Barbie e il problema dell’identità

9 08 2023

Esce Barbie, il film evento di Greta Gerwig. Un film che scatena delle controversie, particolarmente riguardo alla sua trattazione di temi come il femminismo e il patriarcato, e attira addirittura da parte di alcuni l’accusa di essere un film misandrico, che “odia gli uomini”

Personalmente credo che abbia perfettamente ragione chi rigetta, almeno in parte, questa tesi e sottolinea che Barbie non è un film sul femminismo o sul patriarcato, ma sull’identità e gli stereotipi. È stra-vero. Femminismo e patriarcato sono temi di Barbie, ma non sono il tema di Barbie. Il tema di Barbie è l’identità.

Tuttavia, è proprio lì che Barbie mostra più gravemente i suoi limiti, nonchè i limiti dell’ideologia che gli sta dietro.

Il messaggio finale di Barbie è “trova la tua identità al di là di ogni stereotipo di genere”.
Bisogna riconoscere al film una certa coerenza in questo. È vero, sì, gli stereotipi legati agli uomini, ai Ken patriarcali, sono molto più severamente criticati di quelli legati alle Barbie, e in questo c’è una chiara asimmetria. Quest’accusa è valida e fondata. Ma fermarsi lì significa mancare il punto: Barbie effettivamente ce l’ha con gli stereotipi di genere, tutti. Diciamo che ne odia alcuni un po’ più di altri, ma il messaggio è coerente.
E non è un messaggio nuovo o originale o rivoluzionario. Di questi tempi, in effetti, è il messaggio più banale di tutti, praticamente tutti i film che escono hanno lo stesso messaggio ed è il messaggio di cui si è appropriata la critica sociale progressista, che si sintetizza in: bisogna abbattere gli stereotipi, gli stereotipi sono oppressivi, gli stereotipi sono il nemico.

Ma ecco… ne siamo sicuri?

Intendiamoci: essere forzati in ogni modo a entrare in un certo schema è doloroso. Sentirsi forzare addosso un’identità è una pena infinita, quanto dover indossare a forza scarpe due taglie più piccole. Se non lo so io che sono omosessuale bipolare e in odore di Asperger. E tuttavia, proprio in quanto io in quegli schemi non sono mai riuscito a stare, so anche come ci si sente nel momento in cui ti trovi fuori da ogni schema, in cui ti sei in qualche modo “liberato”. Per un omosessuale quel momento è il coming out, e per alcuni può essere un momento molto delicato. Puoi trovarti a uscire da una gabbia in cui sei stato per anni o lustri o decadi… e ti trovi libero ma nel deserto, perché non hai indicazioni su come ricostruire la tua immagine, la tua vita e, soprattutto, ti manca il punto di riferimento più importante: una comunità di gente simile a te.
In realtà la comunità esiste, ovviamente, ma devi andartela a cercare e la parte più divertente è che, non appena ti riesca di trovare una comunità che un po’ ti somiglia… ecco che essa ti accoglie ma ti suggerisce anche caldamente di rientrare in una serie di schemi: ecco come essere un maschio omosessuale, ecco come essere una lesbica modello eccetera. Rispetti questi requisiti, di certo faciliteranno l’elaborazione della sua candidatura.

Questa mia non è da intendersi una critica ad una specifica comunità ma solo come un esempio che dice tanto, perché ogni comunità fa questo, è il prezzo per starci dentro. Ogni comunità ti fa pressione per aderire a degli schemi. A volte questa pressione è più pesante o perfino schiacciante, come nei totalitarismi, a volte è più leggera, ma non ci sono eccezioni a questa regola: si deve stare assieme, si deve cercare di trovare cosa da fare assieme, idee da condividere, musiche da ascoltare eccetera eccetera. Quindi, schemi in cui rientrare. Non sei costretto a rientrare in tutti gli schemi, ma ogni schematismo che ti renda riconoscibile e ti faccia parte di un gruppo facilita l’integrazione.
Non è per forza un male, questo: stare assieme agli altri in una comunità ci serve per definirci anche come individui, ma per stare insieme agli altri dobbiamo anche abbracciarne alcuni schemi.
E questi schemi sono quelli che poi diventano gli stereotipi, e non sono tutti quanti il male assoluto, dipende da con quanta forza siano imposti e quanto siano esclusivi e totalizzanti. Per dire, la società tende a proporre ai maschi di interessarsi agli sport competitivi, c’è un po’ di pressione in tal senso. Ok, io li odio: mi sia data la possibilità di rifiutare la proposta. Ma, personalmente, non sento come oppressivo il fatto in sé che ci sia questa proposta privilegiata rivolta ai maschi. L’alternativa è essere senza proposte o direzioni, e non è detto che non avere neanche proposte sia meglio. Per questo gli adolescenti formano branchi in cui ascoltano tutti la stessa musica e vestono tutti allo stesso modo, perché è quella la via attraverso cui si possono “identificare” e, alla fine, trovare un equilibro fra il sé la comunità. Quei quadri di riferimento, al livello di proposta, di indicazione, tornano utili.

Ma secondo alcuni questi schemi, tutti questi schemi, sono malvagi e da combattere. Greta Gerwig pare pensarla così. Il pensiero femminista cui Barbie si ispira è dichiaratamente non soddisfatto dal sapere soltanto che le donne non sono più obbligate a diventare madri, e che non ricevono più neanche grosse pressioni sociali in tal senso. A questo femminismo non basta che quegli schemi non vengano imposti, non chiede altri schemi alternativi, modelli più vari e differenziati a disposizione (altrimenti la bambola Barbie, con tutte le sue infinite variazioni sul tema, dovrebbe essere una soluzione più che soddisfacente), bensì è insoddisfatto che esistano schemi e modelli, punto. Una donna, ma anche un uomo, non deve guardare un film, leggere un libro, vedere un cartellone pubblicitario, ascoltare un podcast, e trovarvi un’indicazione su come costruire la propria identità sessuata. Se succede è il male, è l’oppressione, è… boh? Il patriarcato?

Ma qui Barbie diventa strano, perché l’umore che traspare dal film non è il senso di oppressione dovuto a stereotipi invasivi, quanto il disorientamento di chi si sente senza indicazioni. In questo senso, il monologo femminista contro il patriarcato che il film ci propone sembra curiosamente schizofrenico, o quanto meno diretto al nemico sbagliato. Il patriarcato non mette le donne in nessuna “dissonanza cognitiva”, come il film lo accusa: sotto il patriarcato le donne devono essere mamme o suore o al più puttane; dove sarebbe la dissonanza cognitiva? Mi pare chiarissimo e lineare: sei una cittadina di serie B che deve fare faccende di casa e sfornare bambini. Sotto il patriarcato il problema delle donne che “devono comandare ma non essere troppo cattive”, o che “devono avere i soldi ma non posso chiedere soldi” non esiste: sotto il patriarcato comandano gli uomini e gli uomini hanno i soldi, le donne lavano i piatti, se no che patriarcato è? Qual è questo patriarcato in cui le donne hanno il potere e il denaro? Quanto meno, uno in PESSIMA salute. Di che stiamo parlando? E d’altro canto, il discorso tira delle chiare bordate proprio al femminismo, come il problema di “riconoscere che il sistema è truccato [in favore degli uomini] e al contempo esservi grata”. La richiesta di “riconoscere che il sistema è truccato” non viene certo dal patriarcato, viene dal femminismo; il patriarcato ti vuole “grata” e basta, di certo non ti crea nessuna dissonanza cognitiva chiedendoti anche di metterlo in discussione. Greta Gerwig, insomma, pare turbata dal femminismo tanto quanto dal patriarcato. Da Barbie come dai bambolotti. Il disagio espresso da quel discorso sembra, paradossalmente, piuttosto collegato alla crisi del patriarcato: alla confusione che deriva da un mondo che il giorno prima ti dava indicazioni fin troppo dirette e severe e che da un giorno all’altro ti lascia da solo, o in questo caso da sola, a dover decidere chi diventare senza alcuna direttiva.

E questo in effetti è Barbie. La bambola, intendo. Un simbolo di infinita potenzialità, di illimitate possibilità identitarie, la donna che può essere tutto e proprio per questo non sa più chi essere. Il simbolo della piena autodeterminazione che però porta con sé anche lo smarrimento, il senso di inadeguatezza di chi si trova capitano di una nave durante una tempesta e il giorno prima era il mozzo.

Barbie è un film che confonde e che non ha una lettura semplice e univoca e che ha scatenato reazioni contrastanti, e credo che questa sia la ragione: Barbie è fondamentalmente un film contraddittorio, senza orizzonti chiari. Vuole denunciare tutti gli schemi che sono oppressivi e dannosi, eppure al fondo esprime col suo linguaggio il disagio che deriva da non avere schemi. Per questo le Barbie col “cervello lavato” dai Ken stanno così bene: hanno degli schemi molto precisi e semplici. E quando esse vengono “liberate” non è perché il monologo ha rivelato le contraddizioni della loro condizione – che non ci sono: sono univocamente subalterne – bensì ha creato delle contraddizioni. Perché la libertà ha in sé il contraddittorio, il paradosso, l’incertezza, l’equilibrismo.

E l’unico modo in cui il film riesce a passarla liscia in questa contraddizione è perché manca completamente di pars construens. Ken rinuncia agli stereotipi della virilità e ad essere un riflesso di Barbie, ma non abbiamo diea di cosa ne sarà dopo di lui. Barbie decide di diventare umana e coltivare la propria identità, ma non abbiamo idea di come lo farà, di che tipo di donna diventerà. Se la mia esperienza dice qualcosa, per loro la parte più difficile rischia di essere proprio quella che viene adesso. E con difficile, intendo: potrebbero trovarsi a rimpiangere i tempi più semplici.
Nessuno si accorge di quanto Barbie sia confuso e non sappia cosa vuole davvero, perché il film si ferma nel momento in cui dovrebbe dare la risposta più importante: chi saranno Barbie e Ken, ora che sono usciti dagli stereotipi?
Greta Gerwig non ritiene di avere responsabilità di dare una risposta. Ci limita a dirci che è molto complicato essere umani. Cosa che sapevamo già. È sufficiente? Specie dopo che ce lo dicono tutti i film usciti negli ultimi vent’anni? Chi va a distruggere gli schemi già noti non ha la responsabilità di suggerire a propria volta una via alternativa? Basta scaricare sul pubblico questo compito a casa?

No. Per me no.





Se il MOIGE fosse femminista

30 09 2021

Voglio spendere due parole sul caso tragicomico delle accuse di sessismo verso lo scultore Emanuele Stifano, reo di aver ritratto la Spigolatrice di Sapri appena velata, di modo che se ne vede il fondoschiena più o meno come fosse nuda.

Alla fine di questo post, sarà necessario innanzitutto che vi chiediate tutti come siamo arrivati a questo.

Il nudo si è sempre utilizzato nell’arte senza bisogno di particolari giustificazioni, semplicemente perché il corpo umano è affascinante per gli artisti. Stifano scolpisce quasi sempre nudi e ha dichiarato che fosse stato per lui la spigolatrice l’avrebbe fatta proprio nuda, perché è il suo modo di lavorare (e se guardate le altre sue statue, come il Palinuro, vedrete che è vero). Perfino quella professoressa che per giustificare la tirata moralista ha dovuto tirare in ballo il “decorum” ( il buon vecchio “senso del pudore” il cui oltraggio è punito per legge e che si usa proprio per censurare i capezzoli delle donne), diventata virale su facebook per l’enorme numero di parole con cui è riuscita a dire “è un’indecenza signora mia”, ha ammesso che quell’uso del nudo è sedimentato nell’arte, forse consapevole che se lo avesse negato si sarebbe giocata qualsiasi straccio di credibilità in questo campo.

L’idea che mostrare il culo su una statua sia in sé, solo perché si è mostrato il culo (manco fosse un fallo eretto o una vagina bagnata) “sessualizzazione” è una barzelletta, è di una stupidità quasi commovente, spingerebbe a fornire un sussidio di invalidità a chi la propone.

I più furberrimi infatti se ne accorgono e inventano dunque giustificazioni più fantasiose ed elaborate per il loro “signora mia, che indecenza oggigiorno!”, tipo: “il problema non è il culo, è che un culo troppo sexy” (non come quello dei bronzi di Riace, del David, o le tette della Libertà di Delacroix, che sono tutti cessi); “il problema è che il culo non ha a che fare con il tema della statua” (mentre il pisello di fuori del David è integrale al mito biblico, e di certo non puoi rappresentare adeguatamente l’allegoria di Libertà senza mostrarne il seno); “le spigolatrici non si vestivano davvero così e non avevano il culo così allenato” (mentre i guerrieri greci notoriamente andavano in guerra seminudi e avevano il pene di un bambino di otto anni). Argomenti che farebbero ridere se non facessero piangere: sono gay, io, ero cresciuto in un mondo in cui la sinistra appoggiava la liberazione sessuale, in cui il progressista provocava e scandalizzava talora anche gratuitamente, e ora mi tocca vedere la schiera dei progressisti trasformatisi in zelanti guardiani del “decorum”… O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo.

Se dovessimo prendere sul serio quelle argomentazioni, si dedurrebbe che tutti costoro siano disposti ad accettare il nudo artistico come idea, sì: ma solo come una cosa del passato, defunta, che sta nei testi e nelle sculture antiche; se uno si permette di fare nudo artistico oggi – e quindi applicando standard estetici contemporanei – è una specie di mostro pervertito. Che coincidenza: tutti gli standard estetici della storia vanno bene e non sono sessualizzazione… tranne quelli che piacciono a noi italiani del 2021.

Forse ai nostri critici sarebbe andato bene se Stifano avesse scolpito una donna coi fianchi un po’ più larghi e il seno più piccino, insomma imitando di maniera gli standard neoclassici? Domanda che non avrà risposta, ma “devi per forza farla nello stile che piace a me se no è immorale” è comunque una pretesa che non puoi avanzare ad un artista: Stifano scolpisce nudi ispirandosi all’idea del corpo perfetto, e dunque renderà il corpo perfetto secondo standard che sono più o meno consapevolmente i suoi e del suo tempo: non ottocenteschi, non greco-classici. Certo, avrebbe potuto voler usare uno stile che evocasse nella mente l’immagine esatta della donna ottocentesca di ceto basso, magari ispirandosi a dipinti e sculture del tempo, e quindi creare la donna ottocentesca perfetta secondo l’uomo dell’ottocento, insomma darci una rievocazione ottecentesca, insomma ottocentare l’ottocento con l’ottocentazione dell’ottocento ottocentizzato… Avrebbe potuto. Invece ha fatto una scelta artistica diversa: enfatizzare quello che lui vede come corpo femminile archetipico. Ovviamente, non è davvero “archetipico” nel senso di universale e atemporale… ma nessuno degli archetipi femminili ritratti nell’arte classica è davvero al di sopra del suo tempo, l’arte è influenzata dal suo contesto anche quando si ispira all’idea di eterno, e quando il millenial pensa al corpo femminile in quanto tale non gli viene certo in mente quello della Primavera di Botticelli.

È quasi penoso vedere tanti omini e donnine arrampicarsi sugli specchi per dare interpretazioni diverse dell’opera, ma è davvero così semplice: è un nudo artistico, si è sempre fatto e non è che rappresentare un culo è più o meno sessista a seconda dei canoni estetici cui quel culo risponde; al massimo può renderlo sessista una posa provocante, un contesto ambiguo… ma non certo il fatto che sia bello o brutto, secco o ciccione, sodo o cadente.

In effetti, la Venere Callipigia citata da alcuni è già un esempio di una statua molto più erotica, ambigua e seducente della Spigolatrice, pur se non ha “il culo di una pin-up”. Sì, avete letto bene, tutti voi che dite che NON BISONNIA PARAGONALLLEEE SONO TOPPO DIVESSE; forse avete ragione, sono molto diverse: nella Venere c’è dell’erotismo, la posa è morbida e lei si guarda proprio le chiappe richiamando l’attenzione su di esse, mentre la spigolatrice è rigida come un palo, una posa quasi militare (sicuramente una scelta artistica precisa, visto che celebra il Risorgimento) che è estremamente anti-sesso. La verità è che tutto questo preteso “erotismo” e questa immaginaria “sessualizzazione” non discendono in alcun modo dalla posa o dall’espressione ritratti nella statua; essi derivano, nell’anima dei critici, dalla sola somma di due fattori: nudità e avvenenza. Se una donna è nuda ed è bella, automaticamente è “sessualizzata”. Mi raccomando, potete stare nude solo se siete brutte. E se qualcuno di voi si sta chiedendo se forse il vero pervertito non sia colui che di fronte ad un bel nudo femminile è capace solo di pensare alle scopate che ne discendono, mi spiace: siete maschilisti.

In realtà quella che nudo+bellezza=porno è una posizione del tutto insostenibile, e visto che i critici non possono affrontare direttamente questo snodo, il fatto che l’opera sia chiaramente un nudo non-erotico, perché farebbe naufragare la polemica in un oceano di peti mentali, allora ci si gira intorno. La trovata più brillante è quella di chi cerca di imitare (parodiare) Wilde e dice “la statua è innanzitutto brutta”, e poi aggiunge subito dopo “ed è anche immorale” (sì, esattamente come avrebbe fatto Wilde! Wilde coniugava sempre giudizi estetici e condanne morali). Come se il bacchettone fosse in realtà un esteta, come se le ragioni dell’immoralità affondassero in quelle della bruttezza, così fai lo slalom fra le – a quel punto ovvie – accuse di moralismo censorio che ti saresti guadagnato di diritto. No, lo sapete benissimo che non è vero, non la trovate né solo né principalmente “brutta”; ne siete principalmente offesi. Se davvero la riteneste solo brutta, se davvero il vostro fosse solo un giudizio di gusto, non giustifichereste le accuse pagliaccesche di sessismo verso l’autore, come quelle di Laura Boldrini, invece siete tutti a bordo di quella barca infame. Siete come quelli che quando sentono del black humor arruffano le penne e dicono “non mi piace non perché è immorale, ma perché non fa ridere!”. Tesoro, la ragione per cui non ti fa ridere che sei troppo impegnato a scandalizzarti, perché sei un cazzo di moralista bacchettone rompipalle, non perché se troppo intelligente e hai un gusto particolarmente raffinato, come vorresti farci credere.

… Ma visto che sempre di moralismo bacchettone si tratta, c’è qualche differenza fra questo moralismo di sinistra e il classico moralismo cristiano-conservatore tipo MOIGE, o è proprio la stessa cosa sotto un’altra veste?
Una differenza c’è: che dal punto di vista etico questo metodo qui è molto peggio, e la chiave di lettura per capirlo ce la dà la cheerleader di ogni battaglia cazzona, Lorenzo Tosa. Leggiamo le parole di questo genio:

“[…] non posso credere che qualcuno davvero non riesca a capire la differenza enorme tra libertà sessuale e sessualizzazione della donna.
La differenza tra la scelta delle donne e la scelta dell’artista (stranamente uomo).
Che non capiate la differenza tra una donna che, liberamente, sceglie di mostrarsi nuda o svestita senza dover chiedere il permesso a nessun uomo o marito o dover rendere conto a bigotti e bacchettoni e una statua che dovrebbe rappresentare una contadina dell’800 e ideali risorgimentali, e non certo gli stereotipi estetici di un maschio contemporaneo o un catalogo di Victoria’s Secret.”

Ecco il pezzo che ci mancava! Vedete, il vero problema, se ci fossero dubbi, non è il fatto che un artista del 2021 usi standard estetici del 2021 – anche se, dai, che il problema sia quello come scusa pare quasi convincente, se uno ha il QI a due cifre – piuttosto è che l’autore è un uomo. Se la stessa identica statua l’avesse fatta una donna, Tosa sarebbe lì in prima fila a difendere l’alto valore etico, artistico ed emancipatorio dell’opera.
Dando così una luce tutta nuova al concetto stesso del “fare due pesi e due misure”.
Nel pensiero morale classico fare due pesi e due misure è considerata la più abominevole aberrazione morale, perché contravviene alla base di ogni ragionamento etico: il principio di equità. Ma se quella distorsione la travesti da lotta progressista per l’uguaglianza, se ad essere ingiustamente discriminato e vittima di gratuito pregiudizio è il Mostro del momento, ovvero il famoso “maschio bianco eterosessuale” (parliamo di archetipi! Ma sarà eterosessuale, Stifano?), ecco che fare due pesi e due misure non solo è giustificato, ma è perfino nobile, doveroso, e sono sicuro che possiamo tirar fuori un Foucault, un Derrida o qualche altro filosofo francese per spennellare questa idiozia di una patina di finezza intellettuale.

E se qualcuno di voi ha un brividino nel vedere che si stia vendendo per elementare discorso morale la madre di tutte le aberrazioni morali, ovvero il giudicare un atto non in base a intento e impatto ma sulla sola base dell’identità di chi lo compie, se lo tenga stretto quel brivido, perché questa è l’etica che ci vende la sinistra nel 2021, e va sorvegliata strettamente perché tenterà, tenta già, di imporla a tutti.

Caro Emanuele, il mio suggerimento è: la prossima volta resta anonimo e firmati Emanuela. Non solo potrai continuare a ritrarre uomini in tutte le pose e velature che desideri (mai stato un problema, sono solo maschi dopotutto), ma potrai anche ritrarre le donne in qualsiasi posa desideri, anche piegate a novanta con un uccello in bocca e uno dietro ed un tatuaggio sul culo che dice “FUCK ME”; sarà empowering.

Almeno per un po’; perché la triste verità è che qui neanche le donne sono davvero al sicuro…

Ossequi





Perplessità sullo “stupro”

29 07 2015

È probabile che questo articolo mi attiri delle critiche, o addirittura qualche smorfia di indignazione. Ma pazienza, è mia abitudine dire comunque quello che penso.

Nella fattispecie mi riferisco alla vicenda della ragazza presunta vittima di uno stupro di gruppo, con allegata manifestazione forcaiola contro i presunti stupratori (presunti più che mai, visto che sono stati assolti). La faccenda mi ha ricordato un interessante episodio vissuto durante il mio soggiorno americano.

L’anno scorso mi sono trovato a passare un periodo di sei mesi presso l’università del Kansas. Per quanto mi è stato possibile, ho cercato di partecipare alle attività della comunità LGBT locale, incluso un grosso meeting per trattare il tema dello stupro e delle politiche, secondo i promotori dell’incontro inadeguate, con cui il problema della violenza sessuale era gestito dall’università.

Dopo l’introduzione, arrivano subito a quello che sarà il nucleo essenziale dell’incontro: le testimonianze delle vittime. Il tutto è arrangiato come la classica americanata, e ai miei occhi di estero/esterno suona molto stridente … le testimonianze sono probabilmente tutte vere, ma, eccetto una, le ragazze che le propongono sono chiaramente delle attrici, ed anche molto sopra le righe. Tutto un lacrimatorio generale, ma, ok, mi riesce comunque di alienarmi da quel contesto finto, grazie anche al fatto che durante una delle testimonianze vedo una ragazza del pubblico che piange … evidentemente, la vera vittime dell’episodio raccontato.

Le esperienze sono toccanti, alcune inquietanti, comunque di vario livello di gravità: una donna stuprata da un malato mentale che la minacciava con un coltello alla gola in casa di lui; un’altra ragazza che è riuscita a sottrarsi ma è stata costretta a tirare un pugno al suo assalitore per fargli entrare in testa che non voleva fare sesso con lui. Qualcuno fa notare che, giustamente e ovviamente, nessuno avrebbe mai potuto sostenere che in simili casi ci fosse anche solo un barlume di consenso.

Fin qui tutto mi suona giusto, al di là delle drammatizzazioni che non si confanno al mio palato raffinato da europeo semiautistico. Ascoltando testimonianze come quelle, da un lato ti domandi come sia possibile che effettivamente qualcuno affermi che le donne stuprate tutto sommato “se la cercano”, e dall’altro sei costretto a ricordarti che c’è chi lo dice e lo pensa veramente.

Ok. Poi arriva una testimonianza che però mi suona un po’ meno lineare. Non è drammatizzata ma raccontata in terza persona: la vittima aveva parlato con un amica, ovvero la ragazza che ora ci riferisce l’episodio, raccontandole di un incontro sessuale in cui lei non era diciamo … perfettamente consenziente.  Almeno così l’ho capito io. La vittima aveva dichiarato all’amica di aver capito che “all’inizio il sesso non lo vuoi” e che non aveva pensato affatto di essere stata stuprata, visto che effettivamente non si era ribellata. Il racconto non è particolarmente dettagliato, ma emerge che la ragazza fondamentalmente non si era opposta al rapporto sessuale. Al massimo, a occhio e croce, era stata un po’ manipolata psicologicamente, ma non c’erano né violenza né alterata lucidità.

Qui qualcosa inizia a suonarmi un po’ male. Abbiamo visto una donna che ha rischiato la vita, un’altra che ha subito comunque violenza fisica … adesso abbiamo una ragazza che, alla peggio, è stata manipolata psicologicamente. Tutto quanto questo, però, gli organizzatori ci tengono moltissimo a sottolinearlo, va sempre e comunque chiamato stupro, senza attenuanti.ratatouille-teoria-03

Mi sorgono le prime perplessità, ma esse diventano davvero preoccupanti solo quando sento una delle attrici dire: “anche voi uomini non potete sentirvi al sicuro dallo stupro solo perché siete più forti. Possiamo comunque manipolarvi, ad esempio dirvi che non siete veri uomini se non fate sesso con noi.”

Be’, partenza buona, sappiamo che anche i maschi possono essere stuprati, sia da altri maschi che da femmine (solo che non denunciano quasi mai). Ma se ho capito bene, e ho capito bene perché l’inglese lo mastico, la ragazza ha effettivamente equiparato la manipolazione psicologica al coltello alla gola.

Ora, una ragazza che manipola un uomo in quel modo è una stronza galattica. Ma siamo davvero pronti a definirla una stupratrice, con tutto il peso disastroso che un simile termine porta con sé? Lo stupratore è feccia della società, è uno dei due Uomini Neri della civiltà occidentale (l’altro è il pedofilo). L’accusa di essere uno stupratore è pesantissima, e le pene per lo stupro non sono un giocattolo. Siamo pronti ad equiparare un coltello alla gola o una droga nel bicchiere ad un’indefinita ‘manipolazione psicologica’, sotto il terrificante termine ombrello di ‘stupro’?

Io sono sempre abituato a fare i distinguo fra le cose, e ho sempre pensato sia importante discernere in particolare i vari livelli di gravità di un reato; anche perché se mi concedete l’autocitazione, “l’uguaglianza si ottiene sempre al ribasso”: nel momento in cui equipariamo due crimini di gravità diversa, la realtà è che se va bene la gravità dei due è ridotta alla loro media, se va male è sempre quello più grave ad assestarsi sul livello di quello più basso. Il tentativo di eguagliare con l’accetta situazioni di tipo così diverso come quelle che mi presentano mi lascia spiazzato.

Esco dall’incontro che ho imparato una cosa sola: che la definizione di stupro a quanto pare è stata ampliata in maniera incredibile rispetto a quello che credevo; probabilmente è il messaggio che volevano farmi passare. Ma se l’idea era di convincermi che il ragazzo di quell’episodio di ‘manipolazione’ ha fatto la stessa cosa di quello che ha minacciato la vittima col coltello … ecco, quello mi spiace ma non mi è passato per niente. Prima non avrei mai pensato che potessero esserci circostanze attenuanti per uno “stupro”, o che potessero porsi seriamente problemi riguardo alla presenza o meno di un consenso (cazzo, ti mettono un coltello alla gola, ma quale consenso?!). Ma se lo stupro diventa un concetto così ampio, la situazione cambia: esco da lì pensando che se lo stupro è quello che dicono loro, allora ci sono molte, moltissime sfumature e zone grigie riguardo alla presenza o meno del famigerato consenso, e dunque moltissime attenuanti possibili. Cavolo, stando a questa vaghissima definizione, io sono stato stuprato un paio di volte e ho stuprato un paio di volte! Mi sorge il sospetto che ci sia qualcosa che non va in una definizione così sfumata …

Questo grigio gli organizzatori lo volevano trasformare tutto in nero, però. Ti mettono un coltello alla gola? Stupro. Ti drogano? Stupro. Hai bevuto come un cammello alcolizzato e hai strofinato il culo contro il pacco di tutti i ragazzi del locale per tutta la sera molte sere di fila, e un giorno uno degli altri avventori, brillo pure lui, ha fatto sesso con te senza manco che tu ti ribellassi, solo che poi il giorno dopo hai pensato che forse non eri proprio consenziente e non ti andava (sì, va letto tutto d’un fiato)? Stupro.

Ok, no, ragazzi; so che mi attirerò critiche per quello che sto scrivendo, ma non sono d’accordo con questa equiparazione. Capisco, o meglio, mi sforzo di capire, che una ragazza che è stata drogata e stuprata debba soffrire a sentirsi chiedere se avesse o meno dato segni di consenso. Ma è una domanda che va fatta, perché quello che ho ormai capito è che la ‘zona grigia del consenso’ esiste eccome.

Immaginiamo a ‘mo di esempio un possibile scenario di ‘manipolazione psicologica’. Ad esempio, che ci sia una ragazza che è ancora alle sue prime esperienze , si sente attratta dal sesso ma ha le sue remore, dovute magari ad un’educazione repressiva. Supponiamo che con lei ci sia un ragazzo più o meno coetaneo o poco più grande, anch’egli non particolarmente esperto ma con l’ormone alle stelle. Hanno tutti e due bevuto un po’, magari lei un po’ di più ma non cambia tanto: lui ci prova con lei. Lei ci sta. Poi cambia idea e si ritrae, perché ha i sensi di colpa. Poi però si sente di nuovo attratta e dice di sì. Poi di nuovo di no. Insomma è tutto un offrirsi e ritrarsi in cui lei stessa non sa cosa vuole davvero. Esistono questi casi?

Sì, esistono. Io avrei potuto essere uno di essi un po’ di anni fa.

L’altro, un po’ confuso, non capisce come deve comportarsi, lei non si decide, allora pensa: “ok, spingo un po’ io e vediamo che fa”.

Lei non è convintissima, magari all’inizio si ritrae pure un po’, però poi ci sta e si arriva fino alla fine.

Poi il giorno dopo si pente dell’accaduto e parla con un’amica smaliziata (che magari è una rape survivor, e che ovviamente come tutti filtra a sua volta il racconto attraverso le proprie esperienze e pregiudizi …), che le dice:

“Guarda che sei stata stuprata!”

“Ma io non mi sono opposta, infatti mi sento anche un po’ in colpa …”

“Ma no, è la società che ti fa sentire in colpa, tu sei la vittima, tu sei stata stuprata!”

Da lì è tutto in discesa.

È evidente che in questo esempio, nient’affatto inconcepibile, il consenso è quanto meno in zona grigia (per non dire bianca), e dunque grigia è anche la nostra possibilità di emettere condanne. Certo, potremmo comunque fare il facile gioco del moralista che dall’esterno sa sempre cosa è giusto fare in tutte le circostanze della vita di tutte le persone della terra: “ma lui vedendo che lei non era perfettamente decisa non avrebbe dovuto approfittarsene!”

Potremmo dirlo, ma sarebbe fuori luogo. Spesso queste cose succedono con un po’ di alcol in corpo e con gli ormoni impazziti, non sono circostanze in cui uno si mette a fare i massimi ragionamenti etici. E anche se li facesse, non necessariamente la conclusione più sensata sarebbe non fare niente: a volte il negarsi iniziale è parte integrante del gioco seduttivo, e richiede l’iniziativa del partner che vinca eroicamente quella negazione. Come se non bastasse, capita anche di assistere a casi veramente paradossali, al limite del patologico da parte della “vittima”: su un forum una volta lessi la testimonianza di un ragazzo che diceva di essere stato stuprato, e che la cosa gli era piaciuta. E l’esperienza che descriveva era effettivamente uno stupro a tutti gli effetti! Lo avevano preso e penetrato mentre si dimenava ribellandosi, ignorando le sue proteste. Ma gli era piaciuto. Ok, la gente è strana, il sesso è strano e non dobbiamo interpretare casi così come la regola. Servono però a confermarci che la questione del consenso può non essere così banale, e fare sesso non è un contratto da firmare davanti al notaio (non mi permetto di spingermi oltre e dire che le persone non dovrebbero spappolarsi il cervello di alcolici se vogliono evitare di perdere il controllo sulle situazioni in cui si trovano, o che nella nostra società strofinare il deretano sull’uccello di qualcuno di solito è considerato un approccio sessuale sia che tu lo intenda in quel modo o meno, oppure ancora che stando alla legge italiana a vent’anni dovresti sapere dire chiaramente ‘sì’ o ‘no’ ad un rapporto sessuale già da sei anni; sarebbe colpevolizzazione della vittima e la evitiamo).

Nonostante queste considerazioni, potrei essere disposto comunque a condannare chi “spinge troppo”  su un consenso che non era così limpido, suvvia. Faccio il pubblico ministero moralista: brutto stronzo, dovevi aspettare che lui/lei ti dicesse “Sì, montami come un divano dell’Ikea!” prima di muoverti.

Posso farlo. Ma solo io mentre lo faccio mi sento di star dando i natali ad un mostro giudiziario di dimensioni terrificanti? Non mi preoccuperei di dover puntualizzare che anche nei casi di stupro, come in tutti gli altri casi di presunti crimini, può essere che il crimine in realtà sia immaginario o comunque discutibile, se non stessi avendo l’impressione che questa verità elementare venga messa in dubbio, al punto di dover assistere perfino all’invocazione, implicita o esplicita, di una sospensione della presunzione di innocenza nei casi di stupro.

Non posso fare domande troppo precise su come si era comportata la ‘vittima’, se effettivamente fosse consenziente o meno o in che grado, o in che grado il suo comportamento fosse fraintendibile come consenziente, perché quella è colpevolizzazione della vittima. Mettere in dubbio la sua testimonianza, nemmeno, perché poverina/o aveva bevuto ed era in confusione; quindi verificare se il soggetto è il tipo di persona che potrebbe aver mentito e perché, indagando sul suo passato, sul suo rapporto con il sesso eccetera, anche quello è fuori discussione.  Insomma, se mi dice “non ero consenziente” mi devo fidare sulla parola, non fare altre indagini e mandare gente in carcere sotto una delle accuse più infamanti per la nostra società senza batter ciglio. Peggio! Visto che la vittima a volte si auto-colpevolizza, perfino se essa mi dice invece che consenziente lo era, non mi devo fidare: può essere che in fondo al cuore non fosse davvero consenziente, solo che non se ne rendeva conto! Con calma, il giorno dopo, o giorni dopo, o settimane dopo, si renderà conto se era consenziente o meno. Certo, come no, dopo aver fatto sedimentare bene l’esperienza ed aver dato tempo a quel grande prestigiatore che ben conosco e che è il nostro cervello di alterare il ricordo dell’accaduto, inventare dettagli inesistenti, cancellarne atri reali eccetera. Per non parlare, poi, del caso in cui la vittima abbia bevuto una birra prima! Allora è praticamente un certificato di vittima perfetta!

Se questo non è il messaggio che una parte del mondo femminista voleva mandare, mi correggano subito (e magari ritirino manifestazioni ridicole con cui vorrebbero sostituirsi al potere giudiziario …), perché questo è il messaggio che ho recepito

Ragazzi e ragazze, obbiettivamente, spero che ci rendiamo tutti conto serenamente che non è possibile ragionare nel modo di cui sopra, dal punto di vista giudiziario. E per fortuna ci sono dei magistrati che lo capiscono!

Capisco il problema della colpevolizzazione della vittima, la sofferenza di una ragazza che è stata effettivamente stuprata e deve spiegare che si era davvero ribellata e non aveva dato nessun consenso. Ciò nonostante, una dura verità che bisogna dire è che le vittime immaginarie esistono. Gente talora in perfetta malafede, talora visionaria, talora manipolata da parenti e legulei senza scrupoli alla ricerca di risarcimenti, talora semplicemente irrisolta è che finisce con lo scaricare sugli altri un rapporto problematico col sesso e col proprio corpo.

Queste che ho elencato possono di certo essere semplici scuse per colpevolizzare la vittima di un autentico stupro. Ma possono anche altrettanto bene corrispondere al vero nel caso in esame. Se ci raccontiamo che ogni donna che dice di essere stuprata è stata effettivamente stuprata ed è una vittima assoluta senza alcuna responsabilità, ci raccontiamo una bugia. Una bugia gradevole, una bugia buonista, una bugia che, attraverso un meccanismo perverso, può sembrarci perfino giusta, in quanto controbilancia le bugie di chi afferma che “le donne stuprate se la cercano”.

Ma è una bugia, e neanche innocua. È una bugia che può fare e fa vittime innocenti.

Mi spiace ma non  penso che un paese civile possa accettare una cosa simile.

Ossequi