figli. Ma questo meccanismo di copia perfetta in realtà perfetto non è, è costellato di errori inevitabili. Per lo più questi errori sono dannosi o addirittura mortali… ma ogni tanto uno di essi conferisce vantaggi in termini di sopravvivenza o riproduzione. Questo sarà proprio quello che viene conservato e passato ai figli, diventando così un piccolo step evolutivo.

La conoscenza di Darwin dell’uomo della strada, e anche di molti virologi con PhD, si ferma qui. E in effetti anche i critici di Darwin devono riconoscere come le specie viventi si adattino sotto pressione selettiva dell’ambiente. Dopotutto, lo stesso Darwin prendeva spunto dalla selezione artificiale operata dagli allevatori, la cui efficacia era e resta indiscutibile. Infatti, Darwin non si limitò a dire che esiste la selezione naturale, ma anche che essa porta a fenomeni di

2. Speciazione

Questo è davvero il punto centrale. Darwin non si limita ad affermare che esista la selezione naturale, ma anche che essa porti al realizzarsi di fenomeni di speciazione. Ovvero, data una specie A, possono esservi due sottopopolazioni di A, chiamiamole Ab e Ac, che sono sottoposte a pressioni selettive diverse. Un classico esempio di ciò si verifica quando Ab e Ac finiscono separate geograficamente, magari perché un terremoto ha diviso i loro habitat. A quel punto, sottoposte a pressioni selettive diverse, le due popolazioni iniziano ad accumulare e selezionare mutazioni che vanno in direzioni diverse. Queste mutazioni fanno sì che, prima o poi, Ab e Ac divergano al punto da non essere più nemmeno interfeconde, così che ora sono due nuove specie, B e C.

Charles Darwin notebooks with early ideas on evolution, "Tree of Life"  sketch, "stolen" from Cambridge University - CBS News

Ho fatto l’esempio della cosiddetta speciazione allopatrica, quando le due specie divergono perché divergono gli habitat. Ma in realtà due specie possono separarsi anche all’interno dello stesso habitat. La speciazione porta alla creazione di alberi filetici in cui ogni specie rappresenta una ramificazione. La teoria implica che in origine, in effetti, vi fosse una specie soltanto, da cui poi è discesa tutta la varietà esistente.

I critici di Darwin a questo punto dicono cose tipo “ma perché, credi davvero che un orso possa diventare una balena grazie ad una mutazione? Semmai le mutazioni sono svantaggiose e uccidono!”

Questo perché non hanno compreso l’altro caposaldo della teoria.

3. Il gradualismo

Assolutamente fondamentale. Nella teoria di Darwin non esistono salti del tipo “l’orso a cui crescono le pinne”. Le variazioni avvengono tutte a piccoli step. Anche quando in letteratura evoluzionisti leggiamo di fenomeni di speciazione “rapida” o “improvvisa” stiamo parlando comunque di fenomeni che si svolgono su una scala di tempo evolutiva.

L’evoluzione non si verifica da un giorno all’altro perché, toh, è spuntata una mutazione che cambia tutto, bensì attraverso una miriade di piccoli passi che si accumulano, in maniera graduale. Il gradualismo, appunto.

Ora, anche alla luce di questo piccolo riassunto, la teoria di Darwin ha degli aspetti non intuitivi da comprendere. Il più strano di essi è il ruolo preponderante che attribuisce alla variabilità casuale. Una misinterpretazione di questo è ciò che porta alla famosa obiezione dello zio complottista che non si beve questa storia dell’evoluzione: “e certo, tu credi davvero che tutto sia nato per caso?!”

E la risposta è NO. Infatti, se c’è una cosa che la teoria di Darwin illustra, è proprio che la diversità dei viventi non nasce “per caso”. Colui che riuscì a spiegare meglio il concetto fu Jacques Monod, padre della biologia molecolare, e autore di uno dei testi più importanti della filosofia della biologia, “Il Caso e la Necessità”.

Monod si pose proprio il problema fondamentale: com’è che la zampa del cavallo è “fatta apposta per correre”, se non c’era nessuno a farla apposta per correre? Insomma, com’è che gli esseri viventi sembrano tutti progettati con una funzione specifica, se essi sono diventati come sono “per caso”?

La risposta di Monod è che questa apparente “finalità” dei viventi, che chiama Teleonomia, non è frutto solo del caso, ma anche della necessità. Nel momento in cui la selezione naturale operi per un tempo abbastanza lungo, essa sfrutta le mutazioni casuali per costruire sistemi che funzionino in modo perfettamente adattato al contesto ambientale.

Non è un caso se i mammiferi che abitano nel deserto hanno tutti dei reni fenomenali, o piante del deserto che vengono dai lati opposti del globo, senza alcuna parentela recente, hanno adattamenti simili – la cosiddetta convergenza evolutiva.

Il “caso” si limita a esporre alle intemperie dell’ambiente un numero enorme di variazioni individuali. L’ambiente selezionerà quelle più utili. Non è il caso a fornire la direzione dell’evoluzione, è l’influsso “necessario” dell’ambiente. Il caso è solo il materiale di base, e per inciso, quel materiale è sempre disponibile in abbondanza.

Sostanzialmente perché l’evoluzione agisca c’è bisogno di tempo e pressione evolutiva. Dalle abbastanza di entrambi e avrai tutti i risultati che vuoi. Se ci si pensa, è abbastanza banale: nel lungo termine, i fenomeni casuali diventano deterministici. Se lanciate una moneta non avrete la più pallida idea del risultato, potrebbe essere testa o croce con uguale probabilità. Ma se la lanciate centomila volte, sarete abbastanza sicuri che circa cinquantamila saranno teste e altrettante croci. Nel lungo termine i fenomeni casuali finiscono col diventare prevedibili; e così non puoi prevedere come è quando apparirà una singola specifica mutazione, ma puoi prevedere che sotto una certa pressione selettiva si accumuleranno gradualmente mutazioni che rispondono a quella selezione.

Stiamo finalmente arrivando ad una comprensione un po’ più profonda delle dinamiche evolutive, ma voglio aggiungere un pezzettino che Monod omise, forse perché lo dava per scontato: oltre a caso e necessità, bisogna tener conto della possibilità. Anche i processi evolutivi si scontrano coi limiti fisici; puoi crescere generazioni su generazioni di batteri aumentando lentamente la temperatura in cui li allevi nel corso dei millenni… ma dubito molto che potrai far evolvere dei batteri ignifughi. Perché è fisicamente impossibile. Ho fatto un esempio estremo, ma a volte la “possibilità” è un fattore limitante anche in casi concreti. Amo fare l’esempio della Rubisco, uno degli enzimi più importanti e abbondanti in natura in quanto catalizza la fissazione dell’Anidride Carbonica nella fotosintesi clorofilliana. Teoricamente dovrebbe catalizzare solo la reazione della CO2… e invece catalizza anche una reazione con l’ossigeno, che non fa altro che diminuirne l’efficienza. Le piante spendono un sacco di energia soltanto nel rimuovere i prodotti di questo inconveniente, oppure usano altri trucchetti per evitarlo alla radice (per esempio fare in modo che l’ossigeno alla Rubisco non ci arrivi proprio). Ma non sarebbe più semplice fare una Rubisco che funzioni meglio?

Evidentemente no. Evidentemente questa Rubisco è il meglio che si possa fare, evolutivamente parlando.

Quindi, attenzione: l’evoluzione non può tutto, ha comunque dei limiti fisici e deve conciliare le varie esigenze di ogni organismo. Però, all’interno di questi suoi limiti fisici, l’evoluzione per selezione naturale è una forza scatenata.

Ora abbiamo capito come funziona il meccanismo?

Molto bene. Ora rispondete voi alla domanda: ha senso dire che si può impedire l’evoluzione di un virus ostacolandone la circolazione?

Ragazzi, l’evoluzione si verifica esattamente in risposta agli ostacoli. Essa è il frutto degli ostacoli.

Se noi cerchiamo di impedire ad un virus di circolare, quello, per quanto rientra nelle sue possibilità, si evolverà esattamente per aggirare i nostri ostacoli. È proprio quello il motore dell’evoluzione!

Gli experts che dichiarano che bisogna impedire al virus di circolare sembrano essere formati più su basi mediche che biologiche ed evolutive, e pare che ragionino come si ragiona quando prescrivi una terapia antibiotica ad un paziente con un’infezione batterica.

Quanto dai l’antibiotico tu vuoi ottenere l’eradicazione completa del patogeno dall’organismo. Per questa ragione dai una dose di antibiotico molto robusta: l’obbiettivo è stroncare l’infezione completamente, fare in modo che, di concerto col sistema immunitario del paziente, sino all’ultimo batterio venga sterminato. Questo perché sappiamo che se un solo focolaio sopravvive, avremo una recrudescenza, e questa volta potremmo avere un’infezione resistente all’antibiotico, selezionata proprio da noi.

Ma questo discorso funziona perché stiamo parlando di un paziente. UNO, un soggetto solo, un soggetto pienamente controllato per il quale è possibile pensare di sradicare completamente l’infezione – e d’altro canto, non farcela significherebbe la sua morte.

Ma se noi non avessimo la ragionevole certezza di riuscire a eradicare completamente tutti i focolai, avrebbe il minimo senso pensare di subissarli di antibiotico per non fargli sviluppare resistenza agli antibiotici? Ovviamente no, il batterio sviluppa resistenza agli antibiotici proprio perché lo abbiamo subissato di antibiotici ma non siamo riusciti a farlo fuori completamente. E negli ecosistemi, che non sono singoli pazienti, è così: se tu modifichi un ecosistema potresti far estinguere alcune specie o alcuni individui, ma quelle che sopravvivono si adatteranno al nuovo ambiente.

L’idea dietro questo principio sembra essere che noi impediamo l’evoluzione rimuovendo il fattore “caso”.

Ok, ma che razza di modo di ragionare è questo? Stiamo parlando di virus, non di tartarughe delle Galapagos. Non fanno un figlio ogni 45 anni del tutto identico a loro, fanno miliardi di copie al secondo e fanno errori di replicazione di continuo. Non puoi rimuovere la variabilità casuale, per fare quello dovresti azzerare completamente la circolazione. Se ti limiti a ridurre la circolazione, che poi è l’unico risultato umanamente conseguibile, gli hai forse dato qualche occasione in meno di mutare, ma in compenso lo stai praticamente obbligando, alla prima mutazione leggermente vantaggiosa che appaia, a fissarla subito. Insomma lo stai indirizzando verso un ben preciso percorso evolutivo tramite un’enorme pressione selettiva. E in effetti è quello che fanno gli antibiotici, no? Spingono l’evoluzione dei batteri in direzione di forme più resistenti. Ammazzano quasi tutti, ma se ne sopravvive anche solo uno… E uno sopravvive sempre, nel lungo termine. Per questo, nel lungo termine, è la necessità a dirigere l’evoluzione.

Ma sapete che vi dico? Diciamo che non vi fidate di me quando vi dico queste cose. Sono troppo giovane, non ho ancora un H-index di 72, ho un dottorato ma non era in virologia, sono epidemiologo ma non vado in TV, quindi la mia interpretazione delle dinamiche evolutive non vi convince.

Forse vi convincerete guardando coi vostri occhi?

Un anno a dirci che bisognava tenere tutto chiuso “se no spuntavano nuove varianti”. Abbiamo dunque evitato la comparsa di nuove varianti?

Prima è spuntata l’inglese, ora la delta. L’R0 del virus originariamente era 2.5, ora è 7. Una crescita mostruosa. Per fare un paragone, l’influenza, che gira da un’eternità, ha un R0 che varia casualmente fra 1 e 2 circa ogni anno. Muta moltissimo, e torna tutti gli anni. Eppure, il suo R0 oscilla sempre là in mezzo, anche la Spagnola aveva quei valori lì.

SARS-CoV-2 in diciotto mesi è passato da circa 2 a circa 7. Diciotto mesi. E nonostante tutti i nostri lockdown. Non riesco a immaginare un fallimento più totale, se l’obbiettivo era impedire che evolvesse.

Volete un parere evoluzionistico sulla cosa?

Non è passato da 2 a 7 nonostante i nostri lockdown. È passato da 2 a 7 per via dei nostri lockdown.

Dal punto di vista evoluzionistico, questa è proprio una diagnosi banale. Ridurre la circolazione non significa azzerarla. E il problema quando si parla di pressione evolutiva non sono tutti i soggetti che l’evoluzione ha stroncato, bensì proprio quei pochissimi che ce l’hanno fatta e sono tornati più forti di prima.

Come abbiamo agito noi nei confronti di SARS-CoV-2?

Per prima cosa abbiamo impedito che circolasse liberamente, in questo modo l’epidemia non ha potuto svolgere il suo ciclo naturale, che l’avrebbe fatta esaurire in un tempo compreso fra sei mesi e un anno. Così facendo noi non abbiamo sviluppato alcuna immunità, quindi di fatto l’unico freno alla circolazione del virus erano proprio i lockdown. E in compenso abbiamo dato all’evoluzione la cosa che le serve più di tutte: tempo. Un sacco di tempo per sperimentare con le mutazioni casuali.

Dopodiché abbiamo iniziato a piantare intorno al virus un sacco di ostacoli da superare. Ostacoli che, attenzione, ovviamente non bastavano a sterminarlo (quello può farlo solo il vaccino, e forse manco lui), ma gli rendevano solo la vita difficile.

Che una variante cattiva come la delta spuntasse fuori per caso era più o meno inevitabile, ma la maggior parte di queste varianti spariscono subito. Perché? Perché di solito un vantaggio da un lato comporta uno svantaggio da qualche altra parte, e se un certo adattamento non è veramente utile non viene selezionato. Perché alcuni virus che pure mutano tantissimo vanno avanti da milioni di anni con un R0 intorno ad 1, quando per esempio il morbillo arriva a 14? Non dovrebbero diventare tutti sempre più contagiosi? La risposta è che se l’R0 che hanno basta per fare il loro lavoro, forme più aggressive non avranno un vantaggio evolutivo significativo.

L’R0 di 2.5 di SARS-CoV-2 era più che dignitoso, e in effetti la risposta della politica all’epidemia si giustificava, almeno all’inizio (inutile tentare di tener traccia di tutte le giravolte retoriche fatte in tal senso) non tanto sulla mortalità che comunque era bassa, quanto sulla contagiosità elevata che avrebbe saturato le terapie intensive etc etc.
Proprio perché 2.5 era ragguardevole, bastava e avanzava. Una variante con R0 di 7 verosimilmente non sarebbe andata lontano, visto che si sarebbe trovata circondata di gente che o aveva già la variante normale, oppure l’aveva avuta in precedenza e si era immunizzata. Inoltre, una contagiosità così elevata verosimilmente qualche “prezzo” da pagare, evolutivamente, ce l’ha. Ma quel che sia, non importa: noi abbiamo creato l’ambiente ideale per l’evoluzione di varianti più contagiose mettendo in difficoltà quelle un po’ più benigne.

Attraverso la selezione naturale (artificiale?), gradualmente, abbiamo favorito una serie di varianti che sono via via più adatte all’ambiente che abbiamo creato. Darwinism 101.

Attenzione, è esattamente così che si fa evoluzione guidata.   

Vuoi creare varianti più pericolose? Prendi le varianti normali, dagli mesi e mesi e mesi di tempo per adattarsi, gli metti intorno più ostacoli possibile ma, ovviamente, senza sradicarle del tutto, e aspetti che i pochi sopravvissuti diventino dominanti. L’aspettativa di un esperimento del genere è che nasca una variante più pericolosa. Anzi, verrebbe da chiedere… ma non era esattamente questo l’obbiettivo? Cioè, praticamente abbiamo seguito un manuale di istruzioni per creare varianti più pericolose.

Immaginatevi se arrivasse uno scienziato e vi dicesse che bisogna prendere tutti gli antibiotici che abbiamo e bisogna metterli ovunque: nel cibo, nell’acqua, nell’aria, in ogni luogo; perché così i batteri circolano di meno e si farà meno resistenza agli antibiotici. Vi sembrerebbe sensato? Appunto.

So, what next?

Adesso bisogna vaccinare tutti per impedire che nascano varianti che resistono al vaccino.

Se vi state domandando se questa idea è più sensata dell’altra, quella di usare i lockdown… no, non lo è molto. L’unica differenza è che, mentre i lockdown sono proprio una tecnica di contenimento cafona che usavano già senza successo nel ‘600, un fallimento annunciato insomma, il vaccino è la più raffinata arma di lotta alle epidemie mai creata. Ma anche così, eradicare completamente un patogeno non è mai facile. Se parliamo di virus umani, abbiamo eliminato completamente il vaiolo e siamo sulla buona strada per la poliomelite. Ma sono solo due, eh, non sono cinquemila. E ci sono voluti decenni, ed erano genomicamente stabili. È plausibile che riusciamo a eradicare completamente questo virus in pochi mesi, invece? Anche se riuscissimo a vaccinare il 100% della popolazione, vorrei sottolineare che SARS-CoV-2 ha già ora una certa capacità di evadere il vaccino. Quindi io mi aspetto che anche se vaccinassimo il 100% quello non scompaia. E non riusciremo mai a vaccinare il 100%.

Se lo chiedete a me, no, io non ci credo che lo eradichiamo. Quindi spunteranno per forza varianti resistenti al vaccino?

Non è detto. Come dicevo prima, Caso, Necessità… ma anche Possibilità. Non è mica detto che scappare al vaccino al 100% sia una cosa possibile per il virus. Magari quello che abbiamo visto sinora è il meglio che riesce a fare. Dopotutto, il vaiolo e la polio hanno avuto tutto il tempo che volevano per mutare e diventare resistenti, eppure non ci sono mai riusciti. Quindi magari nemmeno SARS-CoV-2 ci riuscirà mai.

Certo, considerato che sinora la campagna vaccinale è stato un successo stratosferico, il mio suggerimento non potrà essere che magari evitare di premere troppo sull’acceleratore delle vaccinazioni; la campagna funziona benissimo, perché rischiare di mettere il virus troppo alle strette, indirizzandolo così su un certo specifico sentiero evolutivo? Tanto circolerà sempre da qualche parte; il punto non è impedire che spuntino mutazioni, che è fantascientifico, quanto evitare di creare un ambiente in cui le mutazioni più cattive diventino immediatamente dominanti. E quindi, insomma, ‘sto virus… cioè, potrebbe anche circolare un pochetto, specie ora che non sta uccidendo più nessuno, no? Cioè, non sarebbe la fine del mondo.

Però qui ci si scontra con la grande metamorfosi filosofica dell’occidente, tema che ho già affrontato in un intervento precedente. La pandemia è diventata per l’umanità, anzi, per l’occidente (figurati in Africa dove ogni anno muoiono 1.2 milioni di persone di AIDS quanto gli frega del COVID) un raffinato esercizio di hybris. Questa epidemia è un’occasione per mostrare come la Tecnica sia in grado di esercitare un dominio assoluto sulla Natura. Questo virus va sottomesso, bisogna mostrargli chi comanda, bisogna fargli vedere che noi non ci stiamo a morire per cause naturali. Ciò significa: annientamento totale e definitivo, umiliazione, perfino.

Ignoro perché proprio questa malattia qui sia diventata il campo di battaglia per dimostrare una questione di principio filosofica. Ipotizzo sia perché si è permessa di essere imprevista da un lato e completamente “naturale” dall’altro. Non avrebbe avuto senso, per esempio, fare la stessa battaglia contro il cancro al polmone, visto che è dovuto quasi sempre al fumo (quindi non è “naturale”) e per di più è una presenza fissa nelle nostre vite (quindi non è un “imprevisto”), e di conseguenza non è una minaccia alla nostra idea di controllo della natura.

Dunque la mia impressione è che anche solo la proposta che forse potremmo lasciare dei margini di esistenza a SARS-CoV-2 sarà trovata da molti quasi offensiva della dignità umana. No, dannazione, bisogna fargliela vedere a questo stronzo, noi siamo più forti, dobbiamo annientarlo.

La mia speranza è che riusciamo a dimostrare questo punto filosofico efficacemente, definitivamente e al più presto possibile.

Perché spesso chi non si piega mai finisce con lo spezzarsi.

Ossequi





STAR WORDS: “L’uso sessista della lingua”

9 03 2021

Dal 2020 in poi alcuni aspetti della mi vita sono molto cambiati, e il più importante di essi è il mio rapporto con la mia bolla. Il 2020 è stato l’anno segnato dalla pandemia di COVID-19 e dall’esplosione della bomba del politicamente corretto, due questioni su cui mi sono trovato sul lato opposto a un po’ tutta la cultura di centro sinistra che sembra rappresentare la maggioranza dei miei lettori.

Amen and Awomen - 9GAG

Senza perderci per ora sulle questioni collegate al coronavirus, andiamo sul fronte del politicamente corretto, e in particolare sulla più grande cagat… pardon, intendevo, sulla questione più importante, centrale e controversa che è stata sollevata da sinistra ultimamente. E ovviamente non sto parlando di razzismo sistemico, diritti riproduttivi, violenza sulle donne, ma della declinazione femminile dei mestieri.

Il caso ritorna periodicamente alla ribalta ma in questo periodo peggio del solito, testimonianza imperitura di quanto durante il lockdown godiamo di troppo tempo libero, e recentemente il pretesto che ha riportato l’attenzione su di esso sono state le dichiarazioni di Beatrice Venezi, direttore dell’orchestra dell’Ariston, che ha dichiarato la preferenza per il titolo “direttore d’orchestra”, declinato al maschile non marcato, sul femminile “direttrice d’orchestra”.

Apriti cielo.

La poveretta non immaginava la gravità delle sue affermazioni, esternazioni ai limiti del nazismo che con poche parole hanno cancellato secoli di diritti delle donne, avallato femminicidio e burqa, peggiorato significativamente il riscaldamento globale e fatto piangere Gesù.

Riuscite a immaginare un tema più fondamentale su cui un progressista potrebbe decidere di concentrarsi? Letteralmente impossibile, suppongo.

Ora, sarebbe molto facile dire in questo caso che i problemi sono ben altri, ma verrei accusato di “benaltrismo”.

Il che mi permette di fare la prima importante precisazione a riguardo: asserire o implicare che certi problemi meno seri non debbano essere trattati affatto, nel nome del fatto che ce ne siano altri più seri, è un ragionamento chiaramente fallace: quello che chiamiamo “benaltrismo”, appunto. Questo però non significa che sia sbagliato in generale stabilire una gerarchia di rilevanza dei problemi e, sulla base di questa, assegnare delle priorità e stabilire una proporzione di risorse da dedicare alla questione. Che un discorso su come si declina al femminile una parola possa occupare i giornali per giorni rappresenta chiaramente un caso in cui il senso delle priorità nei discorsi e nei problemi va perduto, così come in generale la stessa tendenza è espressa da tutti i commenti indignati di femministi e femministe che trattano Beatrice Venezi come una specie di traditrice maxima colpevole di tutti i mali della terra. Rilassiamoci, tesori, “direttore” è UNA CAZZO DI PAROLA, non un omicidio.

Ma a parte questo, insistere sul fatto che i problemi siano ben altri, qui, sarebbe comunque ipocrita da parte mia, perché io non penso che le declinazioni femminili dei nomi siano un problema piccolo o di scarsa importanza: io penso che NON SIANO un problema, e che la proporzione delle risorse politiche e dell’attenzione pubblica da rivolgervi dovrebbe essere non “poco”, ma precisamente zero. E se mentre di suo il problema in sé è un non-problema, è un problema il fatto che il non-problema diventi un problema, non so se mi spiego. Ed è su questo ultimo aspetto che mi sento obbligato a intervenire.

Ma prima di procedere con l’esposizione della mia opinione a riguardo, occorre levare di torno alcune formalità. La prima di esse è: cosa dice la grammatica a riguardo?

STAR WORDS EPISODE I: THE GRAMMATICAL MENACE

Ora, alcune discussioni sui social mi hanno fatto scoprire che a questo riguardo, nelle bolle ideologiche “di sinistra”, si è sviluppata la credenza che usare il maschile per professioni svolte da donne sia sbagliato, e sia obbligatorio invece utilizzare il femminile. La Venezi, quindi, non avrebbe soltanto annientato secoli di lotte per l’emancipazione femminile, ma commesso anche un errore grammaticale. Il Lato Oscuro è potente in questa donna.

Questo sarebbe un interessante caso di studio su come si crea e moltiplica una credenza completamente infondata in comunità all’interno delle quali nessuno ti contraddice. Perché niente di tutto ciò corrisponde a vero. Ora dovrò dire delle cose che dopo averle dette sembreranno banalità, ma evidentemente è necessario ripeterle.

La prima cosa da fare è enunciare un principio generale su cosa significhi “grammaticalmente corretto”. La grammatica è un insieme di regole formali che ordinano il nostro linguaggio rendendolo comprensibile a tutti i parlanti. Poiché il principio centrale di funzionamento di ogni lingua è l’intendersi a vicenda, in realtà risulta corretto tutto quello il cui uso diventa abbastanza esteso e radicato da essere inteso da tutti con la medesima agevolezza e senza storcimenti il naso. Quindi, a priori, qualsiasi forma può essere corretta, se tutti la usano. Un caso particolarmente tragico che spesso cito a riguardo è la dicitura “il/un pneumatico”. Ragazzi, ma come cazzo fate a pronunciare un obbrobrio simile? È oggettivamente cacofonico perché obbliga a inanellare una “n” e poi una “p” e poi un’altra “n” senza nessuna vocale di mezzo, sembra il nome di un alieno. Eppure, vi garantisco che word non lo corregge, e la Crusca lo ha dichiarato accettabile, pur indicando la forma “lo/uno pneumatico” come più adeguata ad un registro formale. Questo perché è una questione di uso, e se lo usano tutti, raga’, sembra che mi toccherà sopportarlo.

E la Crusca, quando è chiamata a giudicare sulla correttezza di una forma o di un’altra, alla fin fine applica un primo metro che è di correttezza “formale”, ovvero se il costrutto sia coerente con norme sedimentate nella nostra lingua, e poi va a valutare se l’espressione contesa sia utilizzata e diffusa a sufficienza da potersi ritenere “corretta”.

Riguardo alla questione dei femminili dei nomi di mestiere la Crusca è intervenuta esclusivamente per dire che essi sono in generale “ben formati”, ovvero la loro formazione è compatibile con i principi noti della grammatica. Dunque, queste forme sono ammissibili.

Non ha però MAI detto che siano obbligatorie, necessarie, che non usarle sia un errore. MAI. E il presidente della Crusca, Marazzini, è intervenuto sulla questione posta da Beatrice Venezi per asserire che se “direttrice” sarebbe stato corretto, lo è anche “direttore”. Marazzini ha anche specificato che l’uso in questione si chiama maschile inclusivo, o maschile non marcato, che potremmo definire un uso del maschile in senso neutro.

Nella mia bolla ideologica si è diffusa di fronte a questa asserzione una risposta automatica, tipo quelle che metti nella mail: “MA IN ITALIANO NON ESISTE IL GENERE NEUTROOOO!”

Wow. Geniale. Tutti quanti esperti di linguistica. Ci vuole davvero una mente superiore per accorgersi che in italiano non c’è il genere neutro. Probabilmente questo sta in cima al podio degli argomenti più capziosi che abbia mai udito nella mia vita: ovvio che non c’è il genere grammaticale neutro in Italiano, ma in italiano, come in tutte le lingue, esiste un uso neutro dei termini. Non si può sempre specificare il genere sessuale di persone o animali; se io per strada ho visto un lupo non ho modo di sapere se sia maschio o femmina, quindi mi serve una forma che abbia un significato neutro rispetto alla questione. Poiché come molti argutamente notano in italiano il genere neutro non esiste, quel ruolo lo svolge il genere maschile, dunque “ho visto un lupo”, e non “ho visto una lupa” e nemmeno facezie tipo “ho visto un* lup*”.

Questo uso si chiama “maschile non marcato”: il genere grammaticale è maschile, ma include come significato tanto il maschile che il femminile. Quindi per neutralizzare i vari sofisti che ti inchiodano se ti permetti di dire che in Italiano c’è il maschile neutro, con un colpo di mano io dirò sempre “maschile non marcato”, facendo così esplodere come una scorreggia la loro potente retorica.

Chiaramente a decretare se il maschile non marcato sia corretto o meno o se sia preferibile o meno alle forme declinate sarà l’uso, ma è chiaro che in questo momento l’uso o il non uso non è ancora sedimentato in modo tanto preponderante da giustificare chi, da un lato o dall’altro del dibattito, voglia accusare il prossimo di star commettendo strafalcioni linguistici.

Dunque dire che la Venezi è “direttore d’orchestra” è corretto, grammaticalmente. Ma questo non la scagiona dal crimine ben più grave di cui la si accusa: ella ha letteralmente annientato secoli di lotte femministe.

Ma come ha fatto? Donde proviene questo straordinario potere?

Lo scopriamo subito.

STAR WORDS EPISODE II: ATTACK OF THE GENDERS

Tutto inizia, in Italia almeno, con un libro vecchio esattamente quanto me; “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” di Alma Sabatini.

Prevedibilmente l’origine di questo filone è fuori dall’Italia e come al solito gli italiani sono andati a copiare mode straniere anche in questo, ma in sostanza il saggio in questione è una lunghissima masturbazione intellettuale dell’autrice che è andata a spulciarsi Dio sa quanti giornali e annunci di lavoro per catalogarne uno per uno tutti gli usi del maschile non marcato o sovraesteso e dire “questo è il male”.

Non mentirò dicendo di essermi sottoposto alla tortura di leggermelo tutto, perché onestamente non rientra nei limiti della mia umana sopportazione riuscire a sottopormi ad uno sfracellamento di palle così esteso e approfondito. E non sarebbe servito, perché la questione che interessa a me quel testo non la tratta. Ho letto l’introduzione e scoperto che la Sabatini parlava di come la lingua influenza la realtà e il nostro pensiero, di quanto questa idea sia accettata da Tutti i Linguisti® (gli stessi Tutti i Linguisti® che pensavano che il maschile non marcato fosse sbagliato, ipotizzo) ma non pare si prenda il disturbo di fornire referenze che giustifichino questo argomento. Peccato che sia… come dire… IL FULCRO DI TUTTO IL DISCORSO?

Quella tesi del “linguaggio che influenza la realtà” l’ho sentita ripetere ad nauseam in questi giorni, ma nessuno me l’ha mai giustificata con dei dati. Il ragionamento che c’è dietro sembra essere che l’uso del maschile non marcato in qualche modo “invisibilizza le donne”, e poiché “il linguaggio plasma la realtà” – e altri luoghi comuni pseudofilosofici che non significano un cazzo di niente – questo in qualche modo propaga ed alimenta la sottomissione delle donne.

Come lo fa? Perché? In che modo si suppone che agisca?

Domande che uno in questi casi tenderebbe a porsi, ma cui nessuno perde troppo tempo a rispondere. A rigor di logica, è impossibile vedere un modo in cui un uso linguistico come il maschile universale possa influenzare la realtà in qualunque maniera. Come dicevo sopra, il maschile inclusivo è una convenzione linguistica, e in quanto tale si basa sulla comune intesa del suo significato, e il genere grammaticale stesso in generale è una convenzione: va da sé che una -a o una -o alla fine di una parola non abbiano alcuna implicazione sociale se non quella che vogliamo attribuirvi. Se è per questo, in italiano “il contralto” e “il soprano” sono termini di genere maschile, eppure contralti e soprani sono tutti femmine; in che modo questa nozione dovrebbe “plasmare la realtà” o alterare il pensiero o altre facezie di questo genere? Sono solo sequenze di suoni, mica evocano demoni. Se noi ci intendiamo che un contralto è una femmina quale altro effetto potrebbe mai avere quell’uso linguistico sulla nostra psiche?

Difficile rispondere ad un argomento che nessuno ha portato, a dei dati che nessuno ha prodotto, ad un’idea che nessuno ha supportato. Mi sono andato a cercare dei dati su questa presunta influenza del maschile inclusivo sulla psiche delle persone, e non ne ho trovati. Ho chiesto a chi conduceva questa crociata di portarmeli lui, ma nessuno lo ha fatto. Vi prego, lettori miei, se avete qualche dato che indichi 1) la correlazione fra maschile inclusivo e atteggiamenti sessisti e anche 2) il rapporto di causalità del primo verso i secondi, linkatemelo qui sotto. VOGLIO leggere questo lavoro rivoluzionario.

Anche perché sarebbe interessante capire COME CAZZO POSSA FUNZIONARE UNA COSA DEL GENERE. Perché onestamente, non si riesce a ipotizzare una plausibilità o un meccanismo di azione per questo presunto effetto. Normalmente il linguaggio è il sistema che permette di intendersi associando segni a idee: se io vado in Giappone, fermo qualcuno per strada e gli dico con un bel sorriso “sei un figlio di puttana” e poi me ne vado, quello, che non sa l’italiano, resterà un po’ perplesso, cercherà di indovinare cosa potessi voler dire, e non registrerà minimamente l’insulto. Questo perché non ha uno schema di significati da calarvi sopra e che gli permetta di trarne un senso. Non c’è l’intesa fra me e lui secondo la quale “figlio di puttana” è un insulto molto volgare. Questo meccanismo del quadro comune di significato è alla base dell’intendersi e dunque del linguaggio, è sulla base dell’intesa che il linguaggio esercita l’effetto. Non sulla base dei suoni, non sulla base degli intenti, non sulla base dell’etimo. Sull’intesa, solo quella.

Ora, sicuramente le parole plasmano i comportamenti delle persone, questo è così lapalissiano da non necessitare nemmeno di dati a supporto… ma lo fanno attraverso uno schema di significati. La parola evoca il suo significato nella mente dell’altro, è così che lo influenza. “Figlio di puttana” è un insulto se entrambi lo intendiamo come tale, ovverosia solo se io voglio usarlo come insulto e il mio interlocutore lo vede anch’egli come un insulto.
Ma con il maschile inclusivo lo schema di significato dice che quel maschile grammaticale ha un significato neutro, che comprende tanto il maschile che il femminile; non c’è nessuna “invisibilizzazione” o negazione delle donne, sono comprese nel significato. Rispetto al significato, l’unica differenza fra “direttrice d’orchestra” e “direttore d’orchestra” è che nel primo caso voglio specificare che la Venezi è una donna, e nel secondo invece potrebbe essere sia donna che maschio. Quindi questo crea un uso differenziale nel momento in cui io voglia dire, per esempio, “è la migliore direttrice d’orchestra del mondo” che avrà un senso diverso da “è il miglior direttore d’orchestra del mondo”: nel primo ci limitiamo ai direttori donna, nel secondo a tutti. E se invece volessimo dire che un uomo è il miglior direttore d’orchestra, ma limitatamente agli uomini? Allora dovremmo dire “è il miglior direttore d’orchestra uomo”.
Caspita, molto razzista nei confronti degli uomini dover aggiungere quella parola per specificare che parliamo dei maschi, vero…?

No, non è vero. Stiamo solo cercando di trasmettere significato e di capirci, non ci sono chissà quali malignità dietro. La Venezi preferisce enunciare il proprio ruolo senza accentuare il proprio sesso, ma ciò non significa che stia dicendo di essere uomo, o che solo gli uomini possono avere quel ruolo, o che non esistano direttrici d’orchestra donne (seriously? Ma come si fa a pensare un’idiozia simile?). Semplicemente affida alla regola grammaticale del maschile inclusivo l’intesa che potrebbe essere sia maschio che femmina.

Quindi sul piano del significato stiamo parlano letteralmente del nulla: “direttore” o “direttrice” differiscono esclusivamente per una sfumatura di enfasi sulla forma dei genitali della persona. “Il direttore d’orchestra” vuol dire “la persona che dirige l’orchestra”, maschio o femmina che sia. Fine.

Quindi, quale che sia l’influenza che si attribuisce a questo linguaggio capace di “plasmare la realtà”, la cosa strana è che questa influenza prescinde dal significato. Ovvero prescinde dalla funzione stessa svolta dal linguaggio, che è quella di intendersi.

Sì, il maschine inclusivo significa “neutro”, è il suo modo di funzionamento. Eppure, si dice, anche così in qualche modo avrebbe il potere di negare la femminilità. Viene attribuito qui, alla parola, un potere che trascende il suo senso, il modo in cui viene intesa. Vi è in essa un qualcosa di più, un aspetto ineffabile e sottile, subconscio, pervasivo ma impercettibile al tempo stesso.

Uhm.

Una filosofia del linguaggio in cui le parole hanno valore indipendentemente da come le intende chi le ascolta…

Dov’è che abbiamo già visto una cosa del genere?

STAR WORDS EPISODE III: REVENGE OF THE CAZZARIS

Oh, sì, scrissi fiumi di inchiostro per criticare la filosofia del linguaggio di Gualtiero Cannarsi, in un mio articolo che riscosse un discreto successo.

Forse me la giocavo troppo facile: dopotutto il lavoro di Cannarsi è evidentemente disastroso, quindi andare a spiegare quali sono i vizi filosofici che stanno dietro a quel disastro è semplicemente un esplicitare qualcosa che il lettore già sa e con cui concorda.

Non altrettanto immediato, però, è riuscire a capire nel profondo l’estensione e il significato dei vizi filosofici di Cannarsi, e quindi vedere gli stessi vizi se vengono applicati in altri ambiti, magari in modo meno plateale, più subdolo.

Il mio suggerimento è di andare a leggere l’articolo su Cannarsi prima di andare avanti, se non l’aveste già fatto; ma se non volete vi faccio un breve riassunto delle puntate precedenti: Cannarsi è un adattatore che presta la propria fenomenale competenza per gli adattamenti in italiano degli anime dello Studio Ghibli. Più che famoso è famigerato perché i suoi adattamenti sono caratterizzati da una strana e macchinosa traduzione letteralista: Cannarsi non tenta di tradurre il giapponese nella forma italiana che meglio ne riproduce il senso, bensì in quella che meglio ne riproduce la lettera (qualche esempio). I risultati sono quelli che si possono immaginare: non puoi riprodurre strutture sintattiche e costrutti specifici di una lingua alla lettera in un’altra lingua, ne esce fuori una roba che è incomprensibile nella lingua d’arrivo. Difatti, questo è quello che fanno i programmi di traduzione come Google Translate: prendono le parole e cercano la parola corrispondente in Italiano, perché non hanno la capacità di capire il senso e non sanno renderlo. Non cambiano l’ordine delle parole, non cercano il termine che renda meglio l’intento comunicativo dell’originale, non si sforzano di riprodurre le stesse impressioni e in generale gli stessi significati. E Cannarsi fa la stessa cosa, in un certo senso egli traduce cercando di non tradurre, traduce senza occuparsi di rendere bene il senso; egli sembra considerare la traduzione automatica fatta dai programmi appositi una specie di ideale regolativo.

La filosofia del linguaggio di Cannarsi, che nell’altro articolo paragonavo a quella dei letteralisti biblici, sarebbe quella secondo cui in un testo, in una sequenza di parole, il nucleo che conta di più non sia il significato, bensì un universo di rimandi e relazioni esterne fra le parole stesse, che sta nel loro ordine, nel loro suono, nella loro lunghezza e frequenza.

Ora, non è che i rimandi, le allusioni, gli echi, la storia e l’etimo di una parola non siano utili nella composizione o traduzione di un testo. Figurarsi. Sono importanti alla luce di quanto possono precisare e delineare meglio sfumature di senso… ma non fino a mettere in parentesi il senso, non fino a mettere il senso in disparte o perfino oscurarlo. Gli orrori linguistici di un ragionamento secondo cui nell’analisi del linguaggio si può accantonare il problema di cosa esso trasmetta, di cosa esso significhi, in favore di una fantomatica riverenza nei confronti della sua forma, sono autoevidenti: perdi il senso, scrivi cose che non significano niente.

E questo modus cogitandi cannarsiano è lo stesso che sta dietro tutte queste epiche battaglie contro il sessismo nella lingua. “Direttore d’orchestra” al maschile ha un significato neutro, è questo che significa e non c’è molto dibattito possibile a riguardo (specie se a usarlo in quel modo è proprio una donna che dirige l’orchestra, quindi non vi sono possibili ambiguità). Ma alcuni non sono contenti di ciò che significa, non gli basta, e vanno ad immaginare che quella forma possa rimandare ad altro: si guardano la storia, la sequenza dei suoni, l’etimo – generalmente in modo molto superficiale, peraltro – e iniziano a fare ipotesi sul perché e sul percome si usi un maschile grammaticale… e in tutta questa analisi viene però completamente cancellato il significato, e cioè quello di un’espressione che è neutra rispetto al genere.

Esattamente come Cannarsi si maschera da grande cultore di lingua e cultura giapponese e traveste i suoi pastrocchi da raffinati esercizi intellettuali, le riflessioni insistite ed ossessive sul genere grammaticale diventano anch’esse grandissime masturbazioni intellettuali che superficialmente paiono complesse e argute, ma di fatto non hanno alcun contatto con la realtà. Semplicemente, mentre a Cannarsi non riesce bene di farsi passare per genio e cultore della lingua, ai cazzari che impostano epiche battaglie per le sorti dell’umanità su di una convenzione grammaticale questa recita riesce un po’ meglio. Ma non vi sono differenze filosofiche: dietro la mascherata di grande avanzamento scientifico e sociale si nasconde una profonda regressione culturale che riconduce il pensiero ad uno stadio pre-linguistico, una condizione in cui segni e simboli non possono più essere compresi in quanto significanti, ma diventano formule magiche e riti.

Perché in effetti che cos’è la frase “il linguaggio plasma la realtà”, se non una dichiarazione di fede nella magia? La convinzione che segni e suoi influenzino la struttura della natura è alla base del pensiero magico primitivo. Questo non è progresso sociale, politico, scientifico. Molto banalmente, si chiama superstizione.

Conclusioni

E qui si ritorna all’inizio, quando dicevo che i problemi sono ben altri, e c’è chi molto a luogo fa notare che i problemi sono ben altri, ma nel frattempo su questo problema ho scritto sei pagine di word.

Ma d’altro canto, perché in passato ho scritto tanto anche su Cannarsi, quando a me gli anime dello Studio Ghibli manco piacciono particolarmente?

Perché se è vero che la desinenza di un sostantivo non cambia di una virgola la vita di nessuna donna o uomo della terra, e in questo senso si potrebbe semplicemente ignorarla, quello che non si può ignorare è il deterioramento filosofico che questa battaglia porta con sé. Di fatto, quando un dibattito del genere si impone sul pubblico, questo è sintomo di un generale abbrutimento intellettuale, di una perdita del contatto proprio con la lingua, con le sue funzioni, potenzialità e scopi, e in generale di un’involuzione delle nostre capacità di pensiero astratto.

Non ultimo, piantare grane epiche su queste sciocchezze ha tutta una serie di effetti collaterali pericolosi: si vanno a creare divisioni e conflitti politici gravi sulla base di temi di infima importanza, si fornisce agli estremisti un pretesto per incancrenirsi ulteriormente nelle proprie posizioni, e ci si aliena gli alleati. Personalmente, sono stato attaccato ed insultato per le mie opinioni abbastanza da alienarmi per sempre le simpatie di qualsiasi causa femminista, anche quelle che condivido, perché non ho intenzione di trovarmi affiliato o nella stessa squadra con dei nazisti linguistici pronti a darmi di fascio sulla base di una -a o di una -o alla fine di una parola.

In buona sintesi, queste battaglie linguistiche sono in primis inutili, in secondo luogo sono spesso semplicemente sbagliate (come quando si afferma erroneamente che il maschile non marcato sia scorretto), successivamente hanno presupposti filosofici viziati, e come se non bastasse scatenano conflitti che però possono avere conseguenze, queste sì, serie.

Con un rapporto costi-benefici così disastrosamente sbilanciato dalla parte del danno una persona intelligente una battaglia così la abbandonerebbe subito, o quanto meno ne smorzerebbe TANTO i toni.

Non che di persone intelligenti il mondo sia prodigo, purtroppo.

Ossequi.
E anche ossequie, dai, se no invisibilizziamo le donne.





Il COVID-19 e la sinistra allo specchio del Male

24 01 2021

L’innamoramento della Sinistra per i lockdown – e più duri sono meglio è – può sembrare difficile da spiegarsi in un’ottica di storia del pensiero politico. Dopotutto, il virus dal punto di vista socioeconomico è assolutamente egalitario, è una forza biologica, non fa differenze di classe sociale. Viceversa, i lockdown colpiscono in modo sproporzionato i ceti medi e bassi, insomma, i poveri: darwinismo sociale allo stato puro, dunque.

Ma questo fraintendimento deriva dall’identificazione del pensiero di sinistra con il pensiero marxista, con la sua enfasi sui rapporti di produzione e le classi sociali. La realtà è però che il pensiero di sinistra è, in essenza, “luciferiano”, non marxista.
Per pensiero “luciferiano” intendo quel pensiero che ritiene che l’uomo sia in grado di sostituirsi a Dio e di fare il lavoro di Dio meglio di lui. “Dio” qui è solo una parola che si riferisce a quell’insieme di norme e di fatti che regolano l’andamento del cosmo, all’ordine naturale, se vogliamo.

Il pensiero di destra è storicamente rispettoso di Dio, ovvero dell’ordine naturale, spesso fino al punto di negare il diritto dell’uomo a migliorare la propria esistenza a dispetto dello stato “naturale” delle cose. La destra è quella che dice che cambiare l’ordine sociale è un crimine contro Dio, è quella che dice che lo status quo è giustificato dal diritto divino; per essa vi è nel modo in cui le cose vanno “naturalmente” un’intrinseca saggezza, e lotta per mantenerlo – anche in quei casi in cui esso sia ampiamente perfettibile.
La sinistra invece è quella forza che vuole sovvertire l’ordine delle cose, è una forza che agisce “contro-natura”, che vuole sostituirsi a Dio e ritiene in effetti di poter fare meglio di lui. Come Lucifero, appunto – e per questo ho detto “luciferiano”, e non “satanista”. Essa lotta per sovvertire l’ordine naturale delle cose e creare il Paradiso in Terra.
Attenzione: tutto ciò non va inteso come indicativo di una tendenza della sinistra verso il “male”. Ripeto: non ho parlato di satanismo, ma di luciferanesimo. La sinistra non solo non è incline al male, ma è incline al bene molto più della destra. La destra conosce e riconosce l’esistenza del male, o se preferiamo delll’oscurità, nel mondo. Sa che il mondo ha pestilenza, carestia, guerra e morte, i Cavalieri dell’Apocalisse. Ma per la destra queste cose hanno un ruolo nell’economia del cosmo, una funzione assegnata dalla saggezza di Dio o comunque dall’ordine della natura. Sì, nel Paradiso non ci saranno sofferenze di alcun tipo… ma il Paradiso è in cielo, non in terra. La Terra è il regno di pestilenza, carestia, guerra e morte. Non dobbiamo ingannarci sulla natura oscura e tragica dei quattro cavalieri, ma anche nella loro oscurità e tragedia sono forze “sane”, sono da accettarsi. Non così per la sinistra, la sinistra le vuole annientare e danzare sui loro cadaveri. Sì, tutte e quattro, perfino la morte, l’attimo definente del vissuto umano, nel lungo termine il pensiero luciferiano vuole annientarla. La sinistra vuole annientare il Male ovunque esso si annidi e con qualunque mezzo, lo vuole così tanto che è insoddisfatta del lavoro fatto da Dio in proposito, e in questo senso ha una tendenza al Bene molto superiore a quella della destra.

Beninteso: l’ordine naturale di cui sto parlando qui non è il fatto fisico irriducibile, la Natura così come necessità ordina che vada. Quello di cui parlo è principalmente qualcosa di percepito, un avatar dello status quo, delle “cose così come sono”; non stiamo parlando di ciò che effettivamente è irriducibile e necessario, ma di ciò che viene percepito o meno come tale: le cose che sono come sono perché così devono essere, che vanno come vanno perché così è giusto che vadano. Poi ci sono cose che sono così come sono perché non possono essere altrimenti, le vere leggi naturali, e altre che sono così perché così sono state impostate dalla società e sono modificabili.

Tuttavia, dal punto di vista psicologico, possono essere molto difficili da distinguere, e in effetti il problema è proprio quello: che la destra scambia alcune mere consuetudini e costrutti sociali per immutabili e sacre leggi del cosmo, mentre la sinistra spesso scambia le sacre ed immutabili leggi del cosmo per mere consuetudini e costrutti sociali. Abbiamo fatto su questo blog molti esempio del primo caso; per esempio la destra è tipicamente convinta che i bambini debbano essere cresciuti da due genitori di sesso opposto perché “così è naturale”, ma in realtà stanno parlando semplicemente di una consuetudine, non di una necessità. Il principio implicito è che “se le cose sono così come sono, c’è sicuramente un buon motivo e vanno mantenute così.” Questo tipo di ragionamento è chiaramente difettoso: non sempre il motivo per cui le cose sono così come sono è davvero buono, e anche in casi in cui lo sia stato in passato, magari oggi è sorpassato.
Ma della destra questo blog ha parlato tanto; il problema della sinistra, invece, è che non rispetta le ragioni preesistenti di un certo status quo, le quali non sempre sono buone e valide, ma in moltissimi casi sì: un buon motivo di essere ce l’hanno. Inoltre, la sinistra ha un tendenza a non riconoscere l’esistenza di dati naturali irriducibili che limitano la sua azione. Laddove il pensiero cristiano della destra è caratterizzato dal senso del timor di Dio, il pensiero luciferiano è caratterizzato dall’orgoglio, dalla hybris, la tracotanza. Va da sé, però, che se nella vita è importante avere un po’ di orgoglio, è anche importante saper riconoscere i propri limiti, perché chi ha troppo orgoglio può far male a sé stesso e agli altri…

Il marxismo è una delle declinazioni di questo pensiero luciferiano: la specie umana può con le proprie forze sovvertire completamente l’ordine sociale, e con ciò s’intende ogni ordine sociale, e costruirne uno nuovo, giusto e perfetto, un Paradiso. Nel caso del marxismo, l’ordine da sovvertire sta nel modo in cui è fatta la società, che abbiamo costruito noi stessi, e quindi l’obbiettivo sembra immediatamente a portata di mano… l’ostacolo insormontabile qui è la famosa “natura umana”, la cui esistenza infatti la sinistra tendenzialmente nega.
Ma il marxismo è solo una forma di pensiero luciferiano. Il suo principio resta che l’uomo può, e dunque anche deve, creare il Paradiso in terra e annientare il Male. Nel caso della pandemia la declinazione del pensiero luciferiano è la seguente: l’uomo può annientare il Male, in questo caso la pandemia, e dunque deve anche, e deve fare tutto quanto in suo potere allo scopo.

L’innamoramento della sinistra per una metodica di lotta che in termini economici è l’apoteosi del darwinismo sociale, una specie di nazismo economico a ben vedere, non sorprende se ci si ricorda che la persona di sinistra ha spesso come imperativo di creare il Paradiso in Terra, deve farlo a qualunque costo e rispetto a questo obbiettivo le forze che si oppongono, siano esse naturali o sociali, sono tutte ostacoli da spazzare via.
E quale minaccia peggiore al Paradiso in Terra di una catastrofe naturale…? In un certo senso le catastrofi naturali sono inammissibili nel pensiero luciferiano più puro, perché sono un tentativo di quel dannato Dio di rimetterci in catene. Come disse un commentatore che lessi su facebook e di cui non ricordo il nome, “per la sinistra le pandemie sono costrutti sociali particolarmente reazionari”. La sinistra ha deciso di ignorare completamente il dato di fatto scientifico, quello per cui una pandemia per la quale non hai un vaccino non è un fenomeno contenibile con strumenti umani, e sta ancora ignorando completamente i limiti di sostenibilità sociale ed economica di uno stato di blocco prolungato di tutta la vita del continente – anche questo un fattore che non dipende minimamente da fattori sociali, da politiche, da interventi, ma è un semplice “fatto”, un elemento dell’ordine delle cose: una società deve produrre per vivere.

Il minimo comune denominatore del dibattito europeo – inesistente, in realtà – sulle misure contro il coronavirus è l’eliminazione dal discorso del dato biologico irriducibile. Anche nei rari casi che qualche voce critica verso la gestione di Conte e dei suoi si elevi, che cosa dice quella voce? Che potevano fare meglio, che potevamo avere meno morti, con una gestione migliore (magari, perché no, con un lockdown più duro e lungo ancora! Ci piacciono le cose dure e lunghe).
E si vanno a dissezionare le mortalità di tutti i paesi del mondo, scrutando quei numeri enigmatici, di complessità infinita, determinati da migliaia di variabili regionali diverse, li si viviseziona fino alla terza cifra decimale, alla ricerca di null’altro che dei segni che una politica abbia funzionato meglio o peggio di altre. Il tutto come se la pandemia fosse, appunto, un semplice fatto sociale e politico che obbedisce ai DPCM, e non un fenomeno biologico che obbedisce alle leggi della fisica e della chimica. Il dato biologico è lì soltanto per essere trasceso, controllato, imbrigliato. E generalmente la persona di sinistra termina la sua vivisezione dei numeri della pandemia concludendo, colma di ammirazione, che la Cina, sanguinaria dittatura dalla matrice comunista ed esecuzione capitalista, è il paese migliore del mondo, perché col ferro, col fuoco e col sangue, essa ha trionfato sulla biologia stessa. Ha sconfitto il virus, e ha così dimostrato l’inesistenza di un ordine naturale, o che se esiste noi possiamo fotterlo.

Marxismo presente solo in tracce, qui, come la frutta a guscio sulle etichette degli alimenti. Ma la sinistra è in grado di levare critiche ai governi anche sul piano economico… per esempio rimprovera al governo la povertà dei ristori e il ritardo a fornirli. Ovviamente non c’è ristoro che possa compensare un piccolo imprenditore o negoziante di due anni di inattività forzata; dopotutto i soldi sono solo una misura convenzionale della nostra capacità di produrre, e se tu non stai producendo i soldi diventano carta igienica. I ristori servono a rendere un po’ meno cataclismico il lockdown, ma il lockdown resta sempre un cataclisma, e se una persona non lavora per due anni non è con una mancetta di due lire che la rimetterai in carreggiata. Ma dopotutto, se si può rivoltarsi contro la biologia e trascenderla, ed è la definizione stessa di “ordine naturale”, figurarsi se non ci si può rivoltare contro l’economia.

E nel caso della pandemia, la declinazione marxista del luciferianesimo, che si rivoltava verso la natura umana e le strutture sociali che ne derivano, come appunto l’economia, è stata “sorpassata” da una rivolta molto più vasta e radicale contro la natura tout court, contro la biologia, contro i virus, contro la costituzione dei nostri organismi, i nostri corpi, le cellule del nostro sangue. Sotto accusa non è più solo il modo in cui vendiamo e compriamo e produciamo e ci procuriamo il cibo; ora è sotto accusa il modo in cui respiriamo, il modo in cui facciamo sesso, il modo in cui frequentiamo le persone e abbiamo una vita sociale, il modo in cui camminiamo, l’uscire di casa, il godere del sole e dell’aria. L’uomo è questa scimmia sociale evolutasi nella savana, fatta per correre, cacciare, raccogliere, e poi giocare coi suoi simili, farci sesso, baciarli, abbracciarli… questo è il dato biologico umano. Ovviamente virus, batteri, parassiti, non fanno che sfruttare la nostra biologia contro di noi, è il loro modo intimo di funzionamento… Sono, in un certo senso, parte di noi. Certo non possiamo bandirli senza in qualche misura lasciarci alle spalle la nostra biologica umanità.

E questo è il nuovo obbiettivo. Il 2020 ha formalizzato un progetto globale di “riforma biologica” dell’essere umano, il primo della storia. Dopo aver tentato di bandire la guerra e la carestia, e per inciso senza neanche esserci riusciti, già ci sentiamo pronti a fare il passo successivo: bandire la pestilenza – e in futuro, la morte. Questo è l’apice della rivolta luciferiana.

Una ribellione ha semplicemente assorbito e cancellato l’altra.





La coperta corta di Malthus

9 12 2020

Cosa ci insegna la crisi del Coronavirus?

Che insieme, unito, il paese può affrontare ogni minaccia?

Nah. Più che altro ci insegna tutta una serie di orrende verità su come funziona la psiche umana e in particolare la psiche dell’occidentale del 2000.

Ma più ancora, pone una lapide su tutti i sogni più sfrenati di ecologisti e malthusiani.

Ma facciamo un passo indietro, di un annetto, quando l’argomento caldo (no pun intended) era il riscaldamento globale. Quando Greta Thunberg gridava appassionatamente che questi governanti le hanno rubato il futuro. Ma sono davvero stati loro? Cos’era questo futuro?

Il modello di sviluppo della società industriale, che sia esso socialista o capitalista non ha in realtà la minima importanza, si basa su una capacità dell’uomo di sfruttare le risorse ambientali che non ha precedenti storici prima del Novecento. Razziando cieli, mari e terre l’umanità ha iniziato a produrre quanto basta a soddisfare ogni suo bisogno e anche ogni suo capriccio, in effetti. E questa incredibile, inedita prosperità ci piace, non vogliamo rinunciarvi.

Gli ecologisti, infatti, ci dicono che dovremmo dare un taglio a tutto questo lusso, che non è sostenibile. Che presto non potremo più permettercelo, perché il riscaldamento globale distruggerà anche l’economia e il nostro stile di vita etc.

La soluzione proposta dagli ecologisti sembra essere: dobbiamo dare un taglio al nostro stile di vita ORA, altrimenti dovremo farlo DOPO.

Curiosamente questo argomento per cui dovremmo vivere da malati per morire sani non convince tanta gente. Qualcuno nota che, se dovessimo davvero dare un taglio drastico all’uso dei combustibili fossili, i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo sarebbero condannati a restare per sempre in miseria, e a parte che valli a convincere, forse non sarebbe neanche moralmente corretto convincerli a fare una cosa del genere.

Cioè, il punto è che noi vogliamo mantenere la prosperità in cui viviamo, e anche dell’ambiente ci interessa solo nella misura in cui ci è garantita la prosperità; non serva a nulla salvare l’ambiente senza la prosperità.

Purtroppo, però, la prosperità è una condizione per certi versi “innaturale”. La biologia dei viventi è adattata per farli abitare in uno stato di costante scarsità di risorse. Gli animali mangiano e bevono ogni volta che possono, non si mettono a dieta, e questo perché il cibo scarseggia sempre ed è faticoso procurarselo. E noi umani non siamo diversi, non siamo fatti per essere frugali, e difatti soffriamo delle cosiddette “malattie del benessere”, malattie collegate ad una sovrabbondanza di risorse che nuoce alla nostra stessa fisiologia. Quando ci troviamo in condizioni di prosperità noi non facciamo altro che mangiare di più, di solito, almeno finché il cibo non finisca.

Gli ecologisti suggeriscono invece di mettersi a dieta, onde preservare la prosperità, si direbbe; temono che le risorse finiscano e l’abbondanza cessi. Ma il punto è che qui si sta nuotando contro la biologia stessa: le popolazioni crescono e consumano all’infinito, non si mettono a dieta; non lo fanno i conigli e non lo fanno neanche gli umani. E anche se ci mettessimo “a dieta” e consumassimo molto di meno, continueremmo comunque a riprodurci e ad aumentare di numero. Se consumiamo la metà, ma diventiamo il doppio, non abbiamo fatto un gran progresso. Il problema è il seguente: la crescita di una popolazione è limitata soltanto dalla quantità di risorse. L’esplosione demografica è una conseguenza del benessere, non si sarebbe verificata senza sovabbondanza di risorse. Ma proprio per questo è destinata a “mangiarsi” quelle risorse e ad esaurire quella stessa sovrabbondanza. La crescita di una popolazione si ferma quando sono finite le risorse per crescere, a quel punto raggiungerà un equilibrio stabile. E così faremo anche noi.

E infatti gli ecologisti più sgamati digievolvono e diventano malthusiani, e questa è già una prospettiva più interessante – di cui sarà bello scoprire i limiti intrinseci.

Dunque, la popolazione crescerà fino ad un momento in cui l’ambiente non la reggerà più. Nel concreto: la finiremo di crescere quando i neonati ricominceranno a morire di fame o malattie. Non ha molto senso chiedere alla gente di rinunciare all’abbondanza ora per non dovervi rinunciare comunque dopo, no? Inoltre, se la popolazione continua a crescere, quegli sforzi si riveleranno comunque inutili.

E qui arrivano i malthusiani che trovano la soluzione perfetta: “e se facessimo meno figli?”

C’è del genio in quest’idea. Fare dodici figli non è una necessità per nessuno oggigiorno, né un desiderio. È preferibile averne due o tre, addirittura uno solo. Ora, se la popolazione smetterà di crescere o addirittura diminuirà perché facciamo meno figli, noi avremo trovato il modo di mantenere in eterno la prosperità: la nostra “dieta demografica”. Per far ciò basterebbe che ci mantenessimo sul tasso di sostituzione di 2 figli per donna: se ogni donna fa due figli la popolazione non cresce. In realtà, però, la vita media si allunga, quindi anche con due figli per donna in media la popolazione crescerà. Bisogna scendere sotto il tasso di sostituzione. Ma anche quello è perfettamente fattibile e ci stiamo già arrivando.

Quindi abbiamo la soluzione: un po’ di Malthus, facciamo meno figli, poi un po’ di Greta, andiamo di meno in aereo… e vivremo per sempre nell’abbondanza.

Be’… forse.

In realtà la vita ha un carattere ciclico, è nella sua struttura base: nascita, crescita, riproduzione e morte. Un sistema in equilibrio. Noi vogliamo andare a sopprimerne una parte: vogliamo bloccare le nascite. In sostanza, stiamo andando a mettere un tappo al flusso. Al contempo, però la vita media continua ad allungarsi. Supponendo che le dimensioni della popolazione rimangano sempre le stesse, il tappo alle nascite ridurrà via via la percentuale dei giovani e causerà un accumulo di anziani.

E non è bello tutto ciò? Dopotutto, cos’è l’anzianità se non il più grande lusso che l’umanità si concede? Il gatto che non si può riprodurre e che non ci vede più abbastanza bene da catturare prede muore. L’umano invece lo facciamo sopravvivere, lo manterranno coloro che invece sono ancora abbastanza in forze. Ciò è reso possibile dalla medicina, ma c’è anche un patto intergenerazionale a garanzia di questo meccanismo. Purtroppo, questo patto si basa sulla natura ciclica del processo: ci saranno sempre un tot di giovani che possano mantenere gli anziani, e di solito i giovani sono più numerosi degli anziani. È un modello basato sulla crescita, funziona finché la popolazione cresce. E noi, in un modo o nell’altro, vogliamo bloccare la crescita; il fatto che la blocchiamo ad uno stadio solo non serve a niente se poi da un altro lato la crescita continua uguale a prima. Anzi, la situazione rischia perfino di peggiorare: i giovani presto o tardi non potranno più mantenere gli anziani.

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L’enfasi qui deve essere posta su una comprensione fondamentale del fenomeno della vita in generale e dell’esistenza umana in particolare. Di nuovo: nascita, crescita, riproduzione e morte. Il ciclo funziona perché ci sono tutte e devono essere in equilibrio.

Fare meno figli sembrerebbe in sé una buona idea, ma andrebbe aggiustata in qualche maniera, e sappiamo tutti cos’è che riequilibra questo sistema: si tratta della fase successiva-precedente del ciclo, la morte.

Se vogliamo fare una rigida dieta demografica che ci permette di mantenerci in salute senza abbuffarci troppo di risorse esaurendole, non basta fare meno figli: occorre anche morire un po’ di più.

Ma mentre l’idea di non fare figli, e quindi di suicidarsi demograficamente, è sorprendentemente accettabile per le persone, nonostante conduca di fatto alla morte della civiltà e sia a tutti gli effetti anti-vitale, quella magari di non insistere a prolungare a tutti i costi le vite fino a 150 anni è molto meno digeribile. Non si riesce a vedere in questa tendenza psicologica altro che l’effetto di un estremo egoismo ed egocentrismo generalizzato, per cui è concepibile la morte della società, che sopraggiunge se non si fanno figli, ma non è concepibile la mia che sopraggiunge perché ho 97 anni.

E qui il COVID-19 ci ha aiutato a capire delle cose in più. In particolare, ci ha aiutato a capire quanto cazzo è corta questa coperta demografica che tiriamo da tutti i lati e da cui dipende la sopravvivenza della civiltà.

Si è presentata una nuova malattia che per le sue caratteristiche epidemiologiche è sostanzialmente una piaga per gli anziani. Governo e media si sono dati con tutte le proprie energie a enfatizzare gli sparuti casi di under 40 che ne sono morti, ma il fatto irriducibile è che anche all’apice della crisi la media dell’età dei decessi è stata 80 anni. Tant’è che una delle ragioni per cui ne sono stati colpiti tanto severamente Europa e USA è l’elevata età media. Che sfortuna, che viviamo così tanto! Siamo piagati dalla nostra longevità. Se solo avessimo meno benessere, non avremmo il COVID-19!

Ovviamente c’erano vari modi di affrontare questo problema, e qui c’era da porsi una domanda interessante dal punto di vista psicologico e filosofico. È arrivata una catastrofe naturale che colpisce specificamente gli anziani. È una catastrofe naturale, non è che l’abbiamo creata noi, è semplicemente arrivata. E siamo una società che inizia a soffrire pesantemente degli squilibri causati dalla propria stessa opulenza. Uno di questi squilibri è, banalmente, il fatto che si viva decisamente troppo a lungo.

Ora, ogni catastrofe è una catastrofe e catastrofe va chiamata, nessuno le mette il tappeto rosso davanti. Ed è ovvio che si dovesse fare qualcosa per limitare i danni, questo non è in discussione.

La questione però è… quanto? Perché dopotutto questo sistema biologico, il coronavirus, ha caratteristiche che dal punto di vista ecosistemico lo rendono quasi necessario: la vita che si accorcia un po’ per cause naturali. Nell’ottica del funzionamento del sistema umanità, un evento di questo tipo sta tutto in un equilibrio naturale e perfino sano: accorciando la vita di pochi anni si consuma tutti di meno, il sistema pensionistico si alleggerisce, ci sono più risorse per tutti, la percentuale di popolazione attiva aumenta.

Attenzione, qui non sto dicendo che sia una cosa “bella”. Dopotutto, forse che la morte è una cosa bella, cui tutti andiamo incontro con danze e canti? No, la morte è una tragedia. Ma è al contempo una forza di equilibrio, un necessario sistema regolatore della vita, ne abbiamo bisogno. E qui non si è parlato di fare stermini sistematici di anziani come nelle distopie di fantascienza, non stiamo parlando di una crudele e sistematica azione umana. Stiamo parlando di una catastrofe naturale e di come gestirla.

Ora, nel momento in cui si doveva fronteggiare questo evento così estremo ma al contempo così “sano” rispetto alla situazione attuale, cosa si è deciso di fare? Qualcosa, ovvio; naturale che si sarebbe fatto “qualcosa”… ma fino a che punto ci si poteva spingere? Quanto eravamo disposti a fare per combattere questo meccanismo?

La risposta è stata una, unanime e semplice: TUTTO.

Ogni cosa che rientrasse nell’immaginazione umana doveva essere fatta per impedire che questo specifico meccanismo regolativo facesse ciò per cui esiste, i.e., accorciare le vite. Si sono sacrificate la libertà, l’economia, la socialità, la salute mentale… quando è arrivato il momento di decidere quale spazio lasciare ad un meccanismo naturale di regolazione della vita, la risposta è stata: NESSUNO.

Per contro, nessuno ha mai parlato di favorirlo, non si è mai parlato di spargerlo… Magari si è ventilata l’idea di avere verso di esso dei margini di tolleranza. Ma la risposta non è cambiata: margini ZERO, tolleranza ZERO, siamo disposti a fare TUTTO.

Quindi se ci chiediamo cosa è disposta a fare l’umanità per affrontare i problemi strutturali che minacciano la prosperità in cui vive, ora sappiamo che non è in grado nemmeno di muoversi in termini di “inazione”. Non solo non è disposta a ridurre attivamente la propria crescita, ma non è disposta nemmeno a lasciare che un meccanismo naturale di regolazione delle popolazioni abbia dei margini, ancorché ridotti, di azione per farlo lui.

Purtroppo per iniziare a pensare ad una decrescita da qualche parte qualche rinuncia va fatta, e non parliamo di cazzate tipo mangiare meno carne… parliamo di meno vite che appesantiscono il sistema. Qualche parte questa coperta non riesce a coprirla.

Dunque, questa società vuole conservare la propria prosperità, non è disposta a rinunciare al benessere materiale, e non è disposta neanche a tollerare che minime alterazioni possano sopraggiungere attraverso cause esterne a riassestarne la demografia in senso decrementale. Insomma, non è capace di nessuna decrescita di nessun tipo. Vuole crescere, crescere, e crescere: consumare sempre di più, bruciare sempre di più, vivere sempre di più, e niente su questo o altri mondi potrà anche solo permettersi di rallentare questa corsa. Se proprio, è disposta a fare meno figli, che di tutte le cose che poteva fare è quella meno efficace e nel lungo termine può perfino aggravare le cose.

Ecco quant’è corta la coperta di Malthus. Ecco quanto è fallimentare l’ideologia ecologista. Per quanto furbi noi umani riteniamo di essere, non possiamo eludere le trappole della nostra stessa natura. No, non ci metteremo MAI a dieta demografica. Non decideremo MAI di produrre e consumare di meno.

Noi consumeremo tutto fino quando non lo avremo finito, e poi moriremo di fame. E vivremo sempre più a lungo fino a quando la società non potrà più sostenere il sistema sanitario e pensionistico e moriremo per quello.

Non c’è nessuna soluzione dolce, nessun compromesso moderato, nessuna decrescita felice.

Ci sarà solo una decrescita molto, molto infelice.





“Tutto è politica”, o della pesantezza.

15 08 2020

Quanti di voi conoscono Anita Sarkeesian?

Credo tutti coloro che siano familiari con la politica statunitense e siano assidui frequentatori di Youtube. Anita Sarkeesian è una youtuber femminista che rientra in quello che alcuni chiamano ‘leftube’, un gruppo informalmente definito di youtuber che si identificano come progressisti e pubblicano contenuti di area progressista. Anita Sarkeesian, in particolare, è una teorica femminista che si occupa molto di media, diventata famosa soprattutto per una serie di video sulla rappresentazione della donna nei videogiochi, nella quale individua tropi sessisti in vari videogame e ne critica la rappresentazione femminile.

È anche una specie di Laura Boldrini anglosassone, ovverosia il personaggio più odiato e attaccato in tutti i modi possibili dalla destra.

Di primo acchito, questo accanimento pazzesco, di una violenza incredibile ed inaccettabile, è difficile a spiegarsi. In genere, quando uno viene molto attaccato, lo attribuisce all’essere un personaggio incredibilmente scomodo e rivoluzionario: vedi i vari Povia e Fusaro, che si ritengono attaccati perché così rivoluzionari e disturbanti. Non è quasi mai quella la vera ragione, e anzi più spesso è perché effettivamente dicono delle stronzate.

Ma anche se accettassimo questo criterio e volessimo applicare questo metro ad altri youtuber del leftube, scopriremmo che ce ne sono di più ‘scomodi’ di Anita, sia che trattano altri argomenti, come per esempio Natalie Wynn, e sia che trattano i suoi stessi argomenti o molto simili, come Lindsay Ellis; l’efficacia di Wynn ed Ellis è indiscutibile, la prima addirittura è stata spesso ripresa dai media come ‘la youtuber che de-radicalizza i giovani di destra’, una specie di spina nel fianco irriducibile per la destra, insomma. Perché la destra non dedica lo stesso livello di attenzione e odio a Natalie Wynn, ben più ‘pericolosa’ per loro di Anita Sarkeesian e dei suoi videogame?

La ragione è semplice: Natalie Wynn e Lindsay Ellis non commettono gli stessi errori di Anita.

Perché qui spiegherò che Anita Sarkeesian ha in effetti commesso ovvi errori che hanno avuto un ovvio effetto sulla sua figura: da un lato l’hanno resa particolarmente odiata, ma dall’altro l’hanno anche resa un bersaglio facilissimo per gli attacchi della destra. Cocktail esplosivo.

Questo esercizio sarà irritante per alcuni, perché ci obbligherà a immedesimarci nell’uomo di destra, o se preferiamo nell’uomo non-di-sinistra, per comprenderlo meglio. Il rischio quando si comprende qualcuno è di diventare comprensivi, di scoprire che magari non ha ‘ragione’, però comunque ha ‘delle ragioni’. Raccapricciante, eh? Ma secondo me non è così grave. Si può dissentire con qualcuno anche comprendendone le ragioni, e a volte sono valide.

Dunque, per capire cosa irrita tanto della Sarkeesian dobbiamo guardare di che temi tratta, come li tratta e con che toni. Il tema è il sessismo nei videogiochi. Il mezzo di comunicazione sono videosaggi su YouTube. Il tono è in parte accademico, ma è anche estremamente polemico, politico, molto serio e serioso.

Questo è il cocktail esplosivo.

Cominciamo dall’oggetto, i videogiochi. Cosa sono i videogiochi? A cosa servono? Per chi e per che funzione sono stati creati?

Risposta facilissima: i videogiochi sono un gioco, ovvero una simulazione di scenari e situazioni che produca svago e leggerezza. In sé stessi, sono una cosa del tutto innocente. Ho avuto una giornata dura al lavoro, qualche screzio col capo, ho dovuto pagare le tasse, che giornata di merda… lasciami staccare un po’ la mente con un videogioco: mi stravacco, joystick in mano, il mio momento. Il mio momento sacro.

Il videogioco nella sua essenza è un semplice passatempo innocente attraverso il quale il giocatore vive una piccola fantasia ed utilizza il cervello in modo divertente. Il videogame in sé non nuoce a nessuno, neppure quando rappresenta atti di violenza estrema, perché è tutto confinato nella dimensione ludica e simulata. Certo, periodicamente viene fuori il Trump di turno che dice che la sparatoria è colpa del videogioco, ma chiaramente non è vero, sono solo rompicoglioni moralisti. Il videogioco è solo un gioco: un passatempo innocente che garantisce un momento di leggerezza.

Certo, può essere che questa fantasia, in sé, non sia considerabile ‘innocente’. Cioè, una fantasia di stupro è una fantasia che si può trovare discutibile, così come una fantasia di omicidio… ma anche così, l’essenza del videogioco è di fantasia innocente che non vuole sfociare in nessuna attuazione. Il videogioco resta, nella sua essenza, un momento di svago e di leggerezza. E i momenti di svago e di leggerezza sono importanti, anzi, fondamentali, per tutti. Sacri, oserei dire.

Se non che, mentre uno sta giocando tranquillo tranquillo a fare il principe muscoloso che salva la principessa indifesa, gli arriva Anita Sarkeesian a profanare il tempio e fa: “COSA STATE FANDO, STIRPE DEGENERESCIÒN?! (cit.)” e inizia a dissezionare quel passatempo, quella fantasia, e manco a dirlo, lo trova pieno zeppo di peccati, di oscurità, di perdizione. E allora con la matitina rossa evidenzia tutto, ma tutto-tutto, al punto che è quasi inevitabile che il povero videogiocatore, che voleva solo divertirsi, inizi a sentirsi messo sotto processo, e conseguentemente si incazzi.

Ecco qua: siamo già al nucleo della questione. Anita Sarkeesian si mette nel ruolo della moralista rompiballe, che prende un tuo divertimento innocente e inizia a usarlo per metterti sotto processo. È forse il ruolo più odioso che esista. Se uno ha un attimo di onestà intellettuale, capisce subito che basterebbe quello a farla odiare.

Anita Sarkeesian. Se avete voglia di una serata in cui si beva poco, mettete un suo video e fate un gioco in cui si beve ogni volta che fa un sorriso.

Ora, alcuni diranno che tutto ciò non conta, perché le critiche di Anita sono corrette. E qui occorre dire che, sì, in molti casi – non tutti – lo sono, corrette. Dopotutto, i videogiochi sono tradizionalmente considerati un passatempo prettamente maschile, quindi la loro offerta cercherà di sedurre la mente maschile, e quindi sì, ha ragione Anita: spesso sono ‘male fantasies’, fantasie di potere maschili all’interno delle quali la donna passa in secondo piano (è il premio per l’eroe, la donzella da salvare, il personaggio ausiliario etc).

Tutto vero.
Ma non è quello il punto, perché la funzione del videogioco non è quella di dare una rappresentazione politica della donna, e nemmeno di degradarla di proposito. I videogiochi sono giochi, passatempi innocenti, momenti di leggerezza; per carità, possono pure contenere una rappresentazione della donna non particolarmente progressista, ma questo non significa che chi li usa sia una brutta persona per questo, o che sia maschilista. Se io uso il tropo della principessa indifesa per divertirmi questo non fa di me un sessista, ovviamente.

Inoltre, in generale, molte critiche sollevate riguardano l’abuso di certi tropi o certi schemi che in sé non sono sbagliati, ma derivano la propria problematicità dall’abuso, dal contesto più ampio in cui sono inseriti… insomma da una serie di questioni così ampie da risultare impalpabili. Mi si vuol dire, per esempio, che ogni singola principessa in pericolo salvata da un uomo è un’idea sessista? Le donne non possono essere in pericolo ed essere salvate dagli uomini? Ovvio che possono; nessuno, nemmeno Anita, negherebbe questo. Il problema semmai è l’abuso di quello schema, la sua ripetizione infinita che lo trasforma in stereotipo, il fatto che l’inverso – uomo salvato da donna – capiti molto di meno, eccetera. Ma d’altro canto, se il problema è un pattern generale nell’uso del tropo, andare ad accusare ogni singola applicazione del tropo di essere sessista è un’accusa naturalmente vaga, impossibile da provare e facile da respingere.

Ok, mettiamo che io ho scritto una storia in cui c’è una principessa in pericolo: puoi accusarmi di sessismo, se vuoi… ma su cosa si fonda, questa accusa? La principessa in pericolo non è sessista in sé, lo è solo in un vago, ampissimo contesto, intesa dentro un trend mediatico. In sé, tanto la produzione quanto la fruizione di quella narrazione non può essere credibilmente definita sessista, e io potrò sempre difendermi dicendo che “è solo una storia”, un passatempo innocente, e sei solo tu a darne lettura sessista. E checché ne dicano i simpatizzanti di Anita, sarebbe una difesa validissima: puoi dare una lettura politica della questione, ma di per sé questa non è una questione politica, perché la politica non è innocente, non è un passatempo, non è priva di conseguenze… Non è un gioco. E i videogiochi, invece, sì.

La politica, difatti, è PESANTE. La politica è quella cosa che annoia morte i bambini. E quando giochiamo, non stiamo invece cercando proprio di fare un po’ i bambini in santa pace? Non vogliamo assolutamente vedere politica nei videogiochi, di suo, se non al massimo inserita sottilmente come una pillola amara in un cucchiaino di zucchero. Se ce n’è, non vogliamo manco accorgercene.

Ed ecco Anita che invece ci infila la politica, e lo fa in modo esplicito e diretto e anche polemico.

Ma che rottura di cazzo.

È PESANTE.

Ma ecco che altri arriveranno altri a puntualizzare pure loro: “ma certo, nei videogiochi c’è la politica! La politica è ovunque! Tutto è politica!”

Poveri noi! Non potremo mai, un attimo della nostra intera esistenza, sfuggire al cacamento di cazzo di pensare al faccione di Salvini o alla ‘s’ di Zingaretti?! Per favore uccidetemi ora, risparmiatemi la sofferenza!

Ragazzi, principio aristotelico: più una definizione è ampia, e più è vaga. Se dici che ‘tutto è politica’ tu hai svuotato la parola ‘politica’ di ogni significato, non sei più manco in grado di dire cosa sia la politica, visto che non sai dire cosa non sia. Certo in un certo senso molto, mooolto lato, così lato da essere inutile, tutto è politica, e ogni nostro gesto ha un sia pur lieve peso politico. Ok, indubbiamente la rappresentazione della donna nei videogiochi ha un peso politico in senso lato, e non si può negare che se in ogni cazzo di videogioco che esiste la donna è rappresentata come donzella in pericolo chiaramente ciò riflette un attitudine generale verso la donna, e potrebbe essere una forma di rinforzo, sottile, impalpabile, di quel tipo di attitudine. In senso dunque molto vago, molto complesso e molto leggero, abbiamo un tema politico. Ma questo non basta a fare di questo discorso un tema politico in senso stretto. Stiamo sempre parlando di giocattoli, alla fine, rilassiamoci un po’, ogni tanto.

In generale esistono questioni strettamente politiche, che concernono la gestione dello stato, le leggi e la società civile, e poi ci sono questioni che non sono strettamente politiche. Anche queste ultime avranno un sottile sotto-testo politico, ma da qui a dire che sono propriamente, a tutti gli effetti, temi politici, e che vadano trattati come tali, ce ne passa.

No, non tutto è politica, e no, i videogiochi non sono un tema politico; certo possono essere un tema che in qualche modo è influenzato dalla politica, questo sì… Ma ciò non basta a mettere sul banco degli imputati centinaia di produttori di videogame e milioni di videogiocatori e dire/suggerire che siano sottilmente sessisti e animati da chissà quale malizia.

E forse non è questo ciò che Anita intende, mi si dirà. Forse Anita non vuole dire che ci sia un crimine, un peccato intrinseco in questi mezzi; forse non vuole dire che ci sia qualcosa di sbagliato a goderseli in leggerezza, forse non vuole mettere sotto accusa tutti i gamer maschi della terra. Forse vuole solo serenamente invitare alla riflessione su un certo tema. In effetti, a parole, lei dichiara esattamente di voler fare quello…

Ma i fatti vincono sulle parole. Se l’intento non è quello del moralista che fa il predicozzo, perché usare il format del moralista che fa il predicozzo? Perché quel mezzo? E perché quei toni polemici?

Poteva scrivere un articolo su un giornale di sociologia, invece che dare in pasto tutto alle belve di YouTube. Oppure poteva semplicemente essere più leggera, simpatica e meno ‘aggressiva’. Io non dico che di sessismo nei videogiochi non se ne debba parlare, ma magari non è il caso di presentarla come un’epica battaglia del bene contro il male e parlarne come un telepredicatore parla dei gay. L’idea non dovrebbe essere cercare gravissime colpe nei videogame, semmai riflettere su come anche in un passatempo innocente possano passare dei messaggi problematici, cui è opportuno prestare attenzione. È diverso da ciò che fa la Sarkeesian, è diverso da quella sorta di inquisizione videoludica.

In questo senso il confronto con Natalie Wynn e Lindsay Ellis è particolarmente impietoso. Natalie Wynn più che di media parla di politica tosta, fa video spesso lunghi più di un’ora su temi molto pesanti… eppure fa anche molto ridere, è ironica ed autoironica. E invece la Sarkeesian, che sta parlando di videogiochi, riesce solo ad usare quel tono da predicatore? Mai una cazzo di battuta, mai un sorriso, come stesse parlando della pandemia di coronavirus? Lindsay Ellis parla di solito di cinema, e molti dei suoi video sono di una pesantezza politica impressionante nei contenuti, oltre che a modo loro anche aggressivi: ha pubblicato, per esempio, una serie di video sul cinema di Michael Bay in cui ne ha dissezionato il maschilismo impietosamente. Oserei dire che ha distrutto Michael Bay e il suo cinema come pochi altri. Ma anche qui: l’ironia è dappertutto, e comunque l’inquadramento dei suoi video non è “adesso vi spiego il maschilismo di Michael Bay”; quei video sono presentati come semplici analisi del suo cinema, sono tecnicamente impeccabili, appassionanti, e solo quando li vedi scopri una cosa che forse non avevi notato prima: che Michael Bay è un cazzo di maschilista tossico impressionante, oltre che un regista di merda. A Lindsay Ellis non serve fare il predicozzo perché il messaggio arrivi. Tratta un tema abbastanza leggero, il cinema, con un approccio molto politico ma che rispecchia quella fondamentale leggerezza. Nei toni, Natalie Wynn addirittura riesce ad invertire il metodo di Anita: prende un tema pesante e lo alleggerisce, senza nulla togliere alla serietà del contenuto.

Anita Sarkeesian, dal canto suo, prende un tema leggero e non particolarmente rilevante per la società e lo appesantisce all’inverosimile con tonnellate di politica. Ma la politica è come un spezia molto forte: può insaporire un piatto, ma se copre tutto il resto è difficile che sarà ingoiata. Specie quando uno aveva ordinato un piatto in cui normalmente non ce n’è.

L’approccio di Wynn ed Ellis ottiene, chiaramente, tutta una serie di risultati che Anita col suo non può ottenere (e ottiene, anzi, l’opposto): accattivare lo spettatore, non farlo mai sentire sotto processo, e soprattutto farlo spesso ridere. In sostanza gli dà LEGGEREZZA.

Non ultimo, la leggerezza disarma anche i critici, perché l’autoironia è uno scudo molto potente contro le aggressioni verbali; Anita quando deve difendersi può solo indignarsi e dipingersi come vittima, ed è abbastanza evidente che si tratti di un atteggiamento che non scoraggia nessuno dall’attaccarla.

Certo, se l’idea è che un buon video ‘politico’ sia un video che fa incazzare un sacco di gente e ti trasforma in una delle persone più odiate del web, suppongo che Anita Sarkeesian sia un genio impareggiabile della politica. Io credo però che la comunicazione efficace non sia provocazione gratuita, e che debba essere capace innanzitutto di far passare il messaggio a tutti; e se non vogliamo esagerare e dire che deve convertire anche i nemici, dovrebbe almeno riuscire ad accattivarsi gli indecisi. Invece, un appassionato di videogiochi che non sia già politicamente schierato in modo favorevole si sentirà subito accusato da Anita, sarà sulla difensiva… potenzialmente, insomma, Anita si sta creando un nemico. Regola numero una della comunicazione persuasiva: mai mettere l’interlocutore sulla difensiva. Puoi essere aggressivo in quello che dici, ma NON contro colui che vuoi convincere, o non lo convincerai mai.

Il problema è che per molti quel modo di fare lì è invece un modello. Di questi tempi l’ho riscontrato molto proprio verso la mia persona. È risaputo, credo, che io non sono strettamente di sinistra, sono più un centrista, e ci sono tutta una serie di battaglie ‘di sinistra’ che non condivido. Per esempio, ho scritto a lungo sulla questione dell’abbattimento di statue storiche, e sono intervenuto abbondantemente sulla questione del presunto sessismo nella lingua italiana.Non voglio certo tornare qui su questi argomenti; mi preme però sottolineare che sono questioni, nel concreto, molto marginali. Il problema razziale in USA non sono le statue: sono la povertà, la violenza sistemica, il pregiudizio diffuso etc. Il problema del sessismo in Italia non è dire ‘il sindaco Raggi’ invece de ‘la sindaca Raggi’: è il problema dell’obiezione di coscienza all’aborto, dei congedi di maternità e paternità, etc.

Ammettiamo pure che su queste questioni, statue, grammatica, io mi sbagli – e non mi sbaglio. Anche così, si tratta di temi sostanzialmente leggeri, e leggera e conciliante dovrebbe essere la discussione a riguardo. È ridicolo che mi si dia di razzista perché sono contrario ad abbattere statue ultracentenarie, e di maschilista perché trovo una certa forma linguistica più elegante e filosoficamente più propria. Queste sono questioni che hanno sicuramente una dose di politica, ma prevalentemente riguardano altro. La storia delle statue riguardo il rapporto personale con la storia, il modo in cui si elabora il passato, e anche la nostra relazione con l’espressione artistica e architettonica; non deve avere per forza avere a che fare col razzismo, e nella maggior parte dei casi non ne ha affatto.

Ma niente: carichiamolo di politica fino a scoppiare. Ancora più ridicolo il discorso sulla grammatica, che anche se volessimo ammettere risenta del sessismo, rappresenterebbe al più una lontanissima conseguenza di un sistema sessista, e non certo una causa o un fattore adiuvante.

Altro esempio interessante sono state le ‘gaffe’ fatte da George RR Martin alla presentazione degli Hugo Awards; se volete studiarvi meglio la vicenda potete googlarla, ma in estrema sintesi l’accusa rivolta allo scrittore è stata di non aver messo abbastanza politica nei propri discorsi, e di aver nominato certi autori – mostri sacri della letteratura di genere, come Lovecraft e Campbell – senza far menzione del loro razzismo. Si dà il caso, però, che si stesse solo parlando di narrativa di fantascienza, e il loro razzismo non fosse in questo senso minimamente rilevante: quello è solo intrattenimento, non è politica. Sì, certo, ‘tutto è politica’, in senso lato, ma no, non tutto è politica in senso proprio, e la narrativa di fantascienza non è un fatto politico. Non finché non lo si faccia diventare politico di proposito, e dunque conflittuale, e dunque caldo, e dunque terreno di battaglie, e dunque ci si è fottuti la possibilità di fare simpatia e magari persuadere qualcuno.

Oh, perdonatemi tanto, io onestamente vorrei poter passare qualche momento della mia infelice esistenza SENZA PENSARE ALLA POLITICA. Qualche momento in cui posso svagarmi senza dover pensare a tasse, sanità, istruzione, migranti, condizione della donna, l’omofobia, come stanno i polli negli allevamenti, gli alberi dell’Amazzonia, i gorilla. Sì, tutti problemi più o meno seri, ma non posso pensarci tutto il santo giorno e in qualsiasi momento. Giusto qualche istante isolato di pausa, magari davanti ad un videogioco, o un libro di fantascienza. Mi è concesso?

Molti rispondono ‘no’. “Tutto è politica”.

Mi pare già di risentire Gaber… io direi che il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra, se la cioccolata svizzera è di destra, la nutella è ancora di sinistra”… e soprattutto: “tutti i film che fanno oggi son di destra, se annoiano son di sinistra”. Non credo sia strettamente necessario che tutti i film di sinistra debbano annoiare, però. Non penso sia una necessità tematica. Credo piuttosto che sia uno stile comunicativo tossico scelto di proposito da alcuni comunicatori di sinistra, di cui Anita Sarkeesian è il prototipo.

Ma il problema è che poiché fra i motivi per cui la politica è ‘pesante’ c’è il conflitto continuo al suo interno, dire che ‘tutto è politica’ ci autorizza ad un conflitto continuo, a vedere ovunque nemici. E un nemico, dal punto di vista mentale, non è una minaccia, paradossalmente. Cioè, se io Alberto sono semplicemente un razzista subconscio, allora niente di ciò che dico sulla questione delle statue storiche è meritevole di ascolto da parte di uno di sinistra, che dunque non si deve trovare a mettere in discussione le proprie convinzioni confrontandosi con me. Dopotutto, il mio discorso sulle statue storiche è solo razzismo rielaborato, e questo nonostante io non abbia mai dato alcun segno di razzismo fuori da questo – e la mia collezione di black, gay and jew jokes – e anzi abbia scritto più volte, anche su questo blog, pezzi molto elaborati contro il razzismo. Se anche solo si ammette che forse ho delle buone motivazioni per dire ciò che dico, e che non sono politiche, allora parte il rischio che dicevo sopra: si rischia di diventare comprensivi nei miei confronti. E questo è un esercizio sfibrante per l’ego, un’autentica minaccia esistenziale.

Da qui la narrazione, di gran lunga favorita, per cui si preferisce pensare che chi nega che questi conflitti siano così centrali per l’esistenza e che siano a così alto contenuto politico sia, semplicemente, un avversario politico. E se lo stiamo facendo incazzare tanto… MEGLIO, CAZZO! Cioè, raga’, vuol dire che stiamo proprio facendo un lavoro fenomenale! Forse che un buon discorso politico non deve fare incazzare i nostri nemici politici?!

Magari sì.

Ma non dovrebbe fare incazzare anche gli amici.

Ossequi.





Il Grande Assente

6 07 2020

Voglio tornare ancora una volta sulla questione delle statue abbattute. Giuro, l’ultima. Per commentare questo articolo, che in tanti mi hanno segnalato, e che ho trovato sorprendente.

Perché sorprendente? Be’, l’autrice ci ha messo dell’olio di gomito, e degli argomenti anche interessanti… e tuttavia il risultato è bislacco a dir poco. In teoria vorrebbe rispondere agli argomenti ricorrenti contro l’abbattimento delle statue… e sempre in teoria, lo fa, finendo col definirli “fuffa”. Ma, qui è il fatto sorprendente: le risposte non sono mai una vera demolizione dell’argomento. Al contrario, in tutte quante deve riconoscere che ci sono delle basi valide sotto quel discorso, dovendo per forza concludere in più punti che il discorso iconoclasta comunque è pericoloso e va tenuto sotto controllo…

MA…

Ma per quanto gli argomenti siano validi, non sono validi in questo caso qui; per quanto l’iconoclastia sia pericolosa, non è pericolosa in questo caso qui. In altri casi, magari, che chissà dove staranno mai… ma in quelli attuali? No way! Sin qui è tutto perfetto, impeccabile, proprio.

Questa confidenza non sembra avere spiegazioni razionali, visto che una volta che hai abbattuta una statua vecchia di 125 anni di un uomo morto 300 anni fa perché era razzista, non si vede molto quale possa essere il freno storico o morale a distruggere tutte le statue d’Europa. Men che meno si spiega come faccia ogni volta l’autrice a riconoscere che l’argomento è valido, e poi alla fine dedurre comunque che “in questo caso” è fuffa.

Di certo gioca un ruolo la convinzione, taciuta o palese, che tutti questi argomenti in realtà siano scuse per il razzismo e per il conservatorismo politico. Dopotutto, siamo tutti razzisti, no? Tutto è razzismo! E siamo tutti politicamente parziali, no? Tutto è politica!

… Come dire che niente lo è, nevvero?

Ma c’è una ragione per cui l’autrice di quel pezzo si impantana in questo vicolo cieco retorico e non può uscirne. Perché c’è un tema, un argomento specifico, che nel suo scritto manca… e la sua mancanza si sente. Si sente perché dovrebbe esserne il protagonista, ma lei non può mai nominarlo come tale, e allora continua a evocarlo, e toccarlo tangenzialmente, a sfiorarlo… ci si intrattiene sulla soglia, ma senza mai invitarlo a entrare.

E qual è, questo grande assente?

Ovviamente l’argomento centrale nella questione delle statue è la Storia, ma non è lei l’assente di cui parlo. Domanda da un milione di dollari: di che materiale è fatta la Storia umana? Forse di vicende umane?

Ok, sentiamo: se io dico “gli umani si riproducono tramite fecondazione della donna da parte dell’uomo”, questa è un’affermazione storica?

No. È un’affermazione biologica: descrive un dato fisso, un tratto immutabile della natura umana. Certo, alla luce di Darwin possiamo dire che anche i dati biologici hanno una dimensione storica; ma i tempi dell’evoluzione sono così dilatati che possiamo considerare la maggior parte dei dati biologici come “funzionalmente eterni”. Il dato biologico è fisso, non cambia, è sempre e stato e sempre sarà.

Viceversa, se dico “nel 1924 uccisero Matteotti” la situazione è cambiata: questo evento è specifico, si è verificato una volta come conseguenza di una serie di cause antecedenti, ha causato a sua volta altri eventi, e non si riverificherà mai più. Si inserisce in una sequenza direzionata di eventi determinati da legami di causa ed effetto.

Il Tempo.

Don't Hug Me I'm Scared 2: Time (2014)

Il Tempo è il protagonista indiscusso della Storia, la Storia è FATTA di Tempo. È lui il nostro grande assente.

E a sua volta che caratteristiche ha, il tempo?

Non è posto questo per approfondimenti filosofici eccessivi, ma in generale si concorda tutti, oltre che sulla direzionalità del tempo, che è il suo tratto fondamentale, in una sua divisione tripartita in una sfera che non esiste ancora ed fatta di possibilità infinite, il futuro, una di estensione imprecisata che è vissuta nel momento, il presente, e infine una dimensione che è immota, cristallizzata nella memoria ed ormai impossibile da modificare, il passato.

Si concorda anche, in generale, che le tre sfere così distinte debbano essere trattate in modo diverso.

Quasi sempre.

Non negli USA.

Nasce negli USA questa diatriba idiota sulle statue, cosa che non mi sorprende neanche un po’: sono un paese che di Storia innanzitutto ne ha poca, e quella che ha è dannatamente noiosa. Hanno avuto una guerra civile 150 anni fa, dopodiché la guerra l’hanno sempre esportata senza mai trovarsela in casa. A noi può sembrare assurdo che ancora si accapiglino su fatti di un’epoca in cui noi stavamo facendo l’Unità d’Italia, ma si consideri che noi abbiamo avuto in mezzo una dittatura e due guerre mondiali, loro in buona sostanza niente. Oltre a ciò, gli USA sono forse il paese del mondo in cui minor presa ha avuto l’hegelismo, e conseguentemente un paese in cui lo storicismo non ha mai preso piede.

Dunque, gli USA non hanno troppo il senso della suddivisione tripartita fra passato, presente e futuro. Fra 150 anni probabilmente li troveremo ancora infervorati sulla guerra civile esattamente come lo sono oggi.

Noialtri, però, di solito pensiamo che il tempo arrivi, diventi presente per un po’, ed in questa finestra noi combattiamo le nostre battaglie politiche, e dopo un altro po’ passi nella “Storia”, che è fissa lì e va solo studiata e capita. E così il tempo prende tutte le cose umane e le muta fino a renderle irriconoscibili: gli oggetti, le dottrine, le morali, i testi… niente può sfuggire al suo effetto.

Ma la nostra autrice ha deciso che il Tempo non ha effetto… o al massimo ce l’ha solo come dice lei.

Per esempio, il Tempo ha un effetto sulla società, e quindi la visione che ha piazzato la statua sul piedistallo è diventata obsoleta. Quindi, ABBATTEREEEEE!

Quello che sembra sfuggirle, però, è che i simboli e i significanti sono anch’essi soggetti al Tempo. Non è che tutto il mondo è andato avanti e invece il significato di quelle statue è rimasto fermo – donde la necessità di abbatterle per “aggiornamento”.

Io in soggiorno ho una vecchia macchina da cucire Singer. Che cos’è? A cosa serve? A cucire?
Non v’è dubbio alcuno che chi l’ha inventata volesse proprio usarla per cucire. Tutta la sua struttura porta le tracce del progetto originario, e in effetti volendo si potrebbe ancora usarla per cucire, e, certo, ci sarà anche chi la usa per cucire e ci fa dei graziosi video ASMR su youtube. Ma la macchina da cucire che sta nel mio soggiorno non serve a quello, nessuno la usa per quello. È lì per bellezza, fa arredo. E il fascino che ha essa lo ricava dalla sua capacità di evocare il passato, di dare un senso di storia, di permanenza delle cose… Non dal fatto che si usi per cucire, cosa che nessuno fa più.

Di certo la statua di uno schiavista può essere anche vista come una celebrazione della schiavitù. Ma non è una celebrazione della schiavitù, non ha quella proprietà intrinseca, è una cosa che gli viene appiccicata sopra. La nostra autrice fa una lodevole analisi del ruolo che svolgevano i monumenti nella volontà dei loro creatori, e che volendo potrebbero svolgere anche oggi. Potrebbero. Ma non sono affatto obbligati, ed anzi si può senz’altro sostenere che nella maggior parte dei casi non lo fanno, perché… è passato Tempo. Il cazzo di TEMPO. Anche le statue che avevano un significato politico lo perdono, passati un tot di anni. Ah, ma giusto “ogni statua è politica” … yeah, ok. Vuol dire che nessuna lo è. Più realisticamente: alcune statue, costruite da poco, sono politiche; altre, vecchie, non lo sono più. Perché non sono più attuali, perché è passato TEMPO.

Ma niente, non può lei ammettere che il Tempo in questo discorso abbia un ruolo, altrimenti dovrebbe ammettere che questa diatriba è una colossale minchiata. Particolarmente rivelatrici sono le otto-righe-otto che dedica alla questione delle piramidi, irrilevanti perché i faraoni sono tutti morti (corsivo suo). Ah, certo, perché Edward Colston invece è vivo e gioca a golf con Elvis Presley e Robert Lee.

Sì, è vero, sono tutti morti i faraoni. Come sono tutti morti gli schiavisti, e gli schiavi, e i loro nipoti, pronipoti, pro-pronipoti. La statua di Colston fu eretta quasi due secoli dopo la sua morte, e ne è passato un altro prima che decidessimo che era cattivo e andava abbattuta. Duecentonovantanove anni; cazzo, potevano aspettarne un altro, almeno facevano cifra tonda. E non solo: la statua di Colston fu eretta nel 1895; la tratta degli schiavi in UK era stata vietata nel 1807, quasi un secolo prima; e durante quello specifico secolo il Regno Unito fu anche particolarmente attivo contro la tratta, dando carta bianca a navi che si occupassero attivamente di intercettare e sequestrare i vascelli dei mercanti di schiavi (forse gli Inglesi si sarebbero risparmiati lo sforzo, se avessero immaginato che essere stati la prima civiltà della storia a combattere attivamente lo schiavismo sarebbe stato ripagato col rinfacciargli che “alcuni” inglesi fossero schiavisti). La verità è che il tema dello schiavismo in UK era già obsoleto nel 1895. Oggi? Pagliaccesco. Certo, il razzismo non è un tema obsoleto, ma se dobbiamo abbattere tutte le statue di razzisti non resta in piedi manco una cazzo di madonnina agli angoli delle strade.

La verità è molto semplice, non ci vogliono tanti sofismi: nessuno se la prende con le piramidi perché su di esse è passato il TEMPO. E il tempo travolge i significati, riscrive il senso. Ma se si ammette che il tempo cambi i significati, allora ci si deve confrontare anche con la disturbante ovvietà del fatto che nella maggior parte dei casi queste vecchie statue non significano più niente di tutte le nefandezze che sono loro attribuite, neanche in quei casi in cui davvero, in origine, lo significavano. In compenso, il tempo ha fatto acquisire loro il valore di testimonianza storica, nel nome del quale sarebbero da preservare.

Ma il grande assente fa sentire la sua assenza anche altrove, come nel buffo discorso sulla statua di Montanelli. La Sinistra, che mai ha tollerato l’esistenza di un intellettuale di Destra che godesse di un certo prestigio, un paio di decadi dopo la morte di Montanelli si è gettata contro la sua statua, sfruttando l’ondata iconoclasta… Ma la cosa buffa qui è: nessuno degli argomenti “storici” si applica alla statua di Montanelli.  Quella statua è più giovane di me, non esiste un criterio secondo il quale si possa definirla “storica”. Ben venga discuterla nel suo merito di opera celebrativa, dico io, perché non è un pezzo di storia, è un pezzo di attualità: è stata messa lì per celebrare, e lo sta facendo anche oggi. Contrariamente alla statua di Colston.

Quindi sì, sorpresa! Io sono del tutto favorevole ad una discussione sulla statua di Montanelli. E non dovrebbe sorprendere nessuno, visto che io tengo conto del Tempo.

Ma se il tempo non lo tieni in considerazione, allora non potrai cogliere alcuna significativa differenza fra Montanelli, Edward Colston, il generale Lee e Cheope. Venti anni sono diversi da centoventicinque e hanno un impatto diverso sulle cose; diverso è il nostro livello di coinvolgimento, la nostra distanza, la nostra consapevolezza… ma se uno si rifiuta di vederlo allora ieri è uguale a tre secoli fa che è uguale a tre millenni fa.

E su questa scia si deve ovviamente proseguire con le statue dei nazisti, che sono statue sì abbattute… ma subito dopo la caduta del regime, quando ancora erano attuali e avevano un significato ben preciso. Ancora una volta, da questo discorso manca completamente Lui. Ho sentito più volte parlare di “storia viva” per riferirsi a queste “mosse” da ribbbbelli con cui si buttano giù le statue, come se la storia passata e la storia presente potessero essere trattate allo stesso modo. Ma la Storia non è “viva”, è passata; se è viva si chiama “attualità”. Noi consideriamo “storico” ciò che ormai è stato consegnato alla memoria, da cui abbiamo quella distanza necessaria per poterlo comprendere con una certa oggettività. Quella che viviamo oggi sarà storia domani, non oggi. Addirittura, lessi da qualche parte qualcuno dire spregiativamente che la mia visione equivale a vedere la storia come se fosse “una cartolina”… Ma perché, che cosa si vorrebbe che fosse una roba successa trecento anni fa? Il nostro pulsante vissuto quotidiano? È esattamente “una cartolina”: una cosa ferma, lì, di cui noi abbiamo le tracce, che noi guardiamo e studiamo per cercare di comprendere meglio il presente, ma che non abbiamo il potere di modificare. Se no non è Storia, è attualità.

Ma, certo, se il Tempo non è un fattore in gioco, allora non ha neanche troppo senso ripercorrerne in modo ordinato il filo sino ad oggi. E suppongo allora si possa anche mancare di capire in che cosa consista l’esperienza della storia. Rifiutandosi di applicare il principio di carità, e in realtà andando borderline nello strawman, la nostra autrice liquida l’affermazione secondo cui distruggere le statue equivarrebbe a cancellare la storia, perché “la storia sta sui libri e nei musei”. Seriously…? Ma è ovvio che nessuno sostenga che senza la statua di Colston l’informazione su Colston andrà perduta nella polvere dei secoli. Su Wikipedia la trovi ancora la sua storia; finché un dittatore non la farà cancellare in venti secondi, resterà senz’altro registrata su un server da qualche parte. Il punto non è l’informazione sulla storia, è l’esperienza della storia, la connessione del presente con il passato attraverso il vissuto sensoriale. Quando perdiamo una di queste statue perdiamo un’occasione di contatto con la Storia. È questo quello che si intende quando si dice che si “cancella la storia”; sono sicuro che Wikipedia resterà al suo posto anche senza statue, ma avremo perso un oggetto concreto, un segno tangibile. Non ci serve certo che Auschwitz resti in piedi per ricordarci della Shoah, no? E se è per questo, Auschwitz se “celebra” qualcosa celebra proprio la Shoah. Eppure vogliamo tutti che resti in piedi, e gli unici che hanno cercato di abbatterlo sono stati proprio… i nazisti. Ma come mai?

Ma, ancora una volta il problema è che non c’è il fattore Tempo, qui. Ovvero non si riconosce che il tempo conferisca alle cose valore storico, perché si rinnega che il tempo abbia effetto sulle cose. E continuiamo a girare in cerchio su questi argomenti come mosconi senza un’ala.

E in realtà basterebbe proprio gridare che l’imperatore è nudo e il Tempo è una cosa che esiste, per rendere quasi tutto l’articolo… come dire… fuffoso?

Ma ci sono anche un altro paio di cose su cui voglio fare riflessione, e in particolare la nozione un po’ girotondina che una protesta debba per forza dare fastidio (mentre glisserò sulla retorica del white privilege; non ci bastava importare il razzismo stile USA, dobbiamo sorbirci pure l’anti-razzismo stile USA…).

Ora, io capisco che vuoi dare fastidio ai poliziotti, visto il tema della protesta. Non vedo perché devi dare fastidio gratuitamente a me, che non sono razzista.

Lo so, lo so… “siamo tutti razzisti”! Again: vorrebbe dire che non lo è nessuno. Concretamente e realisticamente: nessuno di noi è completamente immune a pregiudizi, ma molti di noi non vivono la propria vita sulla base di idee e principi razzisti e non appoggiano politiche discriminatorie. Dunque, non vedo che gusto particolare ci sia, o che risultato specifico si consegua, a “turbare la mia coscienza”, quando io non sono fra i razzisti. Non mi sentirò razzista solo perché rispetto la storia europea, e abbattere una di quelle statue non salverà nemmeno una vita che sia una, o vi assicuro che lo appoggerei. In compenso ovviamente questa cosa mi ha reso il movimento BLM molto meno simpatico. È un po’ una cifra della Sinistra quella di respingere il più possibile potenziali alleati nel campo dei nemici… ma io non posso accettare che mi si costringa a scegliere fra la solidarietà alla causa antirazzista e il mio apprezzamento per la Storia europea. E se qualcuno proverà a obbligarmi a farlo, sceglierò come io ritengo di fare… ma chi mi sta operando questa violenza parte già un bel po’ svantaggiato.

No, abbattere statue non aiuta nessuno. No, il mio vivere la mia vita in pace non sottrae nessun diritto a nessuno. No, il fatto che uno stia male per la sua condizione non significa che io debba accettare tutto quello che fa come sacrosanto, se no anche gli incel stanno male, come la mettiamo? E infine, se davvero non dovremmo concentrarci tanto su queste statue perché i problemi veri sono altri… Fantastico! Non posso che apprezzare questa forma di benaltrismo reverse (come se non fosse iniziato proprio in seno alla Sinistra Americana, questo discorso ridicolo), e demandare però che sia seguita con coerenza.

Visto che i problemi sono altri – e per me non sono “altri”, sono “altri” ma anche “questi”, anche il nostro rapporto con la storia è un problema – fatemi sentire la frasetta: “hai ragione sulle statue”… no, dai, sto chiedendo troppo… facciamo: “il tuo punto di vista sulle statue è legittimo e rispettabile”, e questa contesa sarà finita all’istante.

Anche perché dopo aver visto uno di sinistra abbandonare un pochino la pretesa di superiorità morale assoluta avrò visto tutto ciò che la vita aveva da offrire, e andrò a suicidarmi in modo spettacolare.

Ossequi.





La decadenza

29 06 2020

“Oh, è furbo, questo Disney! Lo ammetto dal profondo della mia misantropia. Fai piangere un coniglietto, rivela un cuore di pietà dietro il guscio di una tartaruga, inventati una buona azione per la vipera e pensieri gentili per l’ermellino, e hai in mano la chiave del cuore dell’uomo moderno. E Disney lo sa. Al cuore del suo segreto c’è un’espansione del mondo animale con una corrispondente deflazione di ogni valore umano. C’è un profondo cinismo alla radice del suo, come di tutto, il sentimentalismo.”

P.L. Travers

Tempo addietro lessi un articolo di filosofia morale bellissimo, dove per “bellissimo” si deve intendere “la Convenzione di Ginevra avrebbe dovuto vietare la scrittura di merda simile”, in cui si sostenevano le basi giuridiche secondo cui non dovremmo sperimentare sugli animali in generale e sui primati in particolare.
L’argomento, che nella sua perversione non faceva una grinza, era: poiché i primati non umani non hanno le facoltà mentali necessarie a esprimere consenso a procedure sperimentali, esattamente come bambini o persone con disabilità psichica, per i quali presupponiamo che non vi sia consenso, dovremmo presumere anche per loro che il consenso non ci sia.

Ovviamente si omette qui tutta una serie di dettagliucci su come i rapporti interspecie non siano assimilabili ai rapporti intraspecie… tuttavia, in un certo senso il discorso funziona.
Dal mio punto di vista, se abbiamo di fronte una specie diversa da quella umana che non è capace di dialogare con noi nei termini di consenso, dissenso e ragionamento morale, siamo autorizzati a dettare noi le regole morali di quel rapporto: è il vantaggio che ci viene dall’essere capaci di pensiero astratto ed etica.
Ma se noi pensiamo, invece, che non debba esserci alcun privilegio o vantaggio collegato al ragionamento morale e al pensiero astratto… allora, be’, ovvio: dobbiamo presumere il dissenso.
Questo però ha delle conseguenze interessanti quanto paradossali. Difatti viene fuori che io sono autorizzato a sperimentare sugli umani, anche in modo potenzialmente rischioso, a certe condizioni (il consenso su tutte)… mentre non posso sperimentare sugli animali a nessuna condizione.
Insomma l’animale è molto più tutelato dell’umano. Chi fa sperimentazione sugli animali in Italia sa che per certi aspetti è già così.

Il pensiero morale corrente, che però va un po’ a scemare come presa, sarebbe fondato sul concetto di equità: io ti tratto come mi aspetto di essere trattato. Diritti e responsabilità vanno di pari passo, e la famosa distinzione fra “agenti morali” e “pazienti morali” è nella sua struttura fondamentale completamente campata in aria: possono esistere soggetti che hanno tutele specifiche pur non avendo i corrispettivi doveri, ma il framework che va ad inquadrare il discorso morale è che diritti e doveri vadano in parallelo. I famosi “casi marginali” sono appunto casi marginali: effetti collaterali che non fanno la struttura del metodo del ragionamento morale.
C’è anche una ragione pratica per questo, ed è proprio quella espressa qui sopra: se essere “creature morali” significa avere tantissimi doveri e nessun diritto aggiuntivo, allora automaticamente essere “morale” mi porrà in svantaggio. Se io decidessi che nella mia vita mai e poi mai posso fare del male ad un animale per il mio tornaconto… be’, prima o poi un animale mangerà me, visto che lui non ha letto Peter Singer.
Mark Twain – vegetariano e animalista, non a caso – espresse questo concetto esplicitamente in The Mysterious Stranger, dove abbiamo uno sciocco prete che elogia il pensiero morale dell’uomo, mentre un angelo, di intelletto superiore e molto più sgamato, lo identifica subito per quello che è: una grandissima fregatura, un lose-lose totale, una cosa che ti pone al di sotto dei vermi, al di sotto delle piante, dei batteri, perfino al di sotto dei sassi. La capacità dell’uomo di pensare in senso morale è per l’uomo un disastro totale. Dopotutto, se l’uomo vuole sopravvivere deve autorizzare sé stesso a comportarsi peggio dei sassi e delle piante, deve concedersi la possibilità di sopraffare, di conquistare.

Ovviamente, la realtà storica-evolutiva è che la morale si è evoluta esattamente come un adattamento della specie, che proprio in quanto selezionatosi positivamente, dà un vantaggio evolutivo alla specie sopra le altre. Noi siamo costruiti per essere morali, come specie, ma questo perché la cosa ci dà dei vantaggi; se fosse solo una fregatura colossale non l’avremmo sviluppata.

La dottrina antropocentrica si è sviluppata innanzitutto per permettere all’uomo sopravvivenza & successo: se l’uomo non pensa prima a sé stesso, non lo aiuterà di certo nessun altro animale, né alcuna pianta o sasso. Il diritto umano di sopraffare l’animale equivale al diritto di Homo sapiens di esistere come specie e di portare avanti il proprio compito biologico. E più in generale, non viviamo in un mondo cruelty-free: anche all’interno della nostra specie si verificano i conflitti, e la capacità di prevalere, di sopraffare, è una dote essenziale, che dovrebbe stare sempre molto in alto nella scala dei valori. Per inciso, trattasi della dote peculiare del maschio: il corpo del maschio è un corpo fisicamente adatto a usare la forza per prevalere, e questa dote è stata a lungo premiata dalla civiltà.

Ovviamente c’è tutto un universo post-modernista coscienziosamente dedito a dimostrare l’indimostrabile: che che la natura umana sia infinitamente malleabile e interamente costrutto sociale, e dunque per esempio anche il nostro “mangiar carne”, il nostro gusto per la caccia, il piacere della lotta, l’istinto della gerarchia… cose che hanno fatto parte della specie umana da quando esiste, sono un costrutto sociale. Di certo c’è molto nella natura umana di costruito socialmente e storicamente… ma non TUTTO. Per quanto costoro possano sistematicamente accecare sé stessi a riguardo, l’uomo è, prima ancora che una creatura sociale e storica, un ente biologico inserito in un macrosistema biologico; ha da obbedire alle leggi della sua natura biologica. E la biologia reclama che per avere il successo biologico – che è sopravvivenza – occorre conquistarselo all’interno di un ambiente ostile. Da questa particolare dottrina, quella secondo la quale il cardine primo della nostra morale è che dobbiamo sopravvivere, è disceso tutto uno schema di valori “tradizionali” che, effettivamente, coerentemente con i j’accuse dei postmodernisti ha sempre piazzato il maschio bianco (più correttamente, il maschio della cultura cui ci si sta riferendo, che non è affatto sempre bianco), e io aggiungo il maschio bianco adulto, all’apice, e l’animale come fanalino di coda, con in mezzo donne, bambini ambosessi, disabili psichici, “razze inferiori” eccetera.

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Bello, eh? Peccato che, a destra, qualcuno dovrà spiegare alle meduse che non devono pungerci, ai topi che non devono infestare le nostre abitazioni, e in generale bisognerà convincere tutti quanti a spostarsi quando abbiamo bisogno di costruire una casa…

Al netto dei fraintendimenti sui fatti, sui quali ovviamente la nostra consapevolezza si evolve con la storia (come la convinzione che le donne non possano essere razionali, o i neri siano incapaci di una propria cultura), i valori più o meno sono rimasti sempre quelli e sono valori di sopravvivenza. Non è che sopravvivere oggi sia sostanzialmente diverso dal farlo nel 1200. Cambiano alcune strategie, la forza fisica non è più importante come un tempo (donde la parità dei sessi) ma il punto è sempre mangiare-crescere-riprodursi. In cima alla scala, nella stanza dei bottoni, ci sta quello che è più capace di conquistare la realtà, quello (ritenuto) più forte e più intelligente.
E fintanto che permanga l’idea che la nostra specie debba sopravvivere, questa cosa non può cambiare: dovrà sempre essere quello più forte e più intelligente a comandare, con tutti gli onori ed oneri connessi. E non intendo, ovviamente, che dovrà essere sempre il maschio bianco adulto in cima alla scala… ma sicuramente dovrà essere sempre quello che in quel momento è più forte, più intelligente e più atto a prendere le decisioni.

Ma il punto è che oggi è proprio quel principio che si debba sopravvivere, ad essere messo in questione.

La rivoluzione valoriale che si sta verificando in Occidente sta nella sovversione di quella scala che poneva il più forte e intelligente in cima. Teoricamente, il principio ispiratore di questo nuovo schema di valori sarebbe stabilire un nuovo schema gerarchico orientato alla parità (vedi immagine sopra). Ma, per cominciare, uno schema gerarchico orientato alla parità non esiste, c’è sempre un primus inter pares. Secondo: demolendo sistematicamente e senza pietà tutti quei valori che hanno posto originariamente il maschio bianco adulto nella sua posizione privilegiata, non si ottiene certo la parità, bensì un’inversione.
Il maschio bianco si era preso onori ed oneri. Non gliel’aveva chiesto nessuno? Forse, ma resta il fatto che se adesso gli togli tutti gli onori e gli lasci solo gli oneri allora vuol dire che lo vuoi semplicemente annientare. Nessuna creatura che abbia tutti gli obblighi morali e nessuno dei diritti morali può sopravvivere, perché tutti ne prenderanno e nessuno gli darà.
Nella schema dei valori che sta prendendo piede oggi la scala e sovvertita, ma ovviamente non è scomparsa. Prima il maschio bianco adulto era in cima e l’animale fanalino di coda; adesso l’animale sta in cima: sacro, innocente, puro, intoccabile, anche quando ti sbrana – dopotutto, non ha quella gran sòla del senso morale, è “innocente”, quindi può fare il cazzo che vuole. Seguono i bambini, che essendo meno intelligenti e razionali ovviamente sono la massima espressione dell’umano – e peccato che debbano crescere e corrompersi, ma per fortuna ci vuole tantissimo e infatti s’è deciso che si può restare bambini un po’ quanto si vuole, pure fino a 18 anni: più si resta innocenti, meglio è. Poi arrivano alcune tribù isolazioniste piazzate ai quattro angoli del globo (innocenti e puri anche loro, pure se ti squartano vivo, perché anche loro non hanno quella gran sòla del senso morale occidentale), molto più giù iniziano ad arrivare le “minoranze oppresse”, che non sono più addossate del gravoso compito di dimostrare che meritano di stare in cima alla scala, ovvero dimostrare forza ed intelligenza, bensì si trovano piazzate tanto più in alto quanto meno forza ed intelligenza si sforzino di dimostrare.
Non è cambiato il posizionamento dei soggetti lungo la scala… o meglio, sì, è cambiato anche quello, e questo sarebbe anche positivo – le donne e le “razze inferiori” avrebbero chiaramente salito dei gradini. Ma il punto è che è cambiato anche com’è fatta la scala. Non si chiede più alle donne o agli africani di salire il gradino e entrare nella stanza dei bottoni (anche perché hanno già dimostrato di saperlo fare), si demanda piuttosto l’inversione totale del quadro di valori. Ma chi cazzo vorrà più prendersela la sòla si fare quello “col senso morale”, lo sfigato che ha doveri verso tutti, se non può prendersene anche qualche vantaggio? Vorrei notare che essere “morali” richiede un notevole sforzo; il premio è stare in cima alla scala. Ma se la ricompensa invece consiste nel finire più in basso di tutti, al punto che la tua vita diventa più sacrificabile di quella di un animale… Perché mai dovremmo farlo? Molto più semplice fare l’animale, o il selvaggio, o qualunque altra cosa… l’innocente: tutti i diritti, zero obblighi. Quindi parte la gara a chi arriva ultimo: a chi è più debole e stupido. Perché alla fine essere “innocente” significa solo mancare di comprensione, di intelligenza, di esperienza. Questo è ciò che stiamo glorificando.

La rilettura della storia occidentale cui stiamo assistendo è un passo di questo processo nichilistico. A seguito della riscrittura dei valori, ogni conquista storica viene necessariamente trasformata in una vergogna per cui cospargersi il capo di cenere, in quanto ogni conquista storica, per dirla con Nietzsche, come ogni cosa grande sulla Terra è stata bagnata lungamente e in profondità nel sangue. Dopotutto, le conquiste sono tutte, appunto, conquiste, il frutto dell’atto del conquistare. La tecnologia ci permette di stare meglio che in passato, ma sempre al prezzo di inquinare e consumare risorse, quindi il nostro benessere tecnologico è nettamente “rubato” ad altre specie, quando non direttamente ad altri popoli. Il divieto a celebrare i nostri atti di sopraffazione, o anche solo semplicemente accettarli senza celebrarli, con esso l’annesso obbligo di rinnegarli tutti e sputarci sopra, diventa divieto di essere orgogliosi delle nostre conquiste e obbligo anzi di rinnegarle e sputarvi sopra.

La mia previsione è che siamo solo all’inizio di questo processo, e non mi sforzerò di inventare nomi eccentrici per definirlo, visto che si chiama “decadenza”. Nietzsche ne aveva già intuiti i capisaldi, ma si fece prendere dalla sua foga irrazionalista, finendo di fatto anche lui nella glorificazione della natura animale sulle caratteristiche propriamente umane. Ma suppongo almeno lui sapesse che gli animali sono generalmente feroci, e che lo stato di “innocenza” altro non è che uno stato ferale, di ferocia; la nostra generazione invece è educata da Disney, lei non lo sa: vede nell’animalità una dimensione di purezza infantile di gran lunga preferibile ai tormenti dell’età adulta, con quel suo scomodissimo “senso morale”, con obblighi che diventano sempre più numerosi e privilegi che tendono sempre più allo zero.

La domanda interessante è dove e quando questo processo si fermerà. In generale l’elemento che frena la decadenza è l’istinto vitale, il bisogno di sopravvivere, che è bisogno di sopraffare. Probabilmente si fermerà nel momento in cui sarà messa in questione la nostra sopravvivenza.

Ossequi