Barbie e il problema dell’identità

9 08 2023

Esce Barbie, il film evento di Greta Gerwig. Un film che scatena delle controversie, particolarmente riguardo alla sua trattazione di temi come il femminismo e il patriarcato, e attira addirittura da parte di alcuni l’accusa di essere un film misandrico, che “odia gli uomini”

Personalmente credo che abbia perfettamente ragione chi rigetta, almeno in parte, questa tesi e sottolinea che Barbie non è un film sul femminismo o sul patriarcato, ma sull’identità e gli stereotipi. È stra-vero. Femminismo e patriarcato sono temi di Barbie, ma non sono il tema di Barbie. Il tema di Barbie è l’identità.

Tuttavia, è proprio lì che Barbie mostra più gravemente i suoi limiti, nonchè i limiti dell’ideologia che gli sta dietro.

Il messaggio finale di Barbie è “trova la tua identità al di là di ogni stereotipo di genere”.
Bisogna riconoscere al film una certa coerenza in questo. È vero, sì, gli stereotipi legati agli uomini, ai Ken patriarcali, sono molto più severamente criticati di quelli legati alle Barbie, e in questo c’è una chiara asimmetria. Quest’accusa è valida e fondata. Ma fermarsi lì significa mancare il punto: Barbie effettivamente ce l’ha con gli stereotipi di genere, tutti. Diciamo che ne odia alcuni un po’ più di altri, ma il messaggio è coerente.
E non è un messaggio nuovo o originale o rivoluzionario. Di questi tempi, in effetti, è il messaggio più banale di tutti, praticamente tutti i film che escono hanno lo stesso messaggio ed è il messaggio di cui si è appropriata la critica sociale progressista, che si sintetizza in: bisogna abbattere gli stereotipi, gli stereotipi sono oppressivi, gli stereotipi sono il nemico.

Ma ecco… ne siamo sicuri?

Intendiamoci: essere forzati in ogni modo a entrare in un certo schema è doloroso. Sentirsi forzare addosso un’identità è una pena infinita, quanto dover indossare a forza scarpe due taglie più piccole. Se non lo so io che sono omosessuale bipolare e in odore di Asperger. E tuttavia, proprio in quanto io in quegli schemi non sono mai riuscito a stare, so anche come ci si sente nel momento in cui ti trovi fuori da ogni schema, in cui ti sei in qualche modo “liberato”. Per un omosessuale quel momento è il coming out, e per alcuni può essere un momento molto delicato. Puoi trovarti a uscire da una gabbia in cui sei stato per anni o lustri o decadi… e ti trovi libero ma nel deserto, perché non hai indicazioni su come ricostruire la tua immagine, la tua vita e, soprattutto, ti manca il punto di riferimento più importante: una comunità di gente simile a te.
In realtà la comunità esiste, ovviamente, ma devi andartela a cercare e la parte più divertente è che, non appena ti riesca di trovare una comunità che un po’ ti somiglia… ecco che essa ti accoglie ma ti suggerisce anche caldamente di rientrare in una serie di schemi: ecco come essere un maschio omosessuale, ecco come essere una lesbica modello eccetera. Rispetti questi requisiti, di certo faciliteranno l’elaborazione della sua candidatura.

Questa mia non è da intendersi una critica ad una specifica comunità ma solo come un esempio che dice tanto, perché ogni comunità fa questo, è il prezzo per starci dentro. Ogni comunità ti fa pressione per aderire a degli schemi. A volte questa pressione è più pesante o perfino schiacciante, come nei totalitarismi, a volte è più leggera, ma non ci sono eccezioni a questa regola: si deve stare assieme, si deve cercare di trovare cosa da fare assieme, idee da condividere, musiche da ascoltare eccetera eccetera. Quindi, schemi in cui rientrare. Non sei costretto a rientrare in tutti gli schemi, ma ogni schematismo che ti renda riconoscibile e ti faccia parte di un gruppo facilita l’integrazione.
Non è per forza un male, questo: stare assieme agli altri in una comunità ci serve per definirci anche come individui, ma per stare insieme agli altri dobbiamo anche abbracciarne alcuni schemi.
E questi schemi sono quelli che poi diventano gli stereotipi, e non sono tutti quanti il male assoluto, dipende da con quanta forza siano imposti e quanto siano esclusivi e totalizzanti. Per dire, la società tende a proporre ai maschi di interessarsi agli sport competitivi, c’è un po’ di pressione in tal senso. Ok, io li odio: mi sia data la possibilità di rifiutare la proposta. Ma, personalmente, non sento come oppressivo il fatto in sé che ci sia questa proposta privilegiata rivolta ai maschi. L’alternativa è essere senza proposte o direzioni, e non è detto che non avere neanche proposte sia meglio. Per questo gli adolescenti formano branchi in cui ascoltano tutti la stessa musica e vestono tutti allo stesso modo, perché è quella la via attraverso cui si possono “identificare” e, alla fine, trovare un equilibro fra il sé la comunità. Quei quadri di riferimento, al livello di proposta, di indicazione, tornano utili.

Ma secondo alcuni questi schemi, tutti questi schemi, sono malvagi e da combattere. Greta Gerwig pare pensarla così. Il pensiero femminista cui Barbie si ispira è dichiaratamente non soddisfatto dal sapere soltanto che le donne non sono più obbligate a diventare madri, e che non ricevono più neanche grosse pressioni sociali in tal senso. A questo femminismo non basta che quegli schemi non vengano imposti, non chiede altri schemi alternativi, modelli più vari e differenziati a disposizione (altrimenti la bambola Barbie, con tutte le sue infinite variazioni sul tema, dovrebbe essere una soluzione più che soddisfacente), bensì è insoddisfatto che esistano schemi e modelli, punto. Una donna, ma anche un uomo, non deve guardare un film, leggere un libro, vedere un cartellone pubblicitario, ascoltare un podcast, e trovarvi un’indicazione su come costruire la propria identità sessuata. Se succede è il male, è l’oppressione, è… boh? Il patriarcato?

Ma qui Barbie diventa strano, perché l’umore che traspare dal film non è il senso di oppressione dovuto a stereotipi invasivi, quanto il disorientamento di chi si sente senza indicazioni. In questo senso, il monologo femminista contro il patriarcato che il film ci propone sembra curiosamente schizofrenico, o quanto meno diretto al nemico sbagliato. Il patriarcato non mette le donne in nessuna “dissonanza cognitiva”, come il film lo accusa: sotto il patriarcato le donne devono essere mamme o suore o al più puttane; dove sarebbe la dissonanza cognitiva? Mi pare chiarissimo e lineare: sei una cittadina di serie B che deve fare faccende di casa e sfornare bambini. Sotto il patriarcato il problema delle donne che “devono comandare ma non essere troppo cattive”, o che “devono avere i soldi ma non posso chiedere soldi” non esiste: sotto il patriarcato comandano gli uomini e gli uomini hanno i soldi, le donne lavano i piatti, se no che patriarcato è? Qual è questo patriarcato in cui le donne hanno il potere e il denaro? Quanto meno, uno in PESSIMA salute. Di che stiamo parlando? E d’altro canto, il discorso tira delle chiare bordate proprio al femminismo, come il problema di “riconoscere che il sistema è truccato [in favore degli uomini] e al contempo esservi grata”. La richiesta di “riconoscere che il sistema è truccato” non viene certo dal patriarcato, viene dal femminismo; il patriarcato ti vuole “grata” e basta, di certo non ti crea nessuna dissonanza cognitiva chiedendoti anche di metterlo in discussione. Greta Gerwig, insomma, pare turbata dal femminismo tanto quanto dal patriarcato. Da Barbie come dai bambolotti. Il disagio espresso da quel discorso sembra, paradossalmente, piuttosto collegato alla crisi del patriarcato: alla confusione che deriva da un mondo che il giorno prima ti dava indicazioni fin troppo dirette e severe e che da un giorno all’altro ti lascia da solo, o in questo caso da sola, a dover decidere chi diventare senza alcuna direttiva.

E questo in effetti è Barbie. La bambola, intendo. Un simbolo di infinita potenzialità, di illimitate possibilità identitarie, la donna che può essere tutto e proprio per questo non sa più chi essere. Il simbolo della piena autodeterminazione che però porta con sé anche lo smarrimento, il senso di inadeguatezza di chi si trova capitano di una nave durante una tempesta e il giorno prima era il mozzo.

Barbie è un film che confonde e che non ha una lettura semplice e univoca e che ha scatenato reazioni contrastanti, e credo che questa sia la ragione: Barbie è fondamentalmente un film contraddittorio, senza orizzonti chiari. Vuole denunciare tutti gli schemi che sono oppressivi e dannosi, eppure al fondo esprime col suo linguaggio il disagio che deriva da non avere schemi. Per questo le Barbie col “cervello lavato” dai Ken stanno così bene: hanno degli schemi molto precisi e semplici. E quando esse vengono “liberate” non è perché il monologo ha rivelato le contraddizioni della loro condizione – che non ci sono: sono univocamente subalterne – bensì ha creato delle contraddizioni. Perché la libertà ha in sé il contraddittorio, il paradosso, l’incertezza, l’equilibrismo.

E l’unico modo in cui il film riesce a passarla liscia in questa contraddizione è perché manca completamente di pars construens. Ken rinuncia agli stereotipi della virilità e ad essere un riflesso di Barbie, ma non abbiamo diea di cosa ne sarà dopo di lui. Barbie decide di diventare umana e coltivare la propria identità, ma non abbiamo idea di come lo farà, di che tipo di donna diventerà. Se la mia esperienza dice qualcosa, per loro la parte più difficile rischia di essere proprio quella che viene adesso. E con difficile, intendo: potrebbero trovarsi a rimpiangere i tempi più semplici.
Nessuno si accorge di quanto Barbie sia confuso e non sappia cosa vuole davvero, perché il film si ferma nel momento in cui dovrebbe dare la risposta più importante: chi saranno Barbie e Ken, ora che sono usciti dagli stereotipi?
Greta Gerwig non ritiene di avere responsabilità di dare una risposta. Ci limita a dirci che è molto complicato essere umani. Cosa che sapevamo già. È sufficiente? Specie dopo che ce lo dicono tutti i film usciti negli ultimi vent’anni? Chi va a distruggere gli schemi già noti non ha la responsabilità di suggerire a propria volta una via alternativa? Basta scaricare sul pubblico questo compito a casa?

No. Per me no.





L’Ora Legale

31 08 2017

Qualche giorno fa ho visto il film “‘L’ora legale”, praticamente una fiction su quello che è successo a Marino a Roma. Riassunto della storia: un sindaco “onesto” viene eletto per riformare l’amministrazione di Petrammare, una città di merda completamente dominata dall’illegalità, dal traffico, dalla sporcizia e dall’inefficienza, portandovi la legalità. Quando inizia davvero a farlo, però, praticamente tutti gli abitanti (qui sta l’unica differenza con la vicenda reale di Marino, che in realtà seppur odiato dalle caste romane era alquanto apprezzato dalla popolazione) iniziano a vedersi toccati i propri interessi, e danno il via ad una sollevazione popolare che conduce alla fine alla cacciata del sindaco tramite uno scandalo-pretesto montato ad arte, e ad un ritorno dell’illegalità.
Diciamo che potevano anche inventarsela qualcosa, Ficarra e Picone, dai.

Complessivamente, non ho apprezzato molto il film, né condivido i giudizi positivi della critica. Cominciamo col dire però quali siano i suoi lati positivi: per cominciare, il problema su cui attira l’attenzione è dannatamente attuale; il film ricapitola praticamente la persecuzione di Ignazio Marino ad opera di tutte le caste e tutte le forze politiche, una persecuzione così spietata che ha visto in prima fila a portarla avanti lo stesso Matteo Renzi, oggi visto come una specie di unico baluardo contro il populismo ma che a Roma è stato il re dei populisti. Un tema indubbiamente interessante di cui discutere. Questo è positivo.
L’altro lato positivo è che la “morale” della storia muove almeno oltre una certa rappresentazione dell’Italia e del sud in particolare da parte degli italiani cui siamo abituati; ricordo per esempio il film “Ieri, oggi e domani”, in cui una Loren venditrice di sigarette abusiva a Napoli elude la galera facendosi mettere ripetutamente incinta, con l’approvazione aperta di tutta la città e il palese compiacimento della regia, come se l’illegalità fosse sostanzialmente un grazioso elemento del folklore locale. Quel film mi disgustò.
Almeno ne “L’ora legale” la situazione viene descritta con un po’ di amarezza/rassegnazione, e c’è da parte degli autori, almeno sulla carta, l’intenzione di stare dalla parte del “sindaco onesto”. Questo è già un progresso, almeno non ci sguazziamo beatamente, nell’illegalità.

Purtroppo l’intento a mio avviso fallisce per mancanza di coraggio e per via di un’impostazione sbagliata della sceneggiatura. Il film riesce a farci vedere il punto di vista dei cittadini che non vogliono più “l’onestà”, punto di vista che sulla carta vorrebbe condannare, onde condannarci tutti… Ma è così ansioso di farci capire quel punto di vista che finisce, inevitabilmente, per esserne apologetico. L’arrivo del sindaco onesto Natoli, da quanto ci viene mostrato nel film, a parte rendere la città un po’ più carina, sembra davvero una specie di catastrofe naturale: l’industria più importante della città viene costretta a chiudere, gli affari iniziano ad andare male più o meno per tutti, gli stessi protagonisti, interpretati da Ficarra e Picone, che gestiscono un bar in piazza, si trovano a perdere clienti e infine si vedono chiudere l’attività. in sostanza, l’arrivo della legalità sconvolge e distrugge l’intero equilibrio economico-sociale del paese, che era basato sul sistema della corruzione, dell’imbroglio, della truffa, dei “favori”, delle raccomandazioni e via discorrendo. Di positivo accade che la città effettivamente è più pulita e carina, ma a parte questo l’arrivo del sindaco sembra effettivamente una disgrazia, e la sua fissazione per il rispetto delle regole finisce con l’apparire stupida, fuori dal mondo e finanche dannosa, in un posto in cui l’intero ecosistema socioeconomico si basa sull’illegalità (Marino again).
Insomma il messaggio del film si riassume così: “sì, è vero, le regole in teorie andrebbero rispettate, la legalità sarebbe una cosa bella sulla carta. Però nella pratica vi sono equilibri che si reggono sull’illegalità diffusa e pensare di cambiarli è sì una buona intenzione, ma è anche un’idea sciocca e fuori dal mondo destinata al fallimento”. Con la postilla: “eh, purtroppo è così, non è che ci piace ma è così”.Risultati immagini per l'ora legale recensione

Però per un film che tutto sommato sembra volerci fare la morale, questa è veramente una pessima morale da fare. È vero, ci sono ecosistemi, come quello romano ad esempio, che di fatto si reggono sul malcostume dei favori, delle caste, delle raccomandazioni, dell’inefficienza. In un qualche modo “funzionano”, nel senso, non è l’apocalisse nucleare quello che succede a Roma: è semplicemente una città sporca, puzzolente, scomoda ed invivibile, ma sarà pur sempre meglio di Pyongyang. Non è la Shoah se rimane così. Però sarebbe molto meglio se venisse riformata, e col giusto polso e la giusta astuzia politica, quel sistema potrebbe e dovrebbe essere riformato. Ne guadagnerebbero tutti gli abitanti, nel complesso. Mi si vuol far credere che veramente Petrammare/Roma può funzionare solo se si infrange la legge? Che effettivamente l’equilibrio migliore e più sano per gli abitanti è quello, sporco, puzzolente, sprecone, inefficiente, che si è già trovato? Che se aspiri a qualcosa di meglio, alla fin fine, sei benintenzionato ma un povero coglione?
Perché nel momento in cui mi si mostra che il sindaco onesto Natoli sostanzialmente demolisce il tessuto sociale della città, senza farvi corrispondere alcuna seria contropartita, mi stai dicendo che in effetti coloro che lo vogliono far dimettere hanno tutte le ragioni di volerlo fare… Anche se poi vorresti dirmi che hanno torto, che sono dei mostri, la situazione che descrivi è una in cui hanno delle ottime ragioni. Certo, nella realtà perché un’insegnante di scuola dovrebbe avercela anche lei col sindaco Natoli? Forse la obbliga a lavorare di più? Può essere, ma la tiene anche meno imbottigliata nel traffico, le fa trovare meno cacca di cane per strada, le fa respirare un’aria meno cancerogena, le fa fare file più brevi alle poste e al comune; inoltre fa risparmiare un sacco di soldi alle casse pubbliche, che poi possono essere usati, per esempio, per diminuire il costo dei mezzi pubblici o per costruire aree attrezzate per i bambini o per ammodernare le stesse aule della scuola rendendole il lavoro più confortevole… E i due baristi che perdono i clienti perché gli impiegati comunali, ora che devono lavorare davvero, non possono più andare al bar? Lasciamo stare che ci sono sempre le pause per andare al bar… Ma i primi a guadagnare da una città più pulita e ordinata sono proprio gli operatori coinvolti nel turismo, perché la città diventa più attraente. La legalità non è meglio dell’illegalità soltanto sulla carta e nelle teorie dei filosofi morali: la legalità fa stare tutti quanti meglio; è stata inventata apposta per quello, per il bene comune, i.e. per il bene di tutti. Nel film però questo non si vede per niente; si vede solo una bella piazza linda e pulita: scegliete una piazza linda e pulita o mille posti di lavoro? Anche io, che sono piuttosto onesto e tengo all’ambiente, sceglierei il posto di lavoro, ma il punto è che non sono affatto cose mutualmente esclusive.

Marino… cioè, Natoli, ci dicono gli autori, in teoria è buono e bravo, ma nella pratica, è rigido, ottuso e non si rende conto di portare più danni e fastidi che benefici, nel contesto in cui è calato. La sceneggiatura insiste continuamente sul suo essere fuori dal mondo e sostanzialmente idiota: Natoli non ha mai una battuta interessante, e quando gli viene chiesto di dar ragione dei suoi provvedimenti non prova nemmeno a giustificarli in modo pratico, sa solo dire che “sono le regole e vanno rispettate”, come se nemmeno lui sapesse perché esistano, queste regole. La scelta di un Vincenzo Amato completamente incapace ed inespressivo per interpretarlo mette la ciliegina sulla torta sull’opera di rendere il personaggio completamente impermeabile alla simpatia: il giudizio più lusinghiero che si possa dare ad una persona così priva di personalità ed intelligenza come Natoli sarebbe “è un buon coglione”. Entrare nel suo punto di vista è completamente impossibile; di fatto come punto di vista ci viene somministrato solo quello dei cittadini insoddisfatti e insofferenti alla legalità che però, diciamolo, almeno hanno una personalità e hanno un po’ di senso pratico, mica come quell’imbecille del sindaco che vive nel mondo di My Little Pony. Però, che Ficarra e Picone ci credano o meno, di spiegarci quel punto di vista lì non ve n’è gran bisogno; gli italiani, specie del sud, conoscono già perfettamente le “ragioni dell’illegalità”, visto che le vivono tutti i giorni, spiegarcele ulteriormente mi pare abbastanza superfluo.

Ora, come diceva Schopenahuer, se la teoria differisce dalla pratica, è la teoria ad essere sbagliata; il messaggio del film finisce con l’essere, in sostanza, che la legalità è una bella idea senza applicazione pratica. Marino… Cioè, scusate, Natoli, non poteva avere successo perché la legalità nell’ecosistema di Roma… cioè, scusate, Petrammare, non può funzionare e i cittadini per primi non la vogliono per davvero perché, sebbene amino lamentarsi, in realtà stanno bene così. Ma che messaggio è? Lo sappiamo già cosa è successo a Marino e perché è successo, le abbiamo viste le manifestazioni inscenate dai parassiti di Roma al grido di “Marino dimettiti”, quando era stato accusato, e poi assolto, di aver caricato un po’ i rimborsi per spese di rappresentanza nella città di Mafia Capitale. Il problema non è che la legalità a Roma non possa funzionare, è che per implementarla ci vuole una certa astuzia politica, visto che se ci provi ci sono gruppi di interesse che faranno di tutto per distruggerti.

Poteva il film essere sviluppato in maniera più interessante?
Secondo me sì; sarebbe stato più interessante vedere, per esempio, cosa succederebbe se venisse fuori un Marino che oltre alle buone intenzioni ha un po’ di astuzia politica in più per metterle in pratica.
Certo, mi si potrebbe dire che, proprio sapendo cosa è successo a Roma, il fatto che il film si sviluppi in questo modo è realistico: il sindaco benintenzionato ma troppo ingenuo viene distrutto dai gruppi di interesse cui ha pestato i piedi. Ok, ci sta. Ma allora vorrei almeno vedere la vicenda dal punto di vista della vittima più che da quello dei carnefici, visto che quello dei carnefici è quello che ci hanno propinato tutti i telegiornali per mesi.

Quello che accade nel film è, invece, che l’atteggiamento di rassegnazione allo status quo, che già di suo sarebbe discutibile, si tramuta in adozione del punto di vista del furfante, addirittura con l’identificazione del cittadino comune col furfante e infine con una sottile apologia dello status quo, e alla fine della visione si resta dubitanti: ma Ficarra e Picone condannano lo status quo o sotto sotto se ne compiacciono? Non è che forse loro stessi sono i primi che amano lamentarsene ma tutto sommato ci sguazzano?
Perché se, come sostengono molte recensioni del film che ho già letto, il film vuole essere uno specchio della mostruosità di ognuno di noi, è anche vero che in uno scenario in cui tutti sono mostri nessuno è davvero mostro…

Ossequi.





Eroi o non eroi: “Hercules”

10 11 2015

Dopo la mia recensione di Troy, ho deciso di scrivere un altro articolo-recensione sul tema dell’ “eroismo” per come viene trattato oggi da Hollywood. Farò in questo articolo qualche riferimento alla recensione precedente, quindi ne suggerisco la lettura, anche se non è indispensabile.

Il tema è simile: la lettura, o meglio rilettura del mito greco da parte di Hollywood. In questi casi, si parla quasi sempre di una cattiva rilettura, ma non mi metterò a dimostrare quanto siano brutti film come “Scontro fra titani”, che sono trash e tutto sommato son molto soddisfatti del proprio esserlo. Trovo più interessante parlare di film appunto come Troy, che son fatti male proprio perché sono fatti bene, ovvero perché la cura c’è ma è, per così dire, volta al male.

Qui parlerò dunque di un altro film sul tema dell’eroe che, come Troy, sfrutta il mito greco, ma ha usato tutto sommato abbastanza male il materiale di partenza: Hercules, della Walt Disney Pictures.

Ma mettiamo prima i puntini sulle i; sto per parlare tutto sommato male di Hercules, ma anche se nel complesso lo trovo un prodotto gravemente difettato, non direi mai che è un film orrido o intollerabile come Troy. Non sussiste proprio paragone, Troy è merda pura, Hercules invece è un film godibile e che ho anche rivisto più volte con piacere. Ha a mio avviso dei difetti molto gravi soprattutto per quanto riguarda il messaggio, ma su quelli mi soffermerò a lungo; prima dunque chiariamo brevemente perché non è così male da potersi confrontare con Troy sul piano dell’orrido.

Motivo numero 1: Ade.

Purtroppo la cultura odierna ha sempre maltrattato il Dio dell’oltretomba, facendone quasi immancabilmente un villain. Ciò è curioso, perché nel mito greco Ade è un dio tutto sommato tranquillo e bonario che sta per i fatti suoi; laddove abbiamo sull’Olimpo anche efferati serial killer come Apollo o stupratori seriali come lo stesso Zeus.

La ragione per cui Ade è quasi sempre il cattivo è che si tenta immancabilmente di riproporre il mito greco in salsa cristiana, riprendendo la simbologia del “cielo”, “alto”, “luminoso” = “Buono”; e “sottoterra”, “basso”, “buio” = “Cattivo”. Nel mondo greco, però, alto e luminoso vuol dire grande e glorioso, ma non vuol dire necessariamente “buono” nel senso morale del termine. Ade cade dunque vittima della simbologia cristiana, e per questo diventa il cattivo. Un trattamento molto sgradevole e che di solito mi fa molto arrabbiare … Tuttavia, Ade in Ercole è un personaggio del tutto originale e obbiettivamente ben costruito: è astuto, sarcastico, divertente, perfino simpatico a tratti … non so voi, ma trovo che fin dalla sua prima apparizione si abbia l’impressione che la ragione per cui tutti gli dei lo emarginano e lo considerano un reietto sia più snobismo che un legittimo biasimo morale. Ade è un villain per il quale quasi quasi si può fare il tifo, e che comunque, semplicemente, funziona. Praticamente, il film si regge su di lui e su Megara, gli unici due personaggi che si allontanano un po’ dagli stereotipi disneyani. Quindi,nonostante Ade nel film Disney non sia in alcun modo fedele al mito, fa dare dieci punti al film.

Motivo numero 2: è senza pretese.

Questo è cruciale. Hercules stravolge il mito. Lo snatura, perfino, ne sovverte essenzialmente il messaggio, va per certi aspetti nella stessa direzione di Troy volendolo “modernizzare”.

Tuttavia il feeling che dà è completamente diverso rispetto a quest’ultimo. Gli autori Disney hanno pescato a piene mani nella mitologia greca consapevoli di quale straordinaria miniera di immaginazione essa fosse; non hanno mai per un momento pensato che potesse essere qualcosa di “superato” da “aggiornare” e rendere “realistico e adulto”. L’hanno infantilizzato, come fa Troy. Hanno rimosso i temi scomodi, come Troy. Vi hanno introdotto una morale semplice semplice da Hollywood, come Troy. Ma l’hanno fatto perché dovevano fare un film per bambini e Zeus non poteva essere uno stupratore seriale e Ercole non potteva uccidere Megara in preda alla follia. Certo, personalmente non concordo che i bambini non possano sapere storie di tradimenti coniugali, ma la logica è quella: fare un film per bambini, un film buffo, a tratti parodistico perfino, non certo un miglioramento o un aggiornamento serio del mito. È anzi addirittura evidente da parte degli autori una certa autentica devozione al mito: le Moire (“Parche” col loro nome latino) sono ad esempio una figura mitologica non delle più celebri, quindi la loro introduzione denota una certa conoscenza del materiale originale. I più smaliziati conoscitori del mito avranno notato peraltro che le Parche di Hercules in realtà non sono proprio Parche: l’avere un solo occhio in tre, infatti, è una caratteristica non delle Parche ma delle Graie. Gli autori Disney hanno quindi fuso insieme le Moire e le ancora più misconosciute Graie: non molto rispettoso dell’originale, insomma, ma sicuramente avevano fatto i compiti a casa sulla mitologia. Anche il veleno che Ade usa nel film per rendere Ercole mortale non è un’invenzione della Disney, ma un elemento tratto dalla mitologia (anche se non aveva niente a che fare con la storia di Ercole).

Insomma, Hercules non ha le abominevoli pretese di Troy, ed è questo che lo salva dall’abisso di merda in cui invece pongo l’altro film.

Motivo numero 3: Ercole VS Paride

Ho descritto Paride in Troy come un nega-eroe: un personaggio senza alcuna qualità ammirevole di alcun tipo, addirittura un personaggio dannoso per l’economia della storia, un personaggio che è semplicemente uno stereotipo di mediocrità, che tuttavia viene innalzato sostanzialmente ad autentico eroe della vicenda.

L’eroe di Hercules invece è Ercole. Il personaggio di Ercole della Disney ha grossi problemi, ma comunque non è una nullità assoluta: ha la sua superforza, per cominciare. Poi non è stupido, è anzi abbastanza astuto da riuscire in un’impresa … ciclopica anche senza la sua superforza; ha delle risorse, insomma. Ha un suo percorso di maturazione da compiere, che lo porta all’accettazione di se stesso e alla valorizzazione della propria differenza. Ha una sua anima: è un ragazzo molto giovane, ingenuo e che desidera essere accettato. È responsabile, tutto sommato: affronta il ciclope perché sa che è lui che è venuto a cercare, non scarica la responsabilità dei disastri che avvengono a causa sua sul prossimo. Non un personaggio memorabile, sicuramente, anzi, ricalca uno stereotipo da brutto anatroccolo abbastanza stantio e frequente nel mondo Disney … ma non è neanche un paradigma di mediocrità assoluta.

Insomma, Hercules è infinitamente meglio di Troy perché non ha pretese di seppellire il mito, perché ha alcuni personaggi effettivamente memorabili, perché non incensa alla mediocrità morale come valore civile.

Ma ha anche dei grossi difetti, ed essi riguardano esattamente il protagonista.

Dobbiamo ricapitolare brevemente la storia di Ercole nel film per continuare (risparmierò di far presente gli scostamenti dal mito perché sono veramente troppi): Ade scopre da una profezia che il neonato figlio di Zeus ed Era, Ercole, manderà a monte il suo progetto di risvegliare i Titani e usarli per usurpare il trono di Zeus; lo fa dunque rapire e gli fa somministrare dai suoi servi un veleno che lo trasforma in mortale. I servi tuttavia falliscono nell’ucciderlo, così il piccolo Ercole viene trovato e adottato dai mortali Alcmena e Anfitrione. Il  ragazzo cresce fortissimo, ma appunto la sua superforza, che non riesce a controllare, lo rende un disadattato che fa un sacco di disastri ed è apprezzato solo dai propri genitori. In cerca di risposte sulla propria condizione, Ercole chiede soccorso a Zeus, che gli appare e gli rivela la verità sulle proprie origini, regalandogli contestualmente il cavallo volante Pegaso; gli dice, inoltre, che potrà tornare ad essere un Dio solo se sulla terra diventerà un vero eroe, e lo invia quindi ad allenarsi dal satiro Filottete, “allenatore di eroi”.

Fast forward, Ercole si allena con Filottete, diventa ancora più forte, e insieme a Pegaso e al maestro si dirige a Tebe in cerca di imprese eroiche. Per strada salva le bella Megara dalle attenzioni del centauro Nesso; una volta che se n’è andato, scopriamo che Megara è segretamente costretta a lavorare per Ade da un accordo sventato fatto con lui in passato; ora il dio dei morti pianifica di usarla per distruggere Ercole.

Ercole arriva  Tebe, compie imprese eroiche, diventa ammirato, ricco e famoso e spera così di tornare sull’Olimpo, ma Zeus fredda le sue aspettative: deve fare qualcosa di più di essere ricco e famoso per dimostrare di essere un eroe, qualcosa che sta “dentro il suo cuore”.

Nel frattempo Megara si rifà viva, costretta da Ade a cercare di scoprire le debolezze di Ercole. Non ci riesce, ma in compenso i due si innamorano; Ade decide quindi di usare Megara per ricattare Ercole e costringerlo a rinunciare alla sua forza per 24 ore, il tempo necessario per vincere la sua battaglia all’Olimpo; in cambio gli promette la salvezza di Megara. Ercole accetta, nonostante sappia che Ade sfrutterà la sua debolezza per fare del male alle persone, ma se ne pente rapidamente quando Ade gli rivela che Megara, seppur ormai pentita, aveva lavorato per lui.511V6QBV6PL

Il Dio dei morti dunque va alla conquista dell’Olimpo e manda un Ciclope a uccidere un depresso e indebolito Ercole per essere sicuro che non interferisca. Tuttavia, Ercole riesce a battere il ciclope anche senza la superforza, e durante la battaglia Megara viene gravemente ferita: l’accordo con Ade è dunque rotto, poiché aveva promesso la di lei salvezza. Ercole ha di nuovo la sua forza e riesce a fermare Ade, ma Megara muore. Così, Ercole va nell’oltretomba e offre ad Ade di lasciare andare l’anima di Megara e prendere in cambio la sua. Ade accetta, ma Ercole riacquista la sua immortalità: ha compiuto l’atto davvero eroico, sacrificare la propria vita per Megara (“un vero eroe si misura dalla forza del suo cuore”). Dunque Megara e Salva ed Ercole è un Dio, ma non volendo rinunciare all’amore di Megara, perché una vita senza di lei, anche se immortale sarebbe “vuota”, decide di restare mortale per lei. Senza battere ciglio, Zeus ed Era gli fanno fare questa gigantesca stronzata e Ercole resta sulla Terra con Megara.

Andiamo ai problemi, o meglio al problema del film. Il film parla di eroismo. Ne parla ossessivamente, addirittura il film si racconta come il viaggio interiore di Ercole per diventare un autentico eroe.

Tuttavia, cos’ha fatto davvero di eroico Ercole, secondo gli autori?

Ha sconfitto tanti mostri ed è diventato ricco e famoso. Evidentemente, ciò era necessario, altrimenti perché farsi allenare da Filottete?

È stato però determinante anche che fosse disposto a rinunciare alla propria vita per Megara.

Ora, per poter parlare di eroismo ci vuole sacrificio, ovvio. Questo gli autori Disney lo sapevano bene, Ercole doveva sacrificare la propria vita per qualcun altro, per essere un vero eroe. Ma per chi?

Per la donna di cui era innamorato, hanno deciso.

Non credo sia un caso se Hollywood ci ha proposto sempre come l’ideale dell’amore l’amore romantico: si tratta della forma di amore più contaminata dell’egoismo e del possesso, dunque quella più ammissibile in una società priva del senso di comunità (anche se spesso, purtroppo, non priva del senso della razza, della classe, della religione e dell’orientamento sessuale…)

Ercole non si è sacrificato per la comunità, né per uno sconosciuto, né tanto meno, figuriamoci, per un nemico. Di tutti i sacrifici che poteva fare, ha scelto quello più facile, quello per la persona di cui è innamorato. Quello più facile perché comporta già un coinvolgimento personale; quello più facile perché fatto sull’onda della passione; quello più facile perché riguarda la sua amata, e sottolineo sua.

Questo è un sacrificio, vero … ma è così nobile da dirlo eroico?

Siete abituati a sentirmi citare Aristotele, ora vi sorprenderò citando una puntata di “Sabrina vita da Strega” (il telefilm, lo trovavo molto simpatico): in quell’episodio, Sabrina, la strega teenager si trova a dover dimostrare che il suo amore per il fidanzato è vero amore, gettandosi fra le fiamme per lui. Lo fa, e ne esce illesa, superata la prova; ma la zia, saggia, commenta “ero sicuro che ce l’avrebbe fatta. Alla sua età è sempre vero amore”.

Ercole ha 18 anni, e Megara a quanto ne sappiamo è il primo suo amore degno di nota. La passione a quell’età è travolgente ed è sincera … ma è anche molto passeggera e le scelte che ci porta a compiere più che eroiche di solito sono stupide: nobili, appassionate, ma stupide. Probabilmente Ercole e Megara divorzieranno, ne tirerà di bestemmie contro suo padre l’eroe quando ripenserà a cosa a rinunciato per lei …

Dunque un sacrificio, il suo, più che altruistico e disinteressato, fatto sull’onda della passione e sulla base dell’impressione e della paura egoistica che “una vita senza Meg sia vuota”; impressione falsa, e paura infondata, perché sappiamo che invece dopo Meg avrebbe trovato qualcun’altra e ricominciato, perché come scrive Saint-Exupery, “ci si consola sempre”.

E non dimentichiamo che non solo Ercole è stato dichiarato eroe dopo un sacrificio che difficilmente possiamo considerare veramente eroico, ma che questa passione romantica lo aveva portato in precedenza a compiere un gesto irresponsabile ed antieroico, come mettere a rischio l’ordine stesso del cosmo per salvare Meg quando sotto il ricatto di Ade … più o meno la stessa forma di irresponsabilità di Paride.

Intendiamoci, non penso che dobbiamo essere troppo severi con Ercole, umanamente. A differenza di Paride, Ercole fa delle sciocchezze ma ha un suo percorso di redenzione personale che lo porta più volte sull’orlo della morte, e contrariamente a Paride alla fine Ercole salva il mondo, invece di lasciarselo dietro in macerie. Ercole è un adolescente che deve maturare attraverso la sua avventura, come un’Ariel ne “la Sirenetta”; non dobbiamo chiedergli di più di quello che chiederemmo ad un adolescente che transita verso l’età adulta. Dopotutto, non tutti siamo eroi.

Ecco. Appunto.

Questo è il vero problema Hercules; Hercules non è un cattivo personaggio, ma non è neanche un eroe, o per lo meno quello che dovrebbe farcelo passare per eroe non è eroico per niente. Ercole ha un solo vero momento eroico, ed è quando affronta il ciclope … ma anche quello è abbastanza dubbio: lo fa davvero per altruismo, o non è anche un gesto autodistruttivo, ovvero fatto nella speranza di restarci ucciso? In quel momento Ercole è depresso e il suo non sembra affatto un intento eroico quanto più un intento suicida.

Direi, comunque, che quello è un momento efficace per il personaggio, quale sia la lettura che se ne vuole dare; ma non è in quel momento che diventa eroe, bensì quando salva Meg. Quindi, ripetiamolo, è un eroe perché ammazza mostri, è ricco e famoso, e si sacrifica per la persona che ama.

Ercole non è una brutta persona, non è una persona assolutamente meschina come Paride; ma non è neanche una persona così eccezionale o eroica. Per i canoni della Grecia classica non sarebbe sicuramente definito eroe, nell’Occidente di oggi apparentemente sì, ma questo ci deve fare riflettere.

Cos’è l’eroe di oggi se non una star ricca e famosa che ogni tanto fa filantropia? Tutti quanti diciamo “se fossi ricco e famoso farei tanto bene”, e “sacrificherei me stesso per chi amo”. Se questo è l’eroe, tutti quanti possiamo sentirci eroi, siamo a posto, non dobbiamo migliorarci ulteriormente, solo aspettare di diventare ricchi. È molto comodo.

La morale è che alla fine tutto sommato siamo tutti eroi. “Il vero eroe è chi riesce a mantenere una famiglia”, “il vero eroe è il buon lavoratore”, “il vero eroe è chi mette su un’impresa e la sorregge dando lavoro alle persone”, “il vero eroe è la mamma che cresce bene i propri figli” … non sentiamo dire spesso cose del genere?

Ora, certamente ammiriamo chi riesce a fare qualcosa di buono della propria vita. Certamente, la vita è piena di sfide e affrontarle è difficile. Ma allora siamo tutti eroi? “Eroe”, mi sembra, è un termine che dovremmo riservare a gente fuori dall’ordinario; se tutti siamo eroi nessuno è un eroe. Ercole è un ragazzino ingenuo che fa i suoi errori, migliora, si dà da fare eccetera: lodevole, ci sta simpatico, perché no? Ma il punto è che lui viene addirittura elevato a diventare Dio. Mi domando, nell’universo cinematografico di Hercules, quante persone ci vivessero che avrebbero fatto la stessa cosa: tutti quanti meritavano di diventare dei?

Probabilmente sì, a meno che non servisse essere figli d’arte come Ercole …

In generale Hercules, anche se non va a spalare merda sul concetto stesso di eroismo come fa Troy, adotta un concetto di eroismo molto borghese e molto comodo. Anche in Hercules, ci viene risparmiata la fatica di dover ammirare qualcuno come “eroe”, di doverci magari sentire inferiori: siamo tutti eroi, basta che non siamo persone grette, egocentriche, vigliacche e irresponsabili, insomma persone pessime, e siamo eroi. Se non sono disposto a svendere tutti miei valori per il beneficio personale, se non sono pronto a danneggiare tutta la comunità solo per apparire in televisione, insomma se non mi chiamo Giuliano Ferrara o Mario Adinolfi, sono un eroe.

È già un progresso rispetto a Troy che invece ci invita ad essere proprio persone pessime e miserabili, ma, considerando che si parte da un materiale di così alto valore estetico come il mito greco, si poteva fare di meglio …

Ma forse il mito greco, proprio per quella stessa lontananza dall’odierno che lo rende così affascinante, diventa anche inadeguato a trattare il tema dell’eroismo in termini moderni.

Chi è dunque che eredita la missione del mito greco? Chi parla efficacemente di eroismo nei media di oggi?

Ne riparliamo nel prossimo intervento.

Ossequi.





“Troy”, ovvero l’epica al tempo della piccola borghesia

5 11 2015

Non sono un gran fan dell’estetica, come disciplina. La ragione è che essa è, per così dire, naturalmente inconcludente. Sì, so che c’è gente là fuori convinta che esista una cosa come “il bello oggettivo”, ma io disconosco assolutamente questa tesi: in ultima analisi, la bellezza è per sua definizione un gusto, e non potrà mai essere più di un gusto, e dunque non potrà mai essere oggettiva, e dunque non avrà mai neanche senso dibattere su di essa. Mentre l’etica può giungere attraverso il processo razionale a delle sintesi provvisorie di ampia validità, che potremmo stiracchiare fino a definire quasi “oggettive”, con l’estetica, alla fin fine, sarà sempre una questione di gusti.

Per questo, nonostante io abbia ovviamente un mio gusto estetico e degli interessi artistici, letterari e musicali, di solito non ne scrivo, in quanto non ritengo di poter portare argomenti oggettivi in favore di un gusto o di un altro. E poi io sono uno di quei tre nella sala che ridevano guardando “Disaster Movie”, quindi proprio non posso ergermi a Petronio della situazione: ognuno ha i suoi gusti.

Ciò non di meno, ho un gusto, estremamente ben definito (non sto dicendo raffinato, ma “definito”, ovvero, allenato, solido, con dei suoi canoni), e visto che ultimamente su questo blog son venuto meno a certe mie regole, farò uno strappo anche a quella per cui non discuto di estetica. Lo faccio soprattutto perché sono umano e, porca Eva, anche io ogni tanto devo togliermi un sassolino dalla scarpa.

Fra le arti, quella che mi appassiona e interessa di più è senza dubbio il cinema; vedo tanti film e cerco sempre di guardarli con occhio critico. Ho visto molti film, e quindi ho visto ovviamente anche film brutti. Ho visto film veramente brutti. Ho visto film che ho odiato.

Ma giuro, nessuno dei film che io abbia visto in tutta la mia vita mi ha suscitato un senso di odio più profondo di “Troy”.

Sta indubbiamente sul gradino più alto del podio, seguito da “Final Fantasy: the spirit within” e da “Alice in Wonderland”. Non ho lo spirito dell’hater, non mando minacce di morte a Gabriele Muccino perché non gli piace Pasolini; ma onestamente credo che prenderei a male parole volentieri ogni singola persona che sta dietro Troy, dagli attori al regista ai truccatori alla donna delle pulizie che ha pulito il set dopo.

Ora cercherò di spiegare perché quel film, e quel film in particolare, mi ha fatto l’effetto di un chiodo arrugginito piantato in mezzo ai coglioni.

Dunque, overview dell’opera: film del 2004 che si propone come un libero adattamento dell’iliade; vuole insomma narrare la storia della guerra di Troia.332452

Cast “stellare”, con Brad Pitt per far bagnare le signorine, Erica Bana che fa Ettore, Orlando Bloom che fa Paride guardandosi attentamente dal fargli assumere qualsiasi espressione facciale, vari ed eventuali del tutto dimenticabili; mi pare ci fosse anche Peter O’Toole a fare Priamo. Budget enorme, ma è un grandissimo successo commerciale quindi alla fine stammerda ha funzionato e c’han fatto soldoni.

Inutile dire che hanno fatto dei cambiamenti rispetto al materiale di partenza.

Il cambiamento e la rielaborazione non sono necessariamente problemi (non sono uno di quelli che dice peste e corna di Peter Jackson perché si è permesso di tagliare un pezzo del libro che altrimenti avrebbe fatto durare il film cinque ore), ma qui lo sono, e spiegherò perché. Passiamo brevemente in rassegna i cambiamenti che ho trovato più significativi per capire cosa hanno fatto gli autori del film:

  • Scomparsi gli dei. Non ci sono dei in “Troy”, non esiste il sovrannaturale. È una storia di guerra e basta.
  • La guerra in questione, che in teoria durava dieci anni, qui dura qualcosa come tre giorni.
  • Patroclo è l’amatissimo cuginetto di Achille. Avete letto bene, è il cugino.
  • Menelao, che in teoria doveva essere un gran figo, è un cesso. Idem Agamennone.
  • Menelao muore, ucciso a tradimento da Ettore. Anche qui avete letto bene.
  • Anche Agamennone muore, ucciso da Briseide. Mi rifiuto di mettere Spoiler tag, sapevatelo. Comunque, considerando cosa lo avrebbe aspettato altrimenti, è stato quasi fortunato.
  • Agamennone dice subito chiaramente che lui vuole conquistare Troia, non riprendere Elena, che è solo una scusa per lui.
  • Agamennone e Menelao, insomma, sono villain senza alcun senso dell’onore o del rispetto né alcuna caratteristica che ce li possa far stare simpatici. Sono perfino cessi, per non rischiare che possiamo provare simpatia per loro a causa della bellezza.
  • Achille è bravo, buono e ha animo da poeta, anche se è un po’ impulsivo quando si incazza
  • Paride, hanno deciso gli autori, ci deve stare simpatico per forza: Elena è innamoratissima di lui, nonostante come guerriero sia una mezza sega (che nel contesto dell’etica greca classica equivale ad essere una mezza sega come uomo, ricordiamolo) e un irresponsabile che sta causando la morte di migliaia di persone solo perché non sa tenerselo nelle mutande. La ragione di tanto amore è che lei non desidera un grande guerriero ma “qualcuno con cui invecchiare”. Awwww ❤
  • Paride sopravvive e scappa con Elena alla fine del film

Insomma, ci hanno messo le mani un bel po’ e non ho neanche scritto tutto. C’è una sola cosa che non cambia: Achille viene ucciso da Paride con una freccia al tallone. Non s’è capito perché mai avrebbe dovuto colpirlo al Tallone o perché la cosa avrebbe dovuto sortire qualche particolare effetto su Achille, visto che hanno passato un colpo di spugna sul fatto, sovrannaturale, che Achille fosse invulnerabile ovunque tranne che al tallone. Non mi risulta ci siano organi vitali nel tallone, ma forse Paride aveva bigiato Anatomia e ha puntato lì per questo.

Comunque, non ci vuole un supermegacervellone per capire che cosa hanno fatto gli autori e quale concept guidasse le loro menti malate: hanno preso una storia epica e l’hanno trasformato in una storia di guerra che nei loro intenti è “realistica”; insomma, de-mitizzare il mito. Evidentemente con in mente l’idea che il mito sia, come dire, “superato”, roba da gettarci alle spalle: uccidere Dio.

Insomma hanno cagato in testa a Omero.

No, non hanno rielaborato o reinterpretato Omero. Gli hanno cagato in testa a spruzzo, e c’erano dentro anche dei pezzettini di carota non digeriti.
l’epica è una storia grandiosa, che spinge sui confini estremi dell’immaginario umano e in questo modo diventa immortale. L’Iliade è epica, una narrazione eterna, fuori dal tempo. Non è un racconto realistico né storico, non è concepito in quel modo.

Certo la Guerra di Troia invece no, è un evento storico. Ma non sappiamo abbastanza della Guerra di Troia per fare ricostruzioni ragionevolmente accurate di quello che accadde; non puoi fare un film storico accurato sulla Guerra di Troia, e infatti Troy non è neanche un film storico e nessuno cerchi di farmelo passare come tale che gli faccio ingoiare i miei boxer usati. È un film tratto dall’Iliade, un film di merda tratto dall’Iliade.

E l’Iliade è anche un mito, e contiene gli dei: di più, la guerra di Troia è un evento orchestrato in pieno dagli dei, gli dei sono protagonisti quanto gli uomini se non di più. E quanto agli uomini, i personaggi sono alquanto unidimensionali, e d’altro canto il loro scopo non è fare da apripista a riflessioni introspettive, ma “solo” essere ricordati in eterno.

È anche una storia di guerra, per la precisione una storia che glorifica la guerra. La guerra è brutta? Sì, è brutta, ma per capire quanto è brutta la Guerra ci sono “Apocalypse Now” e “Salvate il soldato Ryan”, l’Iliade non serve a spiegare alla gente quanto è brutta la guerra, ma a creare una mitologia ed una base di valori su cui fondare l’etica stessa di un popolo. Per capirci, termini di paragone per l’Iliade sono il Gilgamesh, o la Bibbia, o la Divina Commedia, o più prosaicamente anche il Signore degli Anelli che ripropone l’epica sotto forma di Fantasy.

Questo è il materiale di partenza: una storia immortale che glorifica e innalza i valori guerrieri del coraggio, dell’orgoglio, dell’onore; che pone al centro delle vicende non le persone, ma le passioni, gli istinti, le forze primordiali che governano l’esistenza umana, ovvero gli Dei e gli Eroi.

Se non rispetti un minimo questo spirito, tu non rispetti l’opera originale. Che in realtà volendo si può anche e non è il difetto essenziale di Troy, ma andiamo avanti.

Chiariamo, se ce ne fosse necessità, che stiamo parlando di un’opera d’arte, non va dunque mai guardata con gli occhi del moralista. Non devi necessariamente pensare che la guerra sia bella davvero per apprezzare la bellezza che trasmette la guerra nelle finzione letteraria, esattamente come non devi essere credente per incantarti di fronte all’amor che move il sole e l’altre stelle. Si tratta solo di una specifica emozione estetica che l’autore vuole ingenerare nel fruitore dell’opera.

Ovviamente, si può non apprezzare la dionisiaca emozione estetica dei valori guerrieri, e perfino porsi in diretta antitesi ad una tale estetica: “Io non voglio esaltare i valori guerrieri ed eroici, io voglio dimostrare l’inconsistenza del mito dell’eroe e della glorificazione della guerra”, come mi è capitato di leggere in una recensione… santo  cielo … positiva del film.

Ovviamente, se vuoi fare una cosa così, devi fare quello che hanno fatto gli autori di Troy: sottolineare la brutalità dei guerrieri piuttoso che i valori positivi di cui sono portatori; trasformare la guerra per l’onore di Menelao in una guerra per la sete di potere di Agamennone; far commettere a Ettore un assassinio a tradimento per proteggere quel vigliacco del fratello; mostrarci il lato più umano di Paride invece che condannarlo per la sua piccolezza; far sparire assolutamente gli dei, che sono la rappresentazione delle passioni umane e delle pulsioni più profonde dello spirito, nonché la più oscena rappresentazione della grandezza umana … insomma, immiserire tutto, rendere tutto freddamente e cinicamente apollineo. Ma questo significa senza alcun dubbio cagare in testa a Omero, spudoratamente e anche vantandosene un po’.

Avrete capito che in me i valori guerrieri in un opera di fiction suscitano un’emozione estetica molto gradevole. Insomma, mi piacciono e mi dà fastidio vederli calpestati. Inoltre, io ho fatto il liceo classico e ho amato i miti greci, quindi vedere trattare così Omero, che sarà pure stato cieco ma la puzza di merda la sente benissimo, mi irrita. MOLTO. Ancora, avrei voluto davvero vedere un film sull’Iliade con gli effetti speciali di oggi, che avrebbero permesso di trasmettere in video tutta la grandiosità delle immagini del mito. Mi hanno tolto anche questo piacere.

A questo punto ho già vari motivi di fastidio, e prima di arrivare a parlare del problema più serio di Troy ne ne aggiungo un altro ancora: io ho sempre trovato stupido prendere una licenza letteraria solo per cagarci sopra. Perché prendere l’Iliade, se vuoi solo fare un film di guerra sugli antichi greci? Fai 300 (che poi 300 come spirito è molto più vicino all’epica greca di quanto non lo fosse Troy, ma vabbè), racconta un evento storico vero che conosciamo bene e il “realismo” lì sarà apprezzato. Perché prendi l’Iliade se tutto ciò che l’iliade comunica e rappresenta ti fa schifo? Se hai delle idee originali, perché non le sviluppi da te? Perché devi andare in guerra con l’autore dell’opera originale, perché devi cercare il confronto aperto proprio con Omero?
Io provo profonda antipatia per chi manca così gravemente di rispetto alle opere originali cui si ispira. Trovo in generale operazioni come “Maleficent” o “Wicked” estremamente antipatiche: se mi piaceva Malefica nel cartone animato, Malefica-Angiolina Jolie mi stara inevitabilmente sul cazzo, visto che non è lei ma fa finta di essere lei.

Ma questa antipatia di base per l’operazione di snaturamento dell’originale, volendo, potrei metterla da parte. Devo comunque dire che Maleficent e Wicked, seppur vanno a cagare in testa alle rispettive opere originali o se preferite “vanno a confrontarsi in maniera molto diretta e competitiva con le opere originali”, hanno qualcosa da dire: scene e messaggi molto forti che in un qualche modo possono efficacemente confrontarsi col media originale e forse, chi lo sa, a volte anche superarlo in merito artistico. Quindi ok, è maleducato dire a Baum “guarda che la Perfida Strega dell’Ovest la so usare meglio io di te perché sono più moderno, fatti da parte, relitto, che le tue idee nelle tue mani erano sprecate!”; sostanzialmente, è sputare nel piatto dove si mangia, visto che tu le sue idee le stai usando.
Ma può essere che ci sia della sostanza dietro questa pretesa maleducata. Dopotutto, non è forse Euripide il primo ad aver apollineizzato i miti? Possiamo preferirgli Eschilo, ma certo non possiamo negare merito artistico ad Euripide, Euripide ha comunque scritto anche lui cose che son rimaste nella storia, opere magnifiche, seppur più “apollinee” di quelle dei suoi predecessori. Certo, devi chiamarti Euripide o Dante per permetterti di fare sberleffi a Omero, o comunque devi assestarti su quel livello artistico lì.

Vuoi uccidere Dio? Va bene, si può fare. Ma dopo la morte di Dio resta aperta la possibilità infinita della ricostruzione, l’esercizio intellettuale del dubbio, l’esplorazione di orizzonti nuovi, l’allargamento dei confini. Lì puoi mostrare quanto vali, lì puoi iniziare a comunicare, a riflettere, a scioccare, a provocare, lì puoi pensare di mettere i baffi alla Gioconda.

Insomma, puoi demitizzare il mito per uno scopo di espressione artistica almeno altrettanto alto. Se Troy si limitasse a demitizzare il mito per favorire la riflessione, il dubbio e l’approfondimento, sarebbe ancora un’opera con qualche merito artistico, invece di una vergognosa porcata.

Il punto è che questo non è il caso di Troy. Troy caga in testa a Omero, va a dire ad Omero “fatti da parte, vecchio relitto, noi siamo moderni e possiamo fare di più e meglio di te con il tuo stesso materiale!”, e poi non dice un cazzo di niente!

Achille spara frasi da baci perugina sulla vita e la morte e così ha raggiunto la massima profondità del personaggio. Menelao e Agamennone sono due figli di puttana stupratori bruti guerrafondai traditori cessi; quanta tridimensionalità, sicuramente un progresso rispetto alla piattezza di Omero. Agamennone vuole conquistare Troia per ragioni politiche: mmmh! Allora adesso mi aspetto una cosa tipo Game of Thrones, un bell’approfondimento sui retroscena, sulla geopolitica e la società di quei tempi … come? No? Mi dicono di no, non c’è nessun approfondimento sociologico, politico o storico di sorta! E permettetemi di dilungarmi su Paride, perché Paride è il personaggio chiave in questa storpiatura: Paride è il motore degli eventi, quello che combina il disastro iniziale, quello che si comporta per tutto il tempo come un perfetto idiota, e anche il protagonista. Pensate sia Achille? Ripensateci: Achille è quello che si vede di più, ma Troy è un polpettone hollywoodiano, e come tutti i polpettoni hollywoodiani riserva il lieto fine al protagonista: Paride, che contrariamente all’Iliade, qui riesce a scappare con Elena. L’amore trionfa, ed è costato solo la distruzione di una città e qualche decina di migliaia di morti.

Insomma hanno preso gli archetipi eterni di Omero e li hanno semplicemente  trasformati in stereotipi contemporanei. Hanno preso valori grandi, passioni immortali e pulsioni essenziali dell’animo umano, e li hanno trasformati in clichè da polpettone hollywoodiano. Non contenti, hanno cercato di mandarci il messaggio che loro, tutto sommato, sono più bravi di Omero, al punto che possono permettersi di “aggiornarlo” e di renderlo “realistico” e “adulto”.

E nel frattempo questi geni dell’innovazione e della provocazione, che non temono il confronto con il classico e anzi lo sfidano apertamente, hanno fatto diventare Patroclo il cugino piccolo di Achille! Rendiamoci conto della vastità dell’operazione: non solo hanno cancellato qualsiasi riferimento esplicito ad un rapporto omosessuale (questo, magari, glielo avrei potuto perdonare, paradossalmente nell’Iliade riferimenti espliciti ad un tale rapporto non ve ne sono, anche se vi sono in altre fonti), ma hanno introdotto perfino una parentela di primo grado ex novo, per fugare qualsiasi sospetto o ambiguità a riguardo: Achille in Troy è, fuor di ogni dubbio, 100% eterosessuale D.O.C.

Non solo gli autori di Troy non avevano niente di interessante da dire, ma hanno avuto perfino paura della possibilità che uno spettatore potesse sospettare l’esistenza di qualcosa di non convenzionale; hanno avuto il terrore sacro di sfiorare un tema veramente “adulto”. Nel 2004, questi che si credono così smaliziati e moderni da poter aggiornare Omero e renderlo più adulto, non hanno avuto il coraggio non dico di affrontare, non dico neanche di nominare, ma perfino di rinviare vagamente al tema dell’omosessualità, un tema, quello sì, attuale, complesso e nel 2004 anche coraggioso.

“Troy” cancella qualsiasi grande valore o merito estetico dall’opera originale, ma non si ferma lì: sostituisce ai valori omerici dei disvalori, delle meschinità, delle piccolezze. Di certo non è una glorificazione dell’estetica guerriera portata avanti attraverso un immaginario mitico, ma non è neanche una riflessione sociale o psicologica vicina alla sensibilità postmoderna. È semplicemente una becera glorificazione del disvalore piccolo-borghese, un innalzamento del nulla a divinità da osannare, della banalità e del conformismo a ideale dell’etica; un’apocalisse di non-pensiero, non-ideale, non-immaginazione, non-ragione.

Hanno ucciso Dio, abbattuto gli idoli, e questo mi potrebbe perfino stare bene, ma non l’hanno fatto per renderci liberi; lo hanno fatto per poter mettere al suo posto un asino, chiedendoci di venerare un asino, e innalzare olocausti a un asino, esattamente come a Dio. E questo non mi va bene.

Sono uscito dal cinema offeso da quello che avevano cercato di farmi gli autori. Non mi avevano soltanto proposto il punto di vista di Paride, il nostro ragazzino innamorato, vigliacco e irresponsabile, no: avevano cercato di forzarmi ad adottarlo, volevano costringermi a trovare simpatico Paride; il loro piccolo borghese egocentrico che non sa tenerselo nei boxer. Hanno cercato perfino di dirmi che ritengono di aver migliorato il mito, mentre lo immiserivano oltre l’immaginabile e svuotavano di qualsiasi messaggio o significato; mi hanno proposto insomma la miseria e la piccolezza come nuovo standard dell’eroismo e della grandezza d’animo.
Si sono innalzati su un piedistallo di nulla e si sono permessi di guardarmi dall’alto in basso, di somministrarmi le loro pilloline di etica hollywoodiana prete-à-porter. Hanno offeso la mia intelligenza, la mia estetica e sono riusciti a offendere perfino la mia etica.

Troy non è né apollineo né dionisiaco. È semplicemente un prodotto decadente, miserabile, offensivo non solo per l’opera originale ma per la platea. Dicevo che non si deve mai guardare l’opera d’arte con l’occhio del moralista, giusto?

Be’, permettetemi di contraddirmi: io trovo immorali opere come Troy, perché attraverso il degrado estetico alimentano il degrado etico. Sono opere che simulano complessità di tematiche e invito alla riflessione, e in realtà ti iniettano in endovena una morale preconfezionata, stupida, povera e cinica nel senso peggiore del termine. Film come Troy vogliono essere la nostra epica, l’epica di oggi, il fondamento valoriale che si vuol dare alla nostra società. Oh, sì, la loro è una morale preconfezionata, stupida, povera e cinica, ma è sempre una morale, è pur sempre una legge, una sistema di valore che ti viene inculcato e devi accettare. È la morale del perfetto borghese, dei “devotissimi della Chiesa, fedelissimi del pallone, nulla-pensanti della televisione”. Insomma non si sono limitati a mostrarmi come protagonisti piccoli borghesi meschini e vuoti, cosa che faceva già Euripide e avrebbe il suo merito; il punto è che questi piccoli borghesi meschini non me li hanno solo mostrati, bensì me li hanno anche proposti come più alti modelli morali, come i “buoni” senza se e senza ma.

La morale della plebe di nietzscheana memoria?
No, peggio. La morale della plebe non riconosce il valore del guerriero, ma almeno riconosce ancora il valore del martire. Il martire è comunque qualcuno di “speciale”, almeno fa qualcosa che gli altri non farebbero, si distingue dalla massa. Troy non ammette più neanche quello, non ammette l’autosacrificio come non ammette l’onore come non ammette la forza come non ammette la gloria come non ammette l’eroismo come non ammette la santità. Nessuna forma di grandezza, nessun distacco dalla banalità, nessuna forma di emergenza dall’uniformità è ammesso dall’epica piccolo-borghese di Troy. Non si limita a cancellare la grandezza da ogni personaggio, così che lo spettatore non debba provare ammirazione né tanto meno senso di inferiorità e desiderio di migliorarsi; essa proibisce attivamente allo spettatore di desiderare la grandezza, degradando ed uccidendo sistematicamente tutti i personaggi che ne portino i segni. Non c’è nessun personaggio in Troy cui possiamo guardare con sincera ammirazione, nessuno che possa farci sentire inferiori  … e al contempo, non c’è neanche nessuno che abbia una personalità autentica da esplorare o una traccia di complessità; non c’è nessuna riflessione filosofica o sociale o politica: il trionfo del piattume/pattume, una cerimonia di santificazione del clichè.

Troy ammette e permette un solo ‘valore’, quello di Paride. Di Paride ci vien chiarito a più riprese che è una nullità: non è nobile come Achille, non è forte come Menelao, non è responsabile come Ettore, non è furbo come Odisseo, non è niente; è solo un bel visino che a quanto pare sa dire paroline dolci alle fanciulle. Ma è lui che alla fine si salva e vince su tutto e tutti!

Paride sostituisce così l’eroe come role model del film; ma al contempo è privo di qualsiasi virtù eroica, o di qualsiasi virtù umana ammirevole, se è per questo; è solo una nullità glorificata. Non dunque un eroe, e nemmeno un antieroe: piuttosto un nega-eroe, una negazione attivà dell’eroismo e di ogni virtù. Il suo non-valore e la sua non-virtù sono la proposta morale attiva dei creatori di Troy, la loro idea di cosa dovremmo aspirare ad essere oggigiorno: dell nullità brave solo a pensare a se stesse. L’unico valore ammesso da Troy è dunque quel non-valore: quello di chi guarda il proprio orticello e basta, tanto può sempre scaricare la responsabilità di ciò che fa sulla comunità, e poi scappare dalla città in fiamme all’ultimo momento, praticamente unico a salvarsi il culo nel disastro da lui stesso causato. Non prima, ovviamente, di aver ucciso Achille, liberandosi così, catarticamente, dall’ultima figura che potesse ricordargli la sua piccolezza. Come ci dice Frank Miller attraverso la bocca di Superman:

“Se potessero ci ucciderebbero. Sono ogni anno più piccoli. Ogni anno ci odiano di più. Non dobbiamo ricordare loro che i giganti camminano sulla terra”.

Ossequi.