Esce Barbie, il film evento di Greta Gerwig. Un film che scatena delle controversie, particolarmente riguardo alla sua trattazione di temi come il femminismo e il patriarcato, e attira addirittura da parte di alcuni l’accusa di essere un film misandrico, che “odia gli uomini”
Personalmente credo che abbia perfettamente ragione chi rigetta, almeno in parte, questa tesi e sottolinea che Barbie non è un film sul femminismo o sul patriarcato, ma sull’identità e gli stereotipi. È stra-vero. Femminismo e patriarcato sono temi di Barbie, ma non sono il tema di Barbie. Il tema di Barbie è l’identità.
Tuttavia, è proprio lì che Barbie mostra più gravemente i suoi limiti, nonchè i limiti dell’ideologia che gli sta dietro.
Il messaggio finale di Barbie è “trova la tua identità al di là di ogni stereotipo di genere”.
Bisogna riconoscere al film una certa coerenza in questo. È vero, sì, gli stereotipi legati agli uomini, ai Ken patriarcali, sono molto più severamente criticati di quelli legati alle Barbie, e in questo c’è una chiara asimmetria. Quest’accusa è valida e fondata. Ma fermarsi lì significa mancare il punto: Barbie effettivamente ce l’ha con gli stereotipi di genere, tutti. Diciamo che ne odia alcuni un po’ più di altri, ma il messaggio è coerente.
E non è un messaggio nuovo o originale o rivoluzionario. Di questi tempi, in effetti, è il messaggio più banale di tutti, praticamente tutti i film che escono hanno lo stesso messaggio ed è il messaggio di cui si è appropriata la critica sociale progressista, che si sintetizza in: bisogna abbattere gli stereotipi, gli stereotipi sono oppressivi, gli stereotipi sono il nemico.
Ma ecco… ne siamo sicuri?
Intendiamoci: essere forzati in ogni modo a entrare in un certo schema è doloroso. Sentirsi forzare addosso un’identità è una pena infinita, quanto dover indossare a forza scarpe due taglie più piccole. Se non lo so io che sono omosessuale bipolare e in odore di Asperger. E tuttavia, proprio in quanto io in quegli schemi non sono mai riuscito a stare, so anche come ci si sente nel momento in cui ti trovi fuori da ogni schema, in cui ti sei in qualche modo “liberato”. Per un omosessuale quel momento è il coming out, e per alcuni può essere un momento molto delicato. Puoi trovarti a uscire da una gabbia in cui sei stato per anni o lustri o decadi… e ti trovi libero ma nel deserto, perché non hai indicazioni su come ricostruire la tua immagine, la tua vita e, soprattutto, ti manca il punto di riferimento più importante: una comunità di gente simile a te.
In realtà la comunità esiste, ovviamente, ma devi andartela a cercare e la parte più divertente è che, non appena ti riesca di trovare una comunità che un po’ ti somiglia… ecco che essa ti accoglie ma ti suggerisce anche caldamente di rientrare in una serie di schemi: ecco come essere un maschio omosessuale, ecco come essere una lesbica modello eccetera. Rispetti questi requisiti, di certo faciliteranno l’elaborazione della sua candidatura.
Questa mia non è da intendersi una critica ad una specifica comunità ma solo come un esempio che dice tanto, perché ogni comunità fa questo, è il prezzo per starci dentro. Ogni comunità ti fa pressione per aderire a degli schemi. A volte questa pressione è più pesante o perfino schiacciante, come nei totalitarismi, a volte è più leggera, ma non ci sono eccezioni a questa regola: si deve stare assieme, si deve cercare di trovare cosa da fare assieme, idee da condividere, musiche da ascoltare eccetera eccetera. Quindi, schemi in cui rientrare. Non sei costretto a rientrare in tutti gli schemi, ma ogni schematismo che ti renda riconoscibile e ti faccia parte di un gruppo facilita l’integrazione.
Non è per forza un male, questo: stare assieme agli altri in una comunità ci serve per definirci anche come individui, ma per stare insieme agli altri dobbiamo anche abbracciarne alcuni schemi.
E questi schemi sono quelli che poi diventano gli stereotipi, e non sono tutti quanti il male assoluto, dipende da con quanta forza siano imposti e quanto siano esclusivi e totalizzanti. Per dire, la società tende a proporre ai maschi di interessarsi agli sport competitivi, c’è un po’ di pressione in tal senso. Ok, io li odio: mi sia data la possibilità di rifiutare la proposta. Ma, personalmente, non sento come oppressivo il fatto in sé che ci sia questa proposta privilegiata rivolta ai maschi. L’alternativa è essere senza proposte o direzioni, e non è detto che non avere neanche proposte sia meglio. Per questo gli adolescenti formano branchi in cui ascoltano tutti la stessa musica e vestono tutti allo stesso modo, perché è quella la via attraverso cui si possono “identificare” e, alla fine, trovare un equilibro fra il sé la comunità. Quei quadri di riferimento, al livello di proposta, di indicazione, tornano utili.
Ma secondo alcuni questi schemi, tutti questi schemi, sono malvagi e da combattere. Greta Gerwig pare pensarla così. Il pensiero femminista cui Barbie si ispira è dichiaratamente non soddisfatto dal sapere soltanto che le donne non sono più obbligate a diventare madri, e che non ricevono più neanche grosse pressioni sociali in tal senso. A questo femminismo non basta che quegli schemi non vengano imposti, non chiede altri schemi alternativi, modelli più vari e differenziati a disposizione (altrimenti la bambola Barbie, con tutte le sue infinite variazioni sul tema, dovrebbe essere una soluzione più che soddisfacente), bensì è insoddisfatto che esistano schemi e modelli, punto. Una donna, ma anche un uomo, non deve guardare un film, leggere un libro, vedere un cartellone pubblicitario, ascoltare un podcast, e trovarvi un’indicazione su come costruire la propria identità sessuata. Se succede è il male, è l’oppressione, è… boh? Il patriarcato?
Ma qui Barbie diventa strano, perché l’umore che traspare dal film non è il senso di oppressione dovuto a stereotipi invasivi, quanto il disorientamento di chi si sente senza indicazioni. In questo senso, il monologo femminista contro il patriarcato che il film ci propone sembra curiosamente schizofrenico, o quanto meno diretto al nemico sbagliato. Il patriarcato non mette le donne in nessuna “dissonanza cognitiva”, come il film lo accusa: sotto il patriarcato le donne devono essere mamme o suore o al più puttane; dove sarebbe la dissonanza cognitiva? Mi pare chiarissimo e lineare: sei una cittadina di serie B che deve fare faccende di casa e sfornare bambini. Sotto il patriarcato il problema delle donne che “devono comandare ma non essere troppo cattive”, o che “devono avere i soldi ma non posso chiedere soldi” non esiste: sotto il patriarcato comandano gli uomini e gli uomini hanno i soldi, le donne lavano i piatti, se no che patriarcato è? Qual è questo patriarcato in cui le donne hanno il potere e il denaro? Quanto meno, uno in PESSIMA salute. Di che stiamo parlando? E d’altro canto, il discorso tira delle chiare bordate proprio al femminismo, come il problema di “riconoscere che il sistema è truccato [in favore degli uomini] e al contempo esservi grata”. La richiesta di “riconoscere che il sistema è truccato” non viene certo dal patriarcato, viene dal femminismo; il patriarcato ti vuole “grata” e basta, di certo non ti crea nessuna dissonanza cognitiva chiedendoti anche di metterlo in discussione. Greta Gerwig, insomma, pare turbata dal femminismo tanto quanto dal patriarcato. Da Barbie come dai bambolotti. Il disagio espresso da quel discorso sembra, paradossalmente, piuttosto collegato alla crisi del patriarcato: alla confusione che deriva da un mondo che il giorno prima ti dava indicazioni fin troppo dirette e severe e che da un giorno all’altro ti lascia da solo, o in questo caso da sola, a dover decidere chi diventare senza alcuna direttiva.
E questo in effetti è Barbie. La bambola, intendo. Un simbolo di infinita potenzialità, di illimitate possibilità identitarie, la donna che può essere tutto e proprio per questo non sa più chi essere. Il simbolo della piena autodeterminazione che però porta con sé anche lo smarrimento, il senso di inadeguatezza di chi si trova capitano di una nave durante una tempesta e il giorno prima era il mozzo.
Barbie è un film che confonde e che non ha una lettura semplice e univoca e che ha scatenato reazioni contrastanti, e credo che questa sia la ragione: Barbie è fondamentalmente un film contraddittorio, senza orizzonti chiari. Vuole denunciare tutti gli schemi che sono oppressivi e dannosi, eppure al fondo esprime col suo linguaggio il disagio che deriva da non avere schemi. Per questo le Barbie col “cervello lavato” dai Ken stanno così bene: hanno degli schemi molto precisi e semplici. E quando esse vengono “liberate” non è perché il monologo ha rivelato le contraddizioni della loro condizione – che non ci sono: sono univocamente subalterne – bensì ha creato delle contraddizioni. Perché la libertà ha in sé il contraddittorio, il paradosso, l’incertezza, l’equilibrismo.
E l’unico modo in cui il film riesce a passarla liscia in questa contraddizione è perché manca completamente di pars construens. Ken rinuncia agli stereotipi della virilità e ad essere un riflesso di Barbie, ma non abbiamo diea di cosa ne sarà dopo di lui. Barbie decide di diventare umana e coltivare la propria identità, ma non abbiamo idea di come lo farà, di che tipo di donna diventerà. Se la mia esperienza dice qualcosa, per loro la parte più difficile rischia di essere proprio quella che viene adesso. E con difficile, intendo: potrebbero trovarsi a rimpiangere i tempi più semplici.
Nessuno si accorge di quanto Barbie sia confuso e non sappia cosa vuole davvero, perché il film si ferma nel momento in cui dovrebbe dare la risposta più importante: chi saranno Barbie e Ken, ora che sono usciti dagli stereotipi?
Greta Gerwig non ritiene di avere responsabilità di dare una risposta. Ci limita a dirci che è molto complicato essere umani. Cosa che sapevamo già. È sufficiente? Specie dopo che ce lo dicono tutti i film usciti negli ultimi vent’anni? Chi va a distruggere gli schemi già noti non ha la responsabilità di suggerire a propria volta una via alternativa? Basta scaricare sul pubblico questo compito a casa?
No. Per me no.