La coperta corta di Malthus

9 12 2020

Cosa ci insegna la crisi del Coronavirus?

Che insieme, unito, il paese può affrontare ogni minaccia?

Nah. Più che altro ci insegna tutta una serie di orrende verità su come funziona la psiche umana e in particolare la psiche dell’occidentale del 2000.

Ma più ancora, pone una lapide su tutti i sogni più sfrenati di ecologisti e malthusiani.

Ma facciamo un passo indietro, di un annetto, quando l’argomento caldo (no pun intended) era il riscaldamento globale. Quando Greta Thunberg gridava appassionatamente che questi governanti le hanno rubato il futuro. Ma sono davvero stati loro? Cos’era questo futuro?

Il modello di sviluppo della società industriale, che sia esso socialista o capitalista non ha in realtà la minima importanza, si basa su una capacità dell’uomo di sfruttare le risorse ambientali che non ha precedenti storici prima del Novecento. Razziando cieli, mari e terre l’umanità ha iniziato a produrre quanto basta a soddisfare ogni suo bisogno e anche ogni suo capriccio, in effetti. E questa incredibile, inedita prosperità ci piace, non vogliamo rinunciarvi.

Gli ecologisti, infatti, ci dicono che dovremmo dare un taglio a tutto questo lusso, che non è sostenibile. Che presto non potremo più permettercelo, perché il riscaldamento globale distruggerà anche l’economia e il nostro stile di vita etc.

La soluzione proposta dagli ecologisti sembra essere: dobbiamo dare un taglio al nostro stile di vita ORA, altrimenti dovremo farlo DOPO.

Curiosamente questo argomento per cui dovremmo vivere da malati per morire sani non convince tanta gente. Qualcuno nota che, se dovessimo davvero dare un taglio drastico all’uso dei combustibili fossili, i paesi in via di sviluppo e quelli del terzo mondo sarebbero condannati a restare per sempre in miseria, e a parte che valli a convincere, forse non sarebbe neanche moralmente corretto convincerli a fare una cosa del genere.

Cioè, il punto è che noi vogliamo mantenere la prosperità in cui viviamo, e anche dell’ambiente ci interessa solo nella misura in cui ci è garantita la prosperità; non serva a nulla salvare l’ambiente senza la prosperità.

Purtroppo, però, la prosperità è una condizione per certi versi “innaturale”. La biologia dei viventi è adattata per farli abitare in uno stato di costante scarsità di risorse. Gli animali mangiano e bevono ogni volta che possono, non si mettono a dieta, e questo perché il cibo scarseggia sempre ed è faticoso procurarselo. E noi umani non siamo diversi, non siamo fatti per essere frugali, e difatti soffriamo delle cosiddette “malattie del benessere”, malattie collegate ad una sovrabbondanza di risorse che nuoce alla nostra stessa fisiologia. Quando ci troviamo in condizioni di prosperità noi non facciamo altro che mangiare di più, di solito, almeno finché il cibo non finisca.

Gli ecologisti suggeriscono invece di mettersi a dieta, onde preservare la prosperità, si direbbe; temono che le risorse finiscano e l’abbondanza cessi. Ma il punto è che qui si sta nuotando contro la biologia stessa: le popolazioni crescono e consumano all’infinito, non si mettono a dieta; non lo fanno i conigli e non lo fanno neanche gli umani. E anche se ci mettessimo “a dieta” e consumassimo molto di meno, continueremmo comunque a riprodurci e ad aumentare di numero. Se consumiamo la metà, ma diventiamo il doppio, non abbiamo fatto un gran progresso. Il problema è il seguente: la crescita di una popolazione è limitata soltanto dalla quantità di risorse. L’esplosione demografica è una conseguenza del benessere, non si sarebbe verificata senza sovabbondanza di risorse. Ma proprio per questo è destinata a “mangiarsi” quelle risorse e ad esaurire quella stessa sovrabbondanza. La crescita di una popolazione si ferma quando sono finite le risorse per crescere, a quel punto raggiungerà un equilibrio stabile. E così faremo anche noi.

E infatti gli ecologisti più sgamati digievolvono e diventano malthusiani, e questa è già una prospettiva più interessante – di cui sarà bello scoprire i limiti intrinseci.

Dunque, la popolazione crescerà fino ad un momento in cui l’ambiente non la reggerà più. Nel concreto: la finiremo di crescere quando i neonati ricominceranno a morire di fame o malattie. Non ha molto senso chiedere alla gente di rinunciare all’abbondanza ora per non dovervi rinunciare comunque dopo, no? Inoltre, se la popolazione continua a crescere, quegli sforzi si riveleranno comunque inutili.

E qui arrivano i malthusiani che trovano la soluzione perfetta: “e se facessimo meno figli?”

C’è del genio in quest’idea. Fare dodici figli non è una necessità per nessuno oggigiorno, né un desiderio. È preferibile averne due o tre, addirittura uno solo. Ora, se la popolazione smetterà di crescere o addirittura diminuirà perché facciamo meno figli, noi avremo trovato il modo di mantenere in eterno la prosperità: la nostra “dieta demografica”. Per far ciò basterebbe che ci mantenessimo sul tasso di sostituzione di 2 figli per donna: se ogni donna fa due figli la popolazione non cresce. In realtà, però, la vita media si allunga, quindi anche con due figli per donna in media la popolazione crescerà. Bisogna scendere sotto il tasso di sostituzione. Ma anche quello è perfettamente fattibile e ci stiamo già arrivando.

Quindi abbiamo la soluzione: un po’ di Malthus, facciamo meno figli, poi un po’ di Greta, andiamo di meno in aereo… e vivremo per sempre nell’abbondanza.

Be’… forse.

In realtà la vita ha un carattere ciclico, è nella sua struttura base: nascita, crescita, riproduzione e morte. Un sistema in equilibrio. Noi vogliamo andare a sopprimerne una parte: vogliamo bloccare le nascite. In sostanza, stiamo andando a mettere un tappo al flusso. Al contempo, però la vita media continua ad allungarsi. Supponendo che le dimensioni della popolazione rimangano sempre le stesse, il tappo alle nascite ridurrà via via la percentuale dei giovani e causerà un accumulo di anziani.

E non è bello tutto ciò? Dopotutto, cos’è l’anzianità se non il più grande lusso che l’umanità si concede? Il gatto che non si può riprodurre e che non ci vede più abbastanza bene da catturare prede muore. L’umano invece lo facciamo sopravvivere, lo manterranno coloro che invece sono ancora abbastanza in forze. Ciò è reso possibile dalla medicina, ma c’è anche un patto intergenerazionale a garanzia di questo meccanismo. Purtroppo, questo patto si basa sulla natura ciclica del processo: ci saranno sempre un tot di giovani che possano mantenere gli anziani, e di solito i giovani sono più numerosi degli anziani. È un modello basato sulla crescita, funziona finché la popolazione cresce. E noi, in un modo o nell’altro, vogliamo bloccare la crescita; il fatto che la blocchiamo ad uno stadio solo non serve a niente se poi da un altro lato la crescita continua uguale a prima. Anzi, la situazione rischia perfino di peggiorare: i giovani presto o tardi non potranno più mantenere gli anziani.

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L’enfasi qui deve essere posta su una comprensione fondamentale del fenomeno della vita in generale e dell’esistenza umana in particolare. Di nuovo: nascita, crescita, riproduzione e morte. Il ciclo funziona perché ci sono tutte e devono essere in equilibrio.

Fare meno figli sembrerebbe in sé una buona idea, ma andrebbe aggiustata in qualche maniera, e sappiamo tutti cos’è che riequilibra questo sistema: si tratta della fase successiva-precedente del ciclo, la morte.

Se vogliamo fare una rigida dieta demografica che ci permette di mantenerci in salute senza abbuffarci troppo di risorse esaurendole, non basta fare meno figli: occorre anche morire un po’ di più.

Ma mentre l’idea di non fare figli, e quindi di suicidarsi demograficamente, è sorprendentemente accettabile per le persone, nonostante conduca di fatto alla morte della civiltà e sia a tutti gli effetti anti-vitale, quella magari di non insistere a prolungare a tutti i costi le vite fino a 150 anni è molto meno digeribile. Non si riesce a vedere in questa tendenza psicologica altro che l’effetto di un estremo egoismo ed egocentrismo generalizzato, per cui è concepibile la morte della società, che sopraggiunge se non si fanno figli, ma non è concepibile la mia che sopraggiunge perché ho 97 anni.

E qui il COVID-19 ci ha aiutato a capire delle cose in più. In particolare, ci ha aiutato a capire quanto cazzo è corta questa coperta demografica che tiriamo da tutti i lati e da cui dipende la sopravvivenza della civiltà.

Si è presentata una nuova malattia che per le sue caratteristiche epidemiologiche è sostanzialmente una piaga per gli anziani. Governo e media si sono dati con tutte le proprie energie a enfatizzare gli sparuti casi di under 40 che ne sono morti, ma il fatto irriducibile è che anche all’apice della crisi la media dell’età dei decessi è stata 80 anni. Tant’è che una delle ragioni per cui ne sono stati colpiti tanto severamente Europa e USA è l’elevata età media. Che sfortuna, che viviamo così tanto! Siamo piagati dalla nostra longevità. Se solo avessimo meno benessere, non avremmo il COVID-19!

Ovviamente c’erano vari modi di affrontare questo problema, e qui c’era da porsi una domanda interessante dal punto di vista psicologico e filosofico. È arrivata una catastrofe naturale che colpisce specificamente gli anziani. È una catastrofe naturale, non è che l’abbiamo creata noi, è semplicemente arrivata. E siamo una società che inizia a soffrire pesantemente degli squilibri causati dalla propria stessa opulenza. Uno di questi squilibri è, banalmente, il fatto che si viva decisamente troppo a lungo.

Ora, ogni catastrofe è una catastrofe e catastrofe va chiamata, nessuno le mette il tappeto rosso davanti. Ed è ovvio che si dovesse fare qualcosa per limitare i danni, questo non è in discussione.

La questione però è… quanto? Perché dopotutto questo sistema biologico, il coronavirus, ha caratteristiche che dal punto di vista ecosistemico lo rendono quasi necessario: la vita che si accorcia un po’ per cause naturali. Nell’ottica del funzionamento del sistema umanità, un evento di questo tipo sta tutto in un equilibrio naturale e perfino sano: accorciando la vita di pochi anni si consuma tutti di meno, il sistema pensionistico si alleggerisce, ci sono più risorse per tutti, la percentuale di popolazione attiva aumenta.

Attenzione, qui non sto dicendo che sia una cosa “bella”. Dopotutto, forse che la morte è una cosa bella, cui tutti andiamo incontro con danze e canti? No, la morte è una tragedia. Ma è al contempo una forza di equilibrio, un necessario sistema regolatore della vita, ne abbiamo bisogno. E qui non si è parlato di fare stermini sistematici di anziani come nelle distopie di fantascienza, non stiamo parlando di una crudele e sistematica azione umana. Stiamo parlando di una catastrofe naturale e di come gestirla.

Ora, nel momento in cui si doveva fronteggiare questo evento così estremo ma al contempo così “sano” rispetto alla situazione attuale, cosa si è deciso di fare? Qualcosa, ovvio; naturale che si sarebbe fatto “qualcosa”… ma fino a che punto ci si poteva spingere? Quanto eravamo disposti a fare per combattere questo meccanismo?

La risposta è stata una, unanime e semplice: TUTTO.

Ogni cosa che rientrasse nell’immaginazione umana doveva essere fatta per impedire che questo specifico meccanismo regolativo facesse ciò per cui esiste, i.e., accorciare le vite. Si sono sacrificate la libertà, l’economia, la socialità, la salute mentale… quando è arrivato il momento di decidere quale spazio lasciare ad un meccanismo naturale di regolazione della vita, la risposta è stata: NESSUNO.

Per contro, nessuno ha mai parlato di favorirlo, non si è mai parlato di spargerlo… Magari si è ventilata l’idea di avere verso di esso dei margini di tolleranza. Ma la risposta non è cambiata: margini ZERO, tolleranza ZERO, siamo disposti a fare TUTTO.

Quindi se ci chiediamo cosa è disposta a fare l’umanità per affrontare i problemi strutturali che minacciano la prosperità in cui vive, ora sappiamo che non è in grado nemmeno di muoversi in termini di “inazione”. Non solo non è disposta a ridurre attivamente la propria crescita, ma non è disposta nemmeno a lasciare che un meccanismo naturale di regolazione delle popolazioni abbia dei margini, ancorché ridotti, di azione per farlo lui.

Purtroppo per iniziare a pensare ad una decrescita da qualche parte qualche rinuncia va fatta, e non parliamo di cazzate tipo mangiare meno carne… parliamo di meno vite che appesantiscono il sistema. Qualche parte questa coperta non riesce a coprirla.

Dunque, questa società vuole conservare la propria prosperità, non è disposta a rinunciare al benessere materiale, e non è disposta neanche a tollerare che minime alterazioni possano sopraggiungere attraverso cause esterne a riassestarne la demografia in senso decrementale. Insomma, non è capace di nessuna decrescita di nessun tipo. Vuole crescere, crescere, e crescere: consumare sempre di più, bruciare sempre di più, vivere sempre di più, e niente su questo o altri mondi potrà anche solo permettersi di rallentare questa corsa. Se proprio, è disposta a fare meno figli, che di tutte le cose che poteva fare è quella meno efficace e nel lungo termine può perfino aggravare le cose.

Ecco quant’è corta la coperta di Malthus. Ecco quanto è fallimentare l’ideologia ecologista. Per quanto furbi noi umani riteniamo di essere, non possiamo eludere le trappole della nostra stessa natura. No, non ci metteremo MAI a dieta demografica. Non decideremo MAI di produrre e consumare di meno.

Noi consumeremo tutto fino quando non lo avremo finito, e poi moriremo di fame. E vivremo sempre più a lungo fino a quando la società non potrà più sostenere il sistema sanitario e pensionistico e moriremo per quello.

Non c’è nessuna soluzione dolce, nessun compromesso moderato, nessuna decrescita felice.

Ci sarà solo una decrescita molto, molto infelice.





“Tutto è politica”, o della pesantezza.

15 08 2020

Quanti di voi conoscono Anita Sarkeesian?

Credo tutti coloro che siano familiari con la politica statunitense e siano assidui frequentatori di Youtube. Anita Sarkeesian è una youtuber femminista che rientra in quello che alcuni chiamano ‘leftube’, un gruppo informalmente definito di youtuber che si identificano come progressisti e pubblicano contenuti di area progressista. Anita Sarkeesian, in particolare, è una teorica femminista che si occupa molto di media, diventata famosa soprattutto per una serie di video sulla rappresentazione della donna nei videogiochi, nella quale individua tropi sessisti in vari videogame e ne critica la rappresentazione femminile.

È anche una specie di Laura Boldrini anglosassone, ovverosia il personaggio più odiato e attaccato in tutti i modi possibili dalla destra.

Di primo acchito, questo accanimento pazzesco, di una violenza incredibile ed inaccettabile, è difficile a spiegarsi. In genere, quando uno viene molto attaccato, lo attribuisce all’essere un personaggio incredibilmente scomodo e rivoluzionario: vedi i vari Povia e Fusaro, che si ritengono attaccati perché così rivoluzionari e disturbanti. Non è quasi mai quella la vera ragione, e anzi più spesso è perché effettivamente dicono delle stronzate.

Ma anche se accettassimo questo criterio e volessimo applicare questo metro ad altri youtuber del leftube, scopriremmo che ce ne sono di più ‘scomodi’ di Anita, sia che trattano altri argomenti, come per esempio Natalie Wynn, e sia che trattano i suoi stessi argomenti o molto simili, come Lindsay Ellis; l’efficacia di Wynn ed Ellis è indiscutibile, la prima addirittura è stata spesso ripresa dai media come ‘la youtuber che de-radicalizza i giovani di destra’, una specie di spina nel fianco irriducibile per la destra, insomma. Perché la destra non dedica lo stesso livello di attenzione e odio a Natalie Wynn, ben più ‘pericolosa’ per loro di Anita Sarkeesian e dei suoi videogame?

La ragione è semplice: Natalie Wynn e Lindsay Ellis non commettono gli stessi errori di Anita.

Perché qui spiegherò che Anita Sarkeesian ha in effetti commesso ovvi errori che hanno avuto un ovvio effetto sulla sua figura: da un lato l’hanno resa particolarmente odiata, ma dall’altro l’hanno anche resa un bersaglio facilissimo per gli attacchi della destra. Cocktail esplosivo.

Questo esercizio sarà irritante per alcuni, perché ci obbligherà a immedesimarci nell’uomo di destra, o se preferiamo nell’uomo non-di-sinistra, per comprenderlo meglio. Il rischio quando si comprende qualcuno è di diventare comprensivi, di scoprire che magari non ha ‘ragione’, però comunque ha ‘delle ragioni’. Raccapricciante, eh? Ma secondo me non è così grave. Si può dissentire con qualcuno anche comprendendone le ragioni, e a volte sono valide.

Dunque, per capire cosa irrita tanto della Sarkeesian dobbiamo guardare di che temi tratta, come li tratta e con che toni. Il tema è il sessismo nei videogiochi. Il mezzo di comunicazione sono videosaggi su YouTube. Il tono è in parte accademico, ma è anche estremamente polemico, politico, molto serio e serioso.

Questo è il cocktail esplosivo.

Cominciamo dall’oggetto, i videogiochi. Cosa sono i videogiochi? A cosa servono? Per chi e per che funzione sono stati creati?

Risposta facilissima: i videogiochi sono un gioco, ovvero una simulazione di scenari e situazioni che produca svago e leggerezza. In sé stessi, sono una cosa del tutto innocente. Ho avuto una giornata dura al lavoro, qualche screzio col capo, ho dovuto pagare le tasse, che giornata di merda… lasciami staccare un po’ la mente con un videogioco: mi stravacco, joystick in mano, il mio momento. Il mio momento sacro.

Il videogioco nella sua essenza è un semplice passatempo innocente attraverso il quale il giocatore vive una piccola fantasia ed utilizza il cervello in modo divertente. Il videogame in sé non nuoce a nessuno, neppure quando rappresenta atti di violenza estrema, perché è tutto confinato nella dimensione ludica e simulata. Certo, periodicamente viene fuori il Trump di turno che dice che la sparatoria è colpa del videogioco, ma chiaramente non è vero, sono solo rompicoglioni moralisti. Il videogioco è solo un gioco: un passatempo innocente che garantisce un momento di leggerezza.

Certo, può essere che questa fantasia, in sé, non sia considerabile ‘innocente’. Cioè, una fantasia di stupro è una fantasia che si può trovare discutibile, così come una fantasia di omicidio… ma anche così, l’essenza del videogioco è di fantasia innocente che non vuole sfociare in nessuna attuazione. Il videogioco resta, nella sua essenza, un momento di svago e di leggerezza. E i momenti di svago e di leggerezza sono importanti, anzi, fondamentali, per tutti. Sacri, oserei dire.

Se non che, mentre uno sta giocando tranquillo tranquillo a fare il principe muscoloso che salva la principessa indifesa, gli arriva Anita Sarkeesian a profanare il tempio e fa: “COSA STATE FANDO, STIRPE DEGENERESCIÒN?! (cit.)” e inizia a dissezionare quel passatempo, quella fantasia, e manco a dirlo, lo trova pieno zeppo di peccati, di oscurità, di perdizione. E allora con la matitina rossa evidenzia tutto, ma tutto-tutto, al punto che è quasi inevitabile che il povero videogiocatore, che voleva solo divertirsi, inizi a sentirsi messo sotto processo, e conseguentemente si incazzi.

Ecco qua: siamo già al nucleo della questione. Anita Sarkeesian si mette nel ruolo della moralista rompiballe, che prende un tuo divertimento innocente e inizia a usarlo per metterti sotto processo. È forse il ruolo più odioso che esista. Se uno ha un attimo di onestà intellettuale, capisce subito che basterebbe quello a farla odiare.

Anita Sarkeesian. Se avete voglia di una serata in cui si beva poco, mettete un suo video e fate un gioco in cui si beve ogni volta che fa un sorriso.

Ora, alcuni diranno che tutto ciò non conta, perché le critiche di Anita sono corrette. E qui occorre dire che, sì, in molti casi – non tutti – lo sono, corrette. Dopotutto, i videogiochi sono tradizionalmente considerati un passatempo prettamente maschile, quindi la loro offerta cercherà di sedurre la mente maschile, e quindi sì, ha ragione Anita: spesso sono ‘male fantasies’, fantasie di potere maschili all’interno delle quali la donna passa in secondo piano (è il premio per l’eroe, la donzella da salvare, il personaggio ausiliario etc).

Tutto vero.
Ma non è quello il punto, perché la funzione del videogioco non è quella di dare una rappresentazione politica della donna, e nemmeno di degradarla di proposito. I videogiochi sono giochi, passatempi innocenti, momenti di leggerezza; per carità, possono pure contenere una rappresentazione della donna non particolarmente progressista, ma questo non significa che chi li usa sia una brutta persona per questo, o che sia maschilista. Se io uso il tropo della principessa indifesa per divertirmi questo non fa di me un sessista, ovviamente.

Inoltre, in generale, molte critiche sollevate riguardano l’abuso di certi tropi o certi schemi che in sé non sono sbagliati, ma derivano la propria problematicità dall’abuso, dal contesto più ampio in cui sono inseriti… insomma da una serie di questioni così ampie da risultare impalpabili. Mi si vuol dire, per esempio, che ogni singola principessa in pericolo salvata da un uomo è un’idea sessista? Le donne non possono essere in pericolo ed essere salvate dagli uomini? Ovvio che possono; nessuno, nemmeno Anita, negherebbe questo. Il problema semmai è l’abuso di quello schema, la sua ripetizione infinita che lo trasforma in stereotipo, il fatto che l’inverso – uomo salvato da donna – capiti molto di meno, eccetera. Ma d’altro canto, se il problema è un pattern generale nell’uso del tropo, andare ad accusare ogni singola applicazione del tropo di essere sessista è un’accusa naturalmente vaga, impossibile da provare e facile da respingere.

Ok, mettiamo che io ho scritto una storia in cui c’è una principessa in pericolo: puoi accusarmi di sessismo, se vuoi… ma su cosa si fonda, questa accusa? La principessa in pericolo non è sessista in sé, lo è solo in un vago, ampissimo contesto, intesa dentro un trend mediatico. In sé, tanto la produzione quanto la fruizione di quella narrazione non può essere credibilmente definita sessista, e io potrò sempre difendermi dicendo che “è solo una storia”, un passatempo innocente, e sei solo tu a darne lettura sessista. E checché ne dicano i simpatizzanti di Anita, sarebbe una difesa validissima: puoi dare una lettura politica della questione, ma di per sé questa non è una questione politica, perché la politica non è innocente, non è un passatempo, non è priva di conseguenze… Non è un gioco. E i videogiochi, invece, sì.

La politica, difatti, è PESANTE. La politica è quella cosa che annoia morte i bambini. E quando giochiamo, non stiamo invece cercando proprio di fare un po’ i bambini in santa pace? Non vogliamo assolutamente vedere politica nei videogiochi, di suo, se non al massimo inserita sottilmente come una pillola amara in un cucchiaino di zucchero. Se ce n’è, non vogliamo manco accorgercene.

Ed ecco Anita che invece ci infila la politica, e lo fa in modo esplicito e diretto e anche polemico.

Ma che rottura di cazzo.

È PESANTE.

Ma ecco che altri arriveranno altri a puntualizzare pure loro: “ma certo, nei videogiochi c’è la politica! La politica è ovunque! Tutto è politica!”

Poveri noi! Non potremo mai, un attimo della nostra intera esistenza, sfuggire al cacamento di cazzo di pensare al faccione di Salvini o alla ‘s’ di Zingaretti?! Per favore uccidetemi ora, risparmiatemi la sofferenza!

Ragazzi, principio aristotelico: più una definizione è ampia, e più è vaga. Se dici che ‘tutto è politica’ tu hai svuotato la parola ‘politica’ di ogni significato, non sei più manco in grado di dire cosa sia la politica, visto che non sai dire cosa non sia. Certo in un certo senso molto, mooolto lato, così lato da essere inutile, tutto è politica, e ogni nostro gesto ha un sia pur lieve peso politico. Ok, indubbiamente la rappresentazione della donna nei videogiochi ha un peso politico in senso lato, e non si può negare che se in ogni cazzo di videogioco che esiste la donna è rappresentata come donzella in pericolo chiaramente ciò riflette un attitudine generale verso la donna, e potrebbe essere una forma di rinforzo, sottile, impalpabile, di quel tipo di attitudine. In senso dunque molto vago, molto complesso e molto leggero, abbiamo un tema politico. Ma questo non basta a fare di questo discorso un tema politico in senso stretto. Stiamo sempre parlando di giocattoli, alla fine, rilassiamoci un po’, ogni tanto.

In generale esistono questioni strettamente politiche, che concernono la gestione dello stato, le leggi e la società civile, e poi ci sono questioni che non sono strettamente politiche. Anche queste ultime avranno un sottile sotto-testo politico, ma da qui a dire che sono propriamente, a tutti gli effetti, temi politici, e che vadano trattati come tali, ce ne passa.

No, non tutto è politica, e no, i videogiochi non sono un tema politico; certo possono essere un tema che in qualche modo è influenzato dalla politica, questo sì… Ma ciò non basta a mettere sul banco degli imputati centinaia di produttori di videogame e milioni di videogiocatori e dire/suggerire che siano sottilmente sessisti e animati da chissà quale malizia.

E forse non è questo ciò che Anita intende, mi si dirà. Forse Anita non vuole dire che ci sia un crimine, un peccato intrinseco in questi mezzi; forse non vuole dire che ci sia qualcosa di sbagliato a goderseli in leggerezza, forse non vuole mettere sotto accusa tutti i gamer maschi della terra. Forse vuole solo serenamente invitare alla riflessione su un certo tema. In effetti, a parole, lei dichiara esattamente di voler fare quello…

Ma i fatti vincono sulle parole. Se l’intento non è quello del moralista che fa il predicozzo, perché usare il format del moralista che fa il predicozzo? Perché quel mezzo? E perché quei toni polemici?

Poteva scrivere un articolo su un giornale di sociologia, invece che dare in pasto tutto alle belve di YouTube. Oppure poteva semplicemente essere più leggera, simpatica e meno ‘aggressiva’. Io non dico che di sessismo nei videogiochi non se ne debba parlare, ma magari non è il caso di presentarla come un’epica battaglia del bene contro il male e parlarne come un telepredicatore parla dei gay. L’idea non dovrebbe essere cercare gravissime colpe nei videogame, semmai riflettere su come anche in un passatempo innocente possano passare dei messaggi problematici, cui è opportuno prestare attenzione. È diverso da ciò che fa la Sarkeesian, è diverso da quella sorta di inquisizione videoludica.

In questo senso il confronto con Natalie Wynn e Lindsay Ellis è particolarmente impietoso. Natalie Wynn più che di media parla di politica tosta, fa video spesso lunghi più di un’ora su temi molto pesanti… eppure fa anche molto ridere, è ironica ed autoironica. E invece la Sarkeesian, che sta parlando di videogiochi, riesce solo ad usare quel tono da predicatore? Mai una cazzo di battuta, mai un sorriso, come stesse parlando della pandemia di coronavirus? Lindsay Ellis parla di solito di cinema, e molti dei suoi video sono di una pesantezza politica impressionante nei contenuti, oltre che a modo loro anche aggressivi: ha pubblicato, per esempio, una serie di video sul cinema di Michael Bay in cui ne ha dissezionato il maschilismo impietosamente. Oserei dire che ha distrutto Michael Bay e il suo cinema come pochi altri. Ma anche qui: l’ironia è dappertutto, e comunque l’inquadramento dei suoi video non è “adesso vi spiego il maschilismo di Michael Bay”; quei video sono presentati come semplici analisi del suo cinema, sono tecnicamente impeccabili, appassionanti, e solo quando li vedi scopri una cosa che forse non avevi notato prima: che Michael Bay è un cazzo di maschilista tossico impressionante, oltre che un regista di merda. A Lindsay Ellis non serve fare il predicozzo perché il messaggio arrivi. Tratta un tema abbastanza leggero, il cinema, con un approccio molto politico ma che rispecchia quella fondamentale leggerezza. Nei toni, Natalie Wynn addirittura riesce ad invertire il metodo di Anita: prende un tema pesante e lo alleggerisce, senza nulla togliere alla serietà del contenuto.

Anita Sarkeesian, dal canto suo, prende un tema leggero e non particolarmente rilevante per la società e lo appesantisce all’inverosimile con tonnellate di politica. Ma la politica è come un spezia molto forte: può insaporire un piatto, ma se copre tutto il resto è difficile che sarà ingoiata. Specie quando uno aveva ordinato un piatto in cui normalmente non ce n’è.

L’approccio di Wynn ed Ellis ottiene, chiaramente, tutta una serie di risultati che Anita col suo non può ottenere (e ottiene, anzi, l’opposto): accattivare lo spettatore, non farlo mai sentire sotto processo, e soprattutto farlo spesso ridere. In sostanza gli dà LEGGEREZZA.

Non ultimo, la leggerezza disarma anche i critici, perché l’autoironia è uno scudo molto potente contro le aggressioni verbali; Anita quando deve difendersi può solo indignarsi e dipingersi come vittima, ed è abbastanza evidente che si tratti di un atteggiamento che non scoraggia nessuno dall’attaccarla.

Certo, se l’idea è che un buon video ‘politico’ sia un video che fa incazzare un sacco di gente e ti trasforma in una delle persone più odiate del web, suppongo che Anita Sarkeesian sia un genio impareggiabile della politica. Io credo però che la comunicazione efficace non sia provocazione gratuita, e che debba essere capace innanzitutto di far passare il messaggio a tutti; e se non vogliamo esagerare e dire che deve convertire anche i nemici, dovrebbe almeno riuscire ad accattivarsi gli indecisi. Invece, un appassionato di videogiochi che non sia già politicamente schierato in modo favorevole si sentirà subito accusato da Anita, sarà sulla difensiva… potenzialmente, insomma, Anita si sta creando un nemico. Regola numero una della comunicazione persuasiva: mai mettere l’interlocutore sulla difensiva. Puoi essere aggressivo in quello che dici, ma NON contro colui che vuoi convincere, o non lo convincerai mai.

Il problema è che per molti quel modo di fare lì è invece un modello. Di questi tempi l’ho riscontrato molto proprio verso la mia persona. È risaputo, credo, che io non sono strettamente di sinistra, sono più un centrista, e ci sono tutta una serie di battaglie ‘di sinistra’ che non condivido. Per esempio, ho scritto a lungo sulla questione dell’abbattimento di statue storiche, e sono intervenuto abbondantemente sulla questione del presunto sessismo nella lingua italiana.Non voglio certo tornare qui su questi argomenti; mi preme però sottolineare che sono questioni, nel concreto, molto marginali. Il problema razziale in USA non sono le statue: sono la povertà, la violenza sistemica, il pregiudizio diffuso etc. Il problema del sessismo in Italia non è dire ‘il sindaco Raggi’ invece de ‘la sindaca Raggi’: è il problema dell’obiezione di coscienza all’aborto, dei congedi di maternità e paternità, etc.

Ammettiamo pure che su queste questioni, statue, grammatica, io mi sbagli – e non mi sbaglio. Anche così, si tratta di temi sostanzialmente leggeri, e leggera e conciliante dovrebbe essere la discussione a riguardo. È ridicolo che mi si dia di razzista perché sono contrario ad abbattere statue ultracentenarie, e di maschilista perché trovo una certa forma linguistica più elegante e filosoficamente più propria. Queste sono questioni che hanno sicuramente una dose di politica, ma prevalentemente riguardano altro. La storia delle statue riguardo il rapporto personale con la storia, il modo in cui si elabora il passato, e anche la nostra relazione con l’espressione artistica e architettonica; non deve avere per forza avere a che fare col razzismo, e nella maggior parte dei casi non ne ha affatto.

Ma niente: carichiamolo di politica fino a scoppiare. Ancora più ridicolo il discorso sulla grammatica, che anche se volessimo ammettere risenta del sessismo, rappresenterebbe al più una lontanissima conseguenza di un sistema sessista, e non certo una causa o un fattore adiuvante.

Altro esempio interessante sono state le ‘gaffe’ fatte da George RR Martin alla presentazione degli Hugo Awards; se volete studiarvi meglio la vicenda potete googlarla, ma in estrema sintesi l’accusa rivolta allo scrittore è stata di non aver messo abbastanza politica nei propri discorsi, e di aver nominato certi autori – mostri sacri della letteratura di genere, come Lovecraft e Campbell – senza far menzione del loro razzismo. Si dà il caso, però, che si stesse solo parlando di narrativa di fantascienza, e il loro razzismo non fosse in questo senso minimamente rilevante: quello è solo intrattenimento, non è politica. Sì, certo, ‘tutto è politica’, in senso lato, ma no, non tutto è politica in senso proprio, e la narrativa di fantascienza non è un fatto politico. Non finché non lo si faccia diventare politico di proposito, e dunque conflittuale, e dunque caldo, e dunque terreno di battaglie, e dunque ci si è fottuti la possibilità di fare simpatia e magari persuadere qualcuno.

Oh, perdonatemi tanto, io onestamente vorrei poter passare qualche momento della mia infelice esistenza SENZA PENSARE ALLA POLITICA. Qualche momento in cui posso svagarmi senza dover pensare a tasse, sanità, istruzione, migranti, condizione della donna, l’omofobia, come stanno i polli negli allevamenti, gli alberi dell’Amazzonia, i gorilla. Sì, tutti problemi più o meno seri, ma non posso pensarci tutto il santo giorno e in qualsiasi momento. Giusto qualche istante isolato di pausa, magari davanti ad un videogioco, o un libro di fantascienza. Mi è concesso?

Molti rispondono ‘no’. “Tutto è politica”.

Mi pare già di risentire Gaber… io direi che il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra, se la cioccolata svizzera è di destra, la nutella è ancora di sinistra”… e soprattutto: “tutti i film che fanno oggi son di destra, se annoiano son di sinistra”. Non credo sia strettamente necessario che tutti i film di sinistra debbano annoiare, però. Non penso sia una necessità tematica. Credo piuttosto che sia uno stile comunicativo tossico scelto di proposito da alcuni comunicatori di sinistra, di cui Anita Sarkeesian è il prototipo.

Ma il problema è che poiché fra i motivi per cui la politica è ‘pesante’ c’è il conflitto continuo al suo interno, dire che ‘tutto è politica’ ci autorizza ad un conflitto continuo, a vedere ovunque nemici. E un nemico, dal punto di vista mentale, non è una minaccia, paradossalmente. Cioè, se io Alberto sono semplicemente un razzista subconscio, allora niente di ciò che dico sulla questione delle statue storiche è meritevole di ascolto da parte di uno di sinistra, che dunque non si deve trovare a mettere in discussione le proprie convinzioni confrontandosi con me. Dopotutto, il mio discorso sulle statue storiche è solo razzismo rielaborato, e questo nonostante io non abbia mai dato alcun segno di razzismo fuori da questo – e la mia collezione di black, gay and jew jokes – e anzi abbia scritto più volte, anche su questo blog, pezzi molto elaborati contro il razzismo. Se anche solo si ammette che forse ho delle buone motivazioni per dire ciò che dico, e che non sono politiche, allora parte il rischio che dicevo sopra: si rischia di diventare comprensivi nei miei confronti. E questo è un esercizio sfibrante per l’ego, un’autentica minaccia esistenziale.

Da qui la narrazione, di gran lunga favorita, per cui si preferisce pensare che chi nega che questi conflitti siano così centrali per l’esistenza e che siano a così alto contenuto politico sia, semplicemente, un avversario politico. E se lo stiamo facendo incazzare tanto… MEGLIO, CAZZO! Cioè, raga’, vuol dire che stiamo proprio facendo un lavoro fenomenale! Forse che un buon discorso politico non deve fare incazzare i nostri nemici politici?!

Magari sì.

Ma non dovrebbe fare incazzare anche gli amici.

Ossequi.





Il Grande Assente

6 07 2020

Voglio tornare ancora una volta sulla questione delle statue abbattute. Giuro, l’ultima. Per commentare questo articolo, che in tanti mi hanno segnalato, e che ho trovato sorprendente.

Perché sorprendente? Be’, l’autrice ci ha messo dell’olio di gomito, e degli argomenti anche interessanti… e tuttavia il risultato è bislacco a dir poco. In teoria vorrebbe rispondere agli argomenti ricorrenti contro l’abbattimento delle statue… e sempre in teoria, lo fa, finendo col definirli “fuffa”. Ma, qui è il fatto sorprendente: le risposte non sono mai una vera demolizione dell’argomento. Al contrario, in tutte quante deve riconoscere che ci sono delle basi valide sotto quel discorso, dovendo per forza concludere in più punti che il discorso iconoclasta comunque è pericoloso e va tenuto sotto controllo…

MA…

Ma per quanto gli argomenti siano validi, non sono validi in questo caso qui; per quanto l’iconoclastia sia pericolosa, non è pericolosa in questo caso qui. In altri casi, magari, che chissà dove staranno mai… ma in quelli attuali? No way! Sin qui è tutto perfetto, impeccabile, proprio.

Questa confidenza non sembra avere spiegazioni razionali, visto che una volta che hai abbattuta una statua vecchia di 125 anni di un uomo morto 300 anni fa perché era razzista, non si vede molto quale possa essere il freno storico o morale a distruggere tutte le statue d’Europa. Men che meno si spiega come faccia ogni volta l’autrice a riconoscere che l’argomento è valido, e poi alla fine dedurre comunque che “in questo caso” è fuffa.

Di certo gioca un ruolo la convinzione, taciuta o palese, che tutti questi argomenti in realtà siano scuse per il razzismo e per il conservatorismo politico. Dopotutto, siamo tutti razzisti, no? Tutto è razzismo! E siamo tutti politicamente parziali, no? Tutto è politica!

… Come dire che niente lo è, nevvero?

Ma c’è una ragione per cui l’autrice di quel pezzo si impantana in questo vicolo cieco retorico e non può uscirne. Perché c’è un tema, un argomento specifico, che nel suo scritto manca… e la sua mancanza si sente. Si sente perché dovrebbe esserne il protagonista, ma lei non può mai nominarlo come tale, e allora continua a evocarlo, e toccarlo tangenzialmente, a sfiorarlo… ci si intrattiene sulla soglia, ma senza mai invitarlo a entrare.

E qual è, questo grande assente?

Ovviamente l’argomento centrale nella questione delle statue è la Storia, ma non è lei l’assente di cui parlo. Domanda da un milione di dollari: di che materiale è fatta la Storia umana? Forse di vicende umane?

Ok, sentiamo: se io dico “gli umani si riproducono tramite fecondazione della donna da parte dell’uomo”, questa è un’affermazione storica?

No. È un’affermazione biologica: descrive un dato fisso, un tratto immutabile della natura umana. Certo, alla luce di Darwin possiamo dire che anche i dati biologici hanno una dimensione storica; ma i tempi dell’evoluzione sono così dilatati che possiamo considerare la maggior parte dei dati biologici come “funzionalmente eterni”. Il dato biologico è fisso, non cambia, è sempre e stato e sempre sarà.

Viceversa, se dico “nel 1924 uccisero Matteotti” la situazione è cambiata: questo evento è specifico, si è verificato una volta come conseguenza di una serie di cause antecedenti, ha causato a sua volta altri eventi, e non si riverificherà mai più. Si inserisce in una sequenza direzionata di eventi determinati da legami di causa ed effetto.

Il Tempo.

Don't Hug Me I'm Scared 2: Time (2014)

Il Tempo è il protagonista indiscusso della Storia, la Storia è FATTA di Tempo. È lui il nostro grande assente.

E a sua volta che caratteristiche ha, il tempo?

Non è posto questo per approfondimenti filosofici eccessivi, ma in generale si concorda tutti, oltre che sulla direzionalità del tempo, che è il suo tratto fondamentale, in una sua divisione tripartita in una sfera che non esiste ancora ed fatta di possibilità infinite, il futuro, una di estensione imprecisata che è vissuta nel momento, il presente, e infine una dimensione che è immota, cristallizzata nella memoria ed ormai impossibile da modificare, il passato.

Si concorda anche, in generale, che le tre sfere così distinte debbano essere trattate in modo diverso.

Quasi sempre.

Non negli USA.

Nasce negli USA questa diatriba idiota sulle statue, cosa che non mi sorprende neanche un po’: sono un paese che di Storia innanzitutto ne ha poca, e quella che ha è dannatamente noiosa. Hanno avuto una guerra civile 150 anni fa, dopodiché la guerra l’hanno sempre esportata senza mai trovarsela in casa. A noi può sembrare assurdo che ancora si accapiglino su fatti di un’epoca in cui noi stavamo facendo l’Unità d’Italia, ma si consideri che noi abbiamo avuto in mezzo una dittatura e due guerre mondiali, loro in buona sostanza niente. Oltre a ciò, gli USA sono forse il paese del mondo in cui minor presa ha avuto l’hegelismo, e conseguentemente un paese in cui lo storicismo non ha mai preso piede.

Dunque, gli USA non hanno troppo il senso della suddivisione tripartita fra passato, presente e futuro. Fra 150 anni probabilmente li troveremo ancora infervorati sulla guerra civile esattamente come lo sono oggi.

Noialtri, però, di solito pensiamo che il tempo arrivi, diventi presente per un po’, ed in questa finestra noi combattiamo le nostre battaglie politiche, e dopo un altro po’ passi nella “Storia”, che è fissa lì e va solo studiata e capita. E così il tempo prende tutte le cose umane e le muta fino a renderle irriconoscibili: gli oggetti, le dottrine, le morali, i testi… niente può sfuggire al suo effetto.

Ma la nostra autrice ha deciso che il Tempo non ha effetto… o al massimo ce l’ha solo come dice lei.

Per esempio, il Tempo ha un effetto sulla società, e quindi la visione che ha piazzato la statua sul piedistallo è diventata obsoleta. Quindi, ABBATTEREEEEE!

Quello che sembra sfuggirle, però, è che i simboli e i significanti sono anch’essi soggetti al Tempo. Non è che tutto il mondo è andato avanti e invece il significato di quelle statue è rimasto fermo – donde la necessità di abbatterle per “aggiornamento”.

Io in soggiorno ho una vecchia macchina da cucire Singer. Che cos’è? A cosa serve? A cucire?
Non v’è dubbio alcuno che chi l’ha inventata volesse proprio usarla per cucire. Tutta la sua struttura porta le tracce del progetto originario, e in effetti volendo si potrebbe ancora usarla per cucire, e, certo, ci sarà anche chi la usa per cucire e ci fa dei graziosi video ASMR su youtube. Ma la macchina da cucire che sta nel mio soggiorno non serve a quello, nessuno la usa per quello. È lì per bellezza, fa arredo. E il fascino che ha essa lo ricava dalla sua capacità di evocare il passato, di dare un senso di storia, di permanenza delle cose… Non dal fatto che si usi per cucire, cosa che nessuno fa più.

Di certo la statua di uno schiavista può essere anche vista come una celebrazione della schiavitù. Ma non è una celebrazione della schiavitù, non ha quella proprietà intrinseca, è una cosa che gli viene appiccicata sopra. La nostra autrice fa una lodevole analisi del ruolo che svolgevano i monumenti nella volontà dei loro creatori, e che volendo potrebbero svolgere anche oggi. Potrebbero. Ma non sono affatto obbligati, ed anzi si può senz’altro sostenere che nella maggior parte dei casi non lo fanno, perché… è passato Tempo. Il cazzo di TEMPO. Anche le statue che avevano un significato politico lo perdono, passati un tot di anni. Ah, ma giusto “ogni statua è politica” … yeah, ok. Vuol dire che nessuna lo è. Più realisticamente: alcune statue, costruite da poco, sono politiche; altre, vecchie, non lo sono più. Perché non sono più attuali, perché è passato TEMPO.

Ma niente, non può lei ammettere che il Tempo in questo discorso abbia un ruolo, altrimenti dovrebbe ammettere che questa diatriba è una colossale minchiata. Particolarmente rivelatrici sono le otto-righe-otto che dedica alla questione delle piramidi, irrilevanti perché i faraoni sono tutti morti (corsivo suo). Ah, certo, perché Edward Colston invece è vivo e gioca a golf con Elvis Presley e Robert Lee.

Sì, è vero, sono tutti morti i faraoni. Come sono tutti morti gli schiavisti, e gli schiavi, e i loro nipoti, pronipoti, pro-pronipoti. La statua di Colston fu eretta quasi due secoli dopo la sua morte, e ne è passato un altro prima che decidessimo che era cattivo e andava abbattuta. Duecentonovantanove anni; cazzo, potevano aspettarne un altro, almeno facevano cifra tonda. E non solo: la statua di Colston fu eretta nel 1895; la tratta degli schiavi in UK era stata vietata nel 1807, quasi un secolo prima; e durante quello specifico secolo il Regno Unito fu anche particolarmente attivo contro la tratta, dando carta bianca a navi che si occupassero attivamente di intercettare e sequestrare i vascelli dei mercanti di schiavi (forse gli Inglesi si sarebbero risparmiati lo sforzo, se avessero immaginato che essere stati la prima civiltà della storia a combattere attivamente lo schiavismo sarebbe stato ripagato col rinfacciargli che “alcuni” inglesi fossero schiavisti). La verità è che il tema dello schiavismo in UK era già obsoleto nel 1895. Oggi? Pagliaccesco. Certo, il razzismo non è un tema obsoleto, ma se dobbiamo abbattere tutte le statue di razzisti non resta in piedi manco una cazzo di madonnina agli angoli delle strade.

La verità è molto semplice, non ci vogliono tanti sofismi: nessuno se la prende con le piramidi perché su di esse è passato il TEMPO. E il tempo travolge i significati, riscrive il senso. Ma se si ammette che il tempo cambi i significati, allora ci si deve confrontare anche con la disturbante ovvietà del fatto che nella maggior parte dei casi queste vecchie statue non significano più niente di tutte le nefandezze che sono loro attribuite, neanche in quei casi in cui davvero, in origine, lo significavano. In compenso, il tempo ha fatto acquisire loro il valore di testimonianza storica, nel nome del quale sarebbero da preservare.

Ma il grande assente fa sentire la sua assenza anche altrove, come nel buffo discorso sulla statua di Montanelli. La Sinistra, che mai ha tollerato l’esistenza di un intellettuale di Destra che godesse di un certo prestigio, un paio di decadi dopo la morte di Montanelli si è gettata contro la sua statua, sfruttando l’ondata iconoclasta… Ma la cosa buffa qui è: nessuno degli argomenti “storici” si applica alla statua di Montanelli.  Quella statua è più giovane di me, non esiste un criterio secondo il quale si possa definirla “storica”. Ben venga discuterla nel suo merito di opera celebrativa, dico io, perché non è un pezzo di storia, è un pezzo di attualità: è stata messa lì per celebrare, e lo sta facendo anche oggi. Contrariamente alla statua di Colston.

Quindi sì, sorpresa! Io sono del tutto favorevole ad una discussione sulla statua di Montanelli. E non dovrebbe sorprendere nessuno, visto che io tengo conto del Tempo.

Ma se il tempo non lo tieni in considerazione, allora non potrai cogliere alcuna significativa differenza fra Montanelli, Edward Colston, il generale Lee e Cheope. Venti anni sono diversi da centoventicinque e hanno un impatto diverso sulle cose; diverso è il nostro livello di coinvolgimento, la nostra distanza, la nostra consapevolezza… ma se uno si rifiuta di vederlo allora ieri è uguale a tre secoli fa che è uguale a tre millenni fa.

E su questa scia si deve ovviamente proseguire con le statue dei nazisti, che sono statue sì abbattute… ma subito dopo la caduta del regime, quando ancora erano attuali e avevano un significato ben preciso. Ancora una volta, da questo discorso manca completamente Lui. Ho sentito più volte parlare di “storia viva” per riferirsi a queste “mosse” da ribbbbelli con cui si buttano giù le statue, come se la storia passata e la storia presente potessero essere trattate allo stesso modo. Ma la Storia non è “viva”, è passata; se è viva si chiama “attualità”. Noi consideriamo “storico” ciò che ormai è stato consegnato alla memoria, da cui abbiamo quella distanza necessaria per poterlo comprendere con una certa oggettività. Quella che viviamo oggi sarà storia domani, non oggi. Addirittura, lessi da qualche parte qualcuno dire spregiativamente che la mia visione equivale a vedere la storia come se fosse “una cartolina”… Ma perché, che cosa si vorrebbe che fosse una roba successa trecento anni fa? Il nostro pulsante vissuto quotidiano? È esattamente “una cartolina”: una cosa ferma, lì, di cui noi abbiamo le tracce, che noi guardiamo e studiamo per cercare di comprendere meglio il presente, ma che non abbiamo il potere di modificare. Se no non è Storia, è attualità.

Ma, certo, se il Tempo non è un fattore in gioco, allora non ha neanche troppo senso ripercorrerne in modo ordinato il filo sino ad oggi. E suppongo allora si possa anche mancare di capire in che cosa consista l’esperienza della storia. Rifiutandosi di applicare il principio di carità, e in realtà andando borderline nello strawman, la nostra autrice liquida l’affermazione secondo cui distruggere le statue equivarrebbe a cancellare la storia, perché “la storia sta sui libri e nei musei”. Seriously…? Ma è ovvio che nessuno sostenga che senza la statua di Colston l’informazione su Colston andrà perduta nella polvere dei secoli. Su Wikipedia la trovi ancora la sua storia; finché un dittatore non la farà cancellare in venti secondi, resterà senz’altro registrata su un server da qualche parte. Il punto non è l’informazione sulla storia, è l’esperienza della storia, la connessione del presente con il passato attraverso il vissuto sensoriale. Quando perdiamo una di queste statue perdiamo un’occasione di contatto con la Storia. È questo quello che si intende quando si dice che si “cancella la storia”; sono sicuro che Wikipedia resterà al suo posto anche senza statue, ma avremo perso un oggetto concreto, un segno tangibile. Non ci serve certo che Auschwitz resti in piedi per ricordarci della Shoah, no? E se è per questo, Auschwitz se “celebra” qualcosa celebra proprio la Shoah. Eppure vogliamo tutti che resti in piedi, e gli unici che hanno cercato di abbatterlo sono stati proprio… i nazisti. Ma come mai?

Ma, ancora una volta il problema è che non c’è il fattore Tempo, qui. Ovvero non si riconosce che il tempo conferisca alle cose valore storico, perché si rinnega che il tempo abbia effetto sulle cose. E continuiamo a girare in cerchio su questi argomenti come mosconi senza un’ala.

E in realtà basterebbe proprio gridare che l’imperatore è nudo e il Tempo è una cosa che esiste, per rendere quasi tutto l’articolo… come dire… fuffoso?

Ma ci sono anche un altro paio di cose su cui voglio fare riflessione, e in particolare la nozione un po’ girotondina che una protesta debba per forza dare fastidio (mentre glisserò sulla retorica del white privilege; non ci bastava importare il razzismo stile USA, dobbiamo sorbirci pure l’anti-razzismo stile USA…).

Ora, io capisco che vuoi dare fastidio ai poliziotti, visto il tema della protesta. Non vedo perché devi dare fastidio gratuitamente a me, che non sono razzista.

Lo so, lo so… “siamo tutti razzisti”! Again: vorrebbe dire che non lo è nessuno. Concretamente e realisticamente: nessuno di noi è completamente immune a pregiudizi, ma molti di noi non vivono la propria vita sulla base di idee e principi razzisti e non appoggiano politiche discriminatorie. Dunque, non vedo che gusto particolare ci sia, o che risultato specifico si consegua, a “turbare la mia coscienza”, quando io non sono fra i razzisti. Non mi sentirò razzista solo perché rispetto la storia europea, e abbattere una di quelle statue non salverà nemmeno una vita che sia una, o vi assicuro che lo appoggerei. In compenso ovviamente questa cosa mi ha reso il movimento BLM molto meno simpatico. È un po’ una cifra della Sinistra quella di respingere il più possibile potenziali alleati nel campo dei nemici… ma io non posso accettare che mi si costringa a scegliere fra la solidarietà alla causa antirazzista e il mio apprezzamento per la Storia europea. E se qualcuno proverà a obbligarmi a farlo, sceglierò come io ritengo di fare… ma chi mi sta operando questa violenza parte già un bel po’ svantaggiato.

No, abbattere statue non aiuta nessuno. No, il mio vivere la mia vita in pace non sottrae nessun diritto a nessuno. No, il fatto che uno stia male per la sua condizione non significa che io debba accettare tutto quello che fa come sacrosanto, se no anche gli incel stanno male, come la mettiamo? E infine, se davvero non dovremmo concentrarci tanto su queste statue perché i problemi veri sono altri… Fantastico! Non posso che apprezzare questa forma di benaltrismo reverse (come se non fosse iniziato proprio in seno alla Sinistra Americana, questo discorso ridicolo), e demandare però che sia seguita con coerenza.

Visto che i problemi sono altri – e per me non sono “altri”, sono “altri” ma anche “questi”, anche il nostro rapporto con la storia è un problema – fatemi sentire la frasetta: “hai ragione sulle statue”… no, dai, sto chiedendo troppo… facciamo: “il tuo punto di vista sulle statue è legittimo e rispettabile”, e questa contesa sarà finita all’istante.

Anche perché dopo aver visto uno di sinistra abbandonare un pochino la pretesa di superiorità morale assoluta avrò visto tutto ciò che la vita aveva da offrire, e andrò a suicidarmi in modo spettacolare.

Ossequi.





Per comprendere.

22 06 2020

L’atto del “giudicare” e quello del “comprendere” sono sempre separati e, oserei direi, incompatibili. Lo psicoterapeuta che ascolta le tue confessioni si astiene dal giudicare, per quanto può, perché ciò gli precluderebbe di capire. L’antropologo che studia i costumi di una piccola tribù del Sudamerica probabilmente giudicherebbe quei culti animistici delle stupide superstizioni, ma se lo facesse si precluderebbe di capire quei culti.

Il problema è il libero arbitrio: quando tu sei dentro una situazione la tua prospettiva limitata ti porta ad esercitare la scelta ed il giudizio. È vero, sei soggetto al principio di causa ed effetto, tecnicamente non hai scelta alcuna… ma come un pupazzo mosso dai fili, non puoi certo pretendere di vedere i fili, non puoi vedere le cause del tuo stesso comportamento ed oltrepassarle: puoi soltanto continuare lo spettacolo facendo “come se” i fili non esistessero. Ed è qui che si esercita l’atto del giudizio.

D’altro canto, nel momento in cui tu sia “fuori” dallo spettacolo, comodamente seduto in platea, allora puoi anche vedere i fili… be’, ovviamente, non i tuoi fili, quelli non puoi mai vederli, ma i fili degli altri sì. Inizi a comprendere come funziona quel fenomeno. Ma questo comprendere ti preclude il giudizio, perché da un lato lo rende inutile agli atti pratici – non sei parte dello spettacolo, non puoi intervenire, e a che serve dare giudizi se essi non possono orientare l’azione? – ma dall’altro, in effetti, lo rende anche futile in senso intellettuale: se vedi i fili, allora sai anche che nessuno di quei pupazzi si muove di propria volontà, sono solo marionette. Non vedrai dipanarsi dinanzi a te una serie di scelte e comportamenti da giudicare, ma solo una serie di cause e di effetti da analizzare.

In un certo senso la dimensione della scelta rappresenta un “buco” nella nostra comprensione dei sistemi di causa ed effetto. Quando non riusciamo a spiegare un fenomeno sociale nei termini dei suoi determinanti storici, allora facciamo intervenire il fattore imponderabile: la “scelta”, la spontanea deliberazione dell’individuo. E non è certo sbagliato tout-court parlare di scelta e di responsabilità in questi casi. In effetti, non è mai sbagliato a priori farlo… ma il problema è che giudizio morale e comprensione scientifica di un fenomeno sono mutualmente esclusivi: quanto più interviene l’uno, tanto più si ritira l’altra. Se si vuole farli entrambi si può tentare solo in momenti distinti, ma mai andrebbero mescolati o sovrapposti. Se introduci giudizio morale, allora hai rinunciato alla comprensione scientifica. Non a caso Nietzsche, uno dei più accesi critici del concetto di libero arbitrio, sottolineò come il fine stesso del concetto di libero arbitrio sia permettere di giudicare e punire, due atti che non hanno senso nel momento in cui esso invece sia stato superato.

Ora, il corrente discorso sul giudizio storico su alcune figure (o più che altro sui simboli ad esse associate, che di storico hanno ben poco, e mi riferisco ovviamente al dibattito sui monumenti di ‘razzisti’ che si vuole abbattere) è nato, non a caso, in un paese che di storia praticamente non ne ha – gli USA – e dove tutti vorrebbero essere al tempo stesso attori – pupazzi – sul palcoscenico storico (coinvolti ed attivi) e anche spettatori (superiori, neutrali, dotati di superiore coscienza). Che ovviamente non si può fare, perché il fulcro del ragionamento storico è che tu ad un certo punto raggiunga un livello di estraneità ai fatti e di completezza delle conoscenze tale che il giudizio morale diventa superfluo, inappropriato. Quando vedi la statua dello schiavista non dovresti più vedere una persona che ha fatto delle scelte immorali, o almeno: quell’aspetto dovrebbe diventare del tutto secondario. Dovresti invece vedere innanzitutto un prodotto di quel periodo storico. Giudicarlo non ha più senso, perché ormai sei in una posizione in cui comprendi il fenomeno storico dello schiavismo. Comprendere vs. giudicare.

Mi piace fare l’esempio di Hegel, perché lo odio (lo giudico male). Ecco cosa scriveva sugli africani:

Nella sua unità indistinta, compressa, l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra sé stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all’esistenza individuale. Come già abbiamo detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità. Le relazioni circostanziate dei missionari confermano in pieno la nostra asserzione e sembra che solo il maomettismo sia ancora capace di avvicinare in qualche modo i negri alla cultura.

Be’, molto razzista. Ma veramente tanto. Tuttavia, per quanto io odi Hegel… era davvero una persona così cattiva? Sicuramente c’era gente meno razzista di lui, in giro, ma probabilmente non erano in molti. Hegel avvalora ciò che dice sulla base dei resoconti che riceve dai missionari, i quali a propria volta filtrano le proprie esperienze attraverso la propria cultura e i propri valori, ed evidentemente in quella fase storica vi era in Germania una certa idea ben precisa di cosa fosse la cultura, e di cosa fosse il senso di ‘umanità’. Chiedere ad Hegel di ergersi titanico sopra questa cultura in cui è nato e cresciuto è una grossa, grossa pretesa. Sì, Hegel era razzista… ma probabilmente non aveva tutte queste alternative.

Dunque, dobbiamo perdonarlo? Il passare del tempo forse scagiona, o assolve gli uomini del proprio tempo? Magari no, ma sicuramente fa intervenire la prescrizione: se dichiari dall’alto della tua coscienza sociale (e storica, e qui in USA arrivano le note dolenti) che sei superiore ad una certa epoca passata, allora devi anche astenerti dal giudizio morale; o quanto meno riuscire a tenere separato il momento del giudizio da quello della comprensione. Non dovrebbe importarmi più di tanto dare di razzista ad Hegel, dovrebbe importarmi comprendere come il razzismo di Hegel sia venuto in essere, come quell’epoca storica avesse sviluppato quel fenomeno. In ogni caso, mai e poi mai si può condannare un uomo del passato senza tener conto di come e dove è cresciuto; sarebbe risibile come fare il processo ad una marionetta: se proprio proprio, guardiamo al manovratore.

E infatti qui si arriva alla deriva più temuta: condannare un uomo senza tener conto del contesto storico che l’ha prodotto è stupido quanto processare una marionetta. Ma si può pensare, certo, di condannare il marionettista… ovvero un’intera epoca storica.

Questo è fattibile. Non ha senso che degli americani di oggi si imbarazzino e si sentano coinvolti quando qualcuno gli rivela che fra i loro antenati c’erano degli schiavisti. E lo fanno, perché gli americani hanno una cultura fortemente antistorica e non riescono a guardare al proprio passato con lo sguardo neutro di chi comprende: devono per forza giudicare.

Però ha senso dire che quell’epoca “è stata brutta” in senso morale. Diciamo che il XIX secolo è stata ‘un’epoca brutta’, perché c’era lo schiavismo, il colonialismo eccetera. Questo è senz’altro meno demenziale che prendere un singolo individuo nato e cresciuto nel XIX secolo e dire che era ‘razzista’. Parlare di un’epoca razzista ha più senso: erano tutti razzisti, e dunque tutti persone di merda.

E tuttavia le conseguenze filosofiche di questo approccio sono allarmanti a dir poco, perché un’epoca non ha inizio o fine, e tutte le epoche sono collegate fra di loro, in tal modo che se ne condanni una sarai costretto a condannarle tutte. Se condanni l’800 devi condannare anche il ‘600, ma ovviamente se condanni tutto il ‘600 o tutto l’800 devi condannare anche tutto il sistema di scambi commerciali le navigazioni, le scoperte, le spedizioni per mappare zone del globo inesplorate, la creazione di nuovi canali di comunicazione, nuove tecnologie, nuovi modi di alimentarsi. E dovrai andare anche più indietro, dovrai condannare la scoperta dell’America… e la corona Spagnola, ma anche quella Inglese…. spoiler: questa catena non avrà mai fine. Tutto il nostro mondo si trasformerà ai nostri occhi in ‘un’unica massa dannata’, come diceva Sant’Agostino. Niente di buono è mai stato fatto, perfino lo stesso ideale del progresso sarà falsificato, perché il progresso è un accadimento storico che deve tenere memoria dei passaggi che lo costituiscono, e qui sono tutti rinnegati come ‘errori’.

La Storia sarà allora diventata soltanto un lunghissimo elenco di mostruosità ed errori, una cosa da cancellare e dimenticare il prima possibile, o quanto meno da passare periodicamente in lavanderia per smacchiarla.

Ma questo significa che la Storia come disciplina non avrà più ragion di esistere. Che ciò non preoccupi nessuno è fattore preoccupante in sé.

Ossequi.





Gualtiero Cannarsi e il letteralismo biblico

14 05 2020

 

Che strana accoppiata nel titolo, eh? Che cosa c’entra Gualtiero Cannarsi, colpevole solo di essere il peggior traduttore (adattatore? Boh) di tutta la storia dell’umanità, con quella corrente del protestantesimo che predica il libero esame del testo biblico, ma solo interpretato in maniera letterale?

Gualtiero Cannarsi - Wikipedia

la tua sensualità non ti proteggerà dalle mie critiche!

Per cominciare, hanno in comune che entrambi si fanno portatori della filosofia del linguaggio più scadente che sia possibile concepire. Entrambi ti forzano addosso questa loro filosofia del linguaggio con tutti gli strumenti che possiedono, facendo in modo che sia difficile o impossibile ignorarli. Entrambi sono convinti che la loro via sia quella giusta, così tanto che se a te non piace sei in torto tu, e comunque t’attacchi al cazzo. Entrambi sono simpatici quanto una medusa nei boxer. Ed entrambi sembra che ci toccherà sorbirceli ancora a lungo. Ma soprattutto: nessuno dei due si rende conto di star adottando una specifica, e piuttosto ardita, filosofia del linguaggio, e di startela forzando addosso: entrambi dicono “io non c’entro niente, è il testo che dice questo, sono gli altri che lo travisano…”.

Ma stiamo su Cannarsi, per il momento. Come lavora, esattamente, Cannarsi? Mi direte tutti: “col culo”, e io dirò, sì, certo, lavora male. Dal punto di vista dell’etica professionale siamo sul livello del chirurgo pazzo di Human Centipede. Ma intendo, che principi ispirano il suo lavoro?

Secondo me ci sono due citazioni che ci fanno capire come (s)ragiona Cannarsi.

La prima è quando giustificò l’incomprensibilità delle sue traduzioni con “è pur sempre una lingua straniera” (perdonatemi, non riesco a trovare la fonte, ma mi rimase impresso).

What's your “Low-code face”? - Dominique Fish - Medium

Ehm… No! Il Giapponese è una lingua straniera. La traduzione in Italiano non è più una lingua straniera, è lingua Italiana. E tu sei pagato per tradurre in Italiano, e quindi devi scrivere un bell’Italiano. Se avevo voglia di spremermi le meningi per decifrare un idioma incomprensibile facevo un corso di Giapponese. Invece pago te perché tu traduca. È il tuo lavoro. Pare un pasticcere che, dopo avergli ordinato una meringata alle fragole, ti porti a tavola dei bianchi d’uovo, dello zucchero e delle fragole e ti dica “eh, mica è un piatto facile da fare, ci vuole un po’ di sforzo”… Non fosse che tu sei pagato esattamente per evitarmi lo sforzo.

Ma il passaggio seguente è molto più illuminante:

«[…] credo che la sensazione che i miei adattamenti siano “riconoscibili” derivi dal fatto che spesso altri adattamenti cinetelevisivi di opere straniere sono banalmente “italianizzati”, e non mostrano quindi la loro prima, comune radice culturale di provenienza. […] questa riconoscibilità non è dovuta a un mio stile personale che sovrappongo alle opere altrui e straniere, no, tutto il contrario».

Wow. È così tanto sbagliata questa cosa. Non si sa dove iniziare. E allora, inizierò da lontanissimo. Dagli anni duemila, in cui un giovane Alberto, appena affacciatosi ad internet, frequentava un gruppo di amici in MySpace coi quali intavolava dibattiti, principalmente sul tema della religione.

In quel gruppo vi erano tre fazioni in costante battibecco: atei, integralisti cattolici, e i peggiori di tutti, gli integralisti evangelici. Questi ultimi fornivano un campionario di stupidate che a ripensarci ancora mi viene da tirarmi via i capelli… Comunque, questi ultimi erano letteralisti biblici, ovvero convinti letteralmente dell’infallibilità della Bibbia. Quello che c’è scritto nella Bibbia era tutto vero, punto, e alla lettera. Tutto. Sì, anche le cose palesemente non vere. Per loro non c’era nulla di interpretato, figurativo, allegorico… nono, tutto esattamente com’è scritto. Dice che le cavallette hanno quattro zampe? Sì, hanno quattro zampe. Dice che il mondo ha seimila anni? Ita est.

Il problema, però, è che se vi andate a leggere qualsiasi traduzione della Bibbia, vi troverete cose ovviamente non vere. Come conciliare questo con l’infallibilità?

E qui ci viene in soccorso il professor Valla, noto al web come “il professor Testoh” perché nei suoi video spiegava che nessun errore della Bibbia era in realtà un errore, e lo faceva richiamandosi continuamente al TESTO originale e giustificando gli errori come semplici problemi di traduzione.

Questo trucchetto non funzionava sempre, perché alcune cose che la Bibbia dice o che se ne ricavano, tipo l’età della Terra, o alcuni resoconti storici, sono completamente campati in aria e non si possono giustificare con giochetti filologici. Ma in certi casi in un certo senso la cosa funzionava… In un certo senso. Per esempio: una volta io feci notare che la Bibbia chiama le lepri “ruminanti”, ma le lepri non sono ruminanti. Una delle mie conoscenze evangeliche mi sfidò letteralmente a porre questo problema direttamente a Valla. Non mi conosceva abbastanza e aveva evidentemente scambiato il fatto che io sia un po’ timido e sulle mie con un timore del confronto. Ma se mi sfidi non mi tiro indietro… e allora ho scritto la cosa a Valla. E indovinate: niente paura, aveva la soluzione! Il termine originale, credo ebraico, per “ruminare” voleva dire semplicemente “riportare su” il cibo; e le lepri effettivamente rimangiano le proprie feci per digerirle di nuovo, quindi “riportano su” il cibo.

Meraviglioso. Ok, non c’è dubbio: il redattore del testo sicuramente intendeva quello, e non che le lepri fossero mucche. Un punto per il professor Testo, qua: il TESTO originale non commetteva un errore così grossolano.

Ma c’è un piccino piccino sebbene cruciale dettaglino: il testo originale è scritto in ebraico antico. Non c’è tutta ‘sta gente in giro che sappia l’ebraico. Quindi il professore ritiene che il TESTO sia perfetto, e ammettiamolo pure… ma praticamente nessuno può avere accesso a quella perfezione, perché nessuno lo capisce, quel testo. A noi poveracci plebei che non abbiamo dedicato la vita a studiare Ebraico, Greco ed Aramaico, la perfezione del testo è irrimediabilmente preclusa. Siamo costretti ad affidarci alle traduzioni, e le traduzioni, a occhio e croce, possono arrivare perfino a confondere le lepri con le mucche.

Questo è un problema ovvio: la Bibbia contiene un messaggio che deve appartenere a tutti. Eppure, mi si dice qui, appartiene invece solo ad una ristrettissima minoranza che capisce di lingue antiche. Gli altri? S’attaccano al cazzo.

Certo, si potrebbe sostenere che la verità della Bibbia non sia letterale, e allora questo problema non esiste più. Se non è letterale, allora non ci frega niente se son lepri o conigli o mucche, si mangiano la cacca o le unghie o le lumache à la bourguignonne, perché non è quello il punto. Ma se è letterale, allora la traduzione diventa un problema, un problema grave. Perché la traduzione interpone un filtro fra me e il testo, e quel filtro, dice il professor Valla, è un filtro che deteriora, che inquina, che corrompe, che ci nasconde l’aurea perfezione dell’originale. Il testo originale è perfetto, la traduzione invece è inaffidabile.

La venerazione dei letteralisti per il testo originale presuppone che vi sia in esso un ineffabile qualcosa, che sta nella sequenza stessa dei grafemi e dei fonemi, e che va al di là della nozione di significato. Il testo vive di vita proprio, non è un semplice schema di senso. C’è qualcos’altro.

Ora, ci sono due approcci filosofici sensati e coerenti ad un testo sacro:

Il primo è quello non-letteralista, che allora dirà che il punto non è tanto quello che c’è scritto alla lettera, con che parole esatte è scritto, in che ordine sono messe le parole; quanto il modo in cui esso in ogni epoca, in ogni luogo, in ogni contesto culturale riesce a parlare con le persone, ad interfacciarsi con loro. Costoro cercheranno di tradurre il testo nel modo migliore possibile cercando di renderlo decrittabile dalla lingua/cultura di arrivo, e senza fissarsi troppo su lepri e mucche e quanta cacca mangino a colazione.

Il secondo è quello letteralista stretto, usato dai musulmani. Il testo è perfetto è puro nella sua lingua originale, vi è in esso qualcosa, nella sua composizione specifica, nella sua sonorità, che è quasi magico. Se è così, non si può tradurlo, non si deve tradurlo. I musulmani, come i letteralisti biblici, credono nella perfezione del Corano, ma sono più coerenti e lo ritengono dunque anche intraducibile: esso è stato dettato da Dio in quel modo, con quelle parole, messe in quell’ordine, con quella sintassi; non puoi tradurlo, lo stai già “sporcando” nel tradurlo. Discutibile, ma almeno questi non fanno danni.

Questi sono i due approcci sensati, ho detto. Ma poi ci sono quelli non sensati, per esempio quello dei letteralisti cristiani: dire che il testo originale è perfetto e infallibile, eppure noi dobbiamo accontentarci lo stesso di una traduzione e far finta che sia infallibile pure quella, nonostante chiaramente non lo sia. Io non lo conosco l’Ebraico, dunque mi si chiede di aver fede non tanto nella Bibbia, che è perfetta, ma nella traduzione di Valla. Be’, magari posso credere nella Bibbia ma non voler affidare la mia vita a Valla, eh?

Non penso sia un problema tornare a Cannarsi, ora, vero? La connessione mi pare chiara: Cannarsi è chiaramente un letteralista cristiano applicato agli anime (sono orgoglioso di essere riuscito a mettere tanto disagggio in una sola frase). Egli è religiosamente convinto che nella lingua Giapponese vi sia di più che uno schema di significato, un rimando delle parole alle cose e delle parole ad altre parole. Nel testo giapponese vi è, sembra credere, il Giappone stesso. L’anime è giapponese, e tradurlo in Italiano è già di suo una porcheria, una cosa zozza, vergognosa, sacrilega. “Italianizzare”… BLEAH! CACCHI CACCHIIII SCHIFOOO!

Il primo problema in ciò è che, esattamente come Valla, ha torto proprio nel suo approccio. Nel senso, ogni lingua è espressione di una cultura, per cui l’atto della traduzione naturalmente altera, come dice il poeta vate, “la loro prima, comune radice culturale di provenienza”. Ma qualsiasi testo deve passare attraverso un passo intermedio interpretativo; l’atto stesso del leggere è un atto interpretativo. Se io imparassi il Giapponese, così da poter finalmente essere iniziato alla sapienza segreta degli anime dello Studio Ghibli, non sarei mica per questo diventato giapponese: sarei comunque solo un italiano che ha imparato il Giapponese, come Cannarsi; e come Cannarsi anche io, leggendo il testo originale, andrei a sovrapporre ad esso le mie categorie culturali ed anche personali, che sono quelle di un italiano. E d’altro canto, non sono forse questo, gli adattamenti di Cannarsi, ovvero una lingua inventata da Cannarsi? Quello non è una resa fedele del Giapponese, ovvero “il modo in cui suona il Giapponese ad un giapponese”, ma semplicemente “il modo in cui suona il Giapponese ad un italiano”: strambo, alieno, contorto, a tratti semplicemente sbagliato. A meno di pensare che il Giapponese sia una lingua innatamente aliena, stramba, contorta e perfino sbagliata, quello che ci sta passando non è “il Giapponese”, bensì “il Giapponese come appare a Cannarsi”… ovvero come appare ad un Italiano che, ad occhio e croce, avrebbe voluto nascere giapponese, e allora cerca di imitare i giapponesi, ovviamente fallendo e sembrando ancora più provinciale.

Non sorprende che nel mondo di Valla e Cannarsi i soggetti che vengono dipinti come più mostruosi siano i traduttori. Il loro ruolo è esattamente quello di rendere un testo proveniente da un’altra cultura ed espresso in un’altra lingua decrittabile dall’italiano contemporaneo. Il lavoro del traduttore è fondamentale, perché prende un testo inaccessibile a molti e lo rende accessibile. Eppure, nel mondo di Valla e Cannarsi, i traduttori paiono una setta segreta, una cricca di criminali ed imbroglioni senza scrupoli dediti all’offuscamento della Verità e alla corruzione del testo.  Dietro traduzioni in Italiano italianizzate (ragazzi, scoop del giorno: le traduzioni in Italiano sono italianizzate; PLOT TWIST) il satanico traduttore obnubila la perfezione dell’originale. D’altro canto, se il testo è perfetto solo nell’originale, e ogni traduzione è una corruzione, bisogna tradurre il meno possibile.

Questo è un problema naturale che sorge laddove si affermi che il “testo puro” è quello perfetto cui dobbiamo riferirci: che non esiste un “testo puro”, il testo viene filtrato all’atto stesso dell’intendere. Intendere vuol dire interpretare; Valla e Cannarsi non interpretano meno degli altri, non sono semplici messaggeri investiti dal testo, dei fili conduttori vuoti: sono filtri, contenitori che danno forma al contenuto. Perché nel testo originale potrà pure essere contenuto il Giappone stesso (e non è così), ma alla fine passa sempre attraverso gli occhi e il cervello degli italiani, che lo leggeranno come lo legge un Italiano. E non può essere altrimenti, perché c’è sempre un medium fra l’intento autoriale e la ricezione del pubblico, essa non è mai “pura”.

Certo, anche i musulmani credono che il testo puro sia perfetto, ma almeno loro ci mettono in gioco il prodigioso, il magico: il Corano è perfetto perché c’è qualcosa di miracoloso in esso che lo rende perfetto solo nella sua lingua originale. Nell’atto di leggerlo, in quella esatta sequenza di suoni, come fosse una formula magica il miracolo si produce e ri-produce. Ma che miracolo si produce nel testo Giapponese di Evangelion? Non credo che sia stato dettato direttamente dal labbro di Allah per essere trasmesso inadulterato.

Ed è qui infatti che la filosofia di Cannarsi si rivela non solo sbagliata, ma anche profondamente incoerente. Perché se davvero Cannarsi ritenesse che il modo esatto in cui la lingua Giapponese compone i dialoghi conferisca ad essi qualche ineffabile proprietà, fino a contenere il Giappone stesso, allora non dovrebbe tradurre affatto. Tradurlo è già averlo inquinato. Dopotutto, tradurre dal Giapponese all’Italiano che cos’è, se non una *GASP* italianizzazione del Giapponese? Non andrebbe fatta. Perché il problema è che puoi anche pensare che tradurre il Giapponese in un Italiano comprensibile, ovvero adattare, non sia possibile, ma l’atto di produrre un adattamento presuppone quella possibilità. Se non ci credi, se pensi che adattare possa produrre soltanto quelle assurde porcate, allora non c’è ragione che tu lo faccia. Speriamo davvero che Gualtiero si renda conto di quanto sacrilego è l’atto che sta compiendo cercando di rendere il Giapponese in Italiano, e decida di fare qualcos’altro nella vita, e si intende, letteralmente qualunque altra cosa (lo vedrei bene a tradurre Bibbie, nessuno ci capirebbe più un cazzo e sarebbe la fine dell’integralismo religioso in Italia).

Ma purtroppo qui c’è un problema ulteriore, e cioè che Cannarsi, come i letteralisti, non sembra rendersi conto di cosa sta facendo, e il suo modo di presentare con nonchalance il suo operato, come se fosse un approccio naturale all’adattamento di opere straniere, rivela un’insipienza filosofica da far rivoltare Eco nella tomba. Cannarsi è un credente, convinto che esista un “testo puro”, un inadulterato qualcosa nascosto fra gli ideogrammi. E lui, lui ha avuto accesso a quel segreto qualcosa. Lui solo è stato illuminato e deve “condurlo” a te… Peraltro non si sa perché proprio lui dovrebbe essere l’illuminato, visto che non è neanche giapponese. Il filtro che egli pone fra gli utenti e l’originale è pesantissimo (e perciò riconoscibile), ma lui non lo vede; non capisce che egli non è affatto invisibile, che nessun traduttore è invisibile e che lui lo è meno ancora. Cannarsi si vede perché ci si è messo tutto, lì dentro, in modo quasi impudico, perché nelle sue traduzione si mette completamente a nudo. Non si rende conto che il suo tentativo di essere invisibile in realtà non fa altro che sottolineare maniacalmente, ossessivamente il suo modo di essere e di pensare. Come sono le sue traduzioni? Ossessive. Puntigliose. Elitiste. Ampollose. Ottuse. Si credono raffinate ed intellettuali quando sono solo ridicole. E le sue traduzioni sono le sue e ci parlano di lui, come le mie traduzioni sono le mie e parlano di me, come le traduzioni di chiunque sono le sue traduzioni e parlano di lui/lei. Ma dalle mie traduzioni, ve lo assicuro, capireste molto di meno su di me, di quanto quelle di Cannarsi ci raccontano di lui.

La mia tesi è che Cannarsi tutto ciò non lo capisca, e che quindi sia in difetto di acume, e non di buona fede. Beninteso, potrebbero mancargli entrambi, o solo la buona fede. È senz’altro possibile che lui in realtà sappia benissimo cosa sta facendo, ovvero che sappia benissimo che le sue traduzioni sono pagliaccesche e impossibili da fruire, ma che lui le usi lo stesso proprio perché vuol portare avanti un punto filosofico: che le lingue siano intraducibili (forse tutte, forse solo il Giapponese perché è quello che piace a lui), e che tradurle sia peccaminoso. E allora crea delle traduzioni volontariamente inutilizzabili per portare avanti questa teoria.

Ciò farebbe di lui un Marcel Duchamp che fa i baffi alla Gioconda, un ardito artista dada che profana l’arte per fare altra arte (sia pur con la differenza che Duchamp non ha davvero rovinato la Gioconda, mentre Cannarsi rovina davvero le opere che adatta).

Sarà forse, Cannarsi, un simile genio?

Ascolto un rigo di dialogo tradotto da lui.

“Papà, che stanotte si va a prendere in prestito era promesso, eh!”

No. Decisamente no.

 

 

Ossequi.





Precisazioni sulla pedofilia.

12 05 2020

Con tutta calma, soltanto con un anno di ritardo, mi accorgo che un mio ormai vecchio articolo ha ricevuto una risposta.

La risposta si impernia su un paio di argomenti, uno secondo me l’avevo già affrontato in prima battuta, l’altro però merita un approfondimento.

Nel mio primo articolo davo una risposta alla domanda se Montanelli, che aveva sposato una dodicenne in Africa ai tempi del fascismo, potesse essere accusato di pedofilia. A questa domanda cercavo di rispondere espungendo dalla questione i giudizi morali, che non mi interessavano allora e non mi interessano adesso.

La risposta era e resta no, perché se ci appelliamo alla biologia l’età adulta la femmina la raggiunge col menarca, e quindi a dodici anni probabilmente c’era già arrivata; mentre se ci appelliamo alla cultura, be’… allora, dipende dalla cultura, ovvio.

La questione a cui i miei critici si sono appellati, però, era una terza, che non era né biologia né cultura: la psicologia. Nel mio articolo avevo infatti precisato che, chiaramente, non c’è garanzia che una dodicenne sia psicologicamente adulta e psicologicamente pronta per il sesso. In questo spiraglio si è insinuato il mio critico, addossando a me l’onere di provare che matura la ragazzina lo fosse: una classica prova, questa, impossibile da fornire.

Forse avrei dovuto precisare che, come non vi è prova che una ragazza dodicenne sia psicologicamente matura per il sesso, non v’è prova che lo sia una quattordicenne (in Italia l’età del consenso è quattrodici anni); eppure in Italia far sesso con una quattordicenne è perfettamente legale. Però, è vero, a quattordici anni è legale solo a patto che non intercorrano rapporti di potere in favore del partner più anziano, invece col caso Montanelli ci rientreremmo… Quindi preveniamo questa obiezione e sottolineiamo che non cambia molto se quel limite lo spostiamo di altri due anni, e arriviamo ai sedici: che garanzia c’è che una sedicenne sia psicologicamente matura per il sesso? O una ventenne? O una trentenne? Si può essere immaturi sempre.

Quando noi stabiliamo delle norme legali e cliniche che vanno a definire i confini dell’infanzia e quindi della pedofilia, noi non presumiamo certo che calzeranno a pennello su ogni singolo caso; di più: sappiamo per certo che non sarà così. Sappiamo per certo che in Italia ci sono dodicenni che sono sessualmente attive e disinibite, e venticinquenni che ancora non sanno manco che forma abbia il pene. Il punto non è avere quella certezza, il punto è stabilire una convenzione.

Forse i più ignorano che in Italia non esiste un “reato di pedofilia”; esiste solo il reato di violenza sessuale su minore. Il legislatore, per una volta lavorando bene, non si è voluto mettere a discutere categorie cliniche, e si è limitato a fissare, convenzionalmente, ripeto: convenzionalmente, una linea sotto la quale noi presumiamo che non si sia capaci di formulare un consenso valido ad un atto sessuale. Ma è solo un’assunzione e una presunzione.

La psichiatria è più sfumata a riguardo, può cogliere aspetti più fini della questione. La pedofilia è definita come l’attrazione per il bambino o la bambina prepuberi. È una definizione chiara? Be’, fisiologicamente lo è: menarca, again. Ma possiamo aggiungere strati su strati di interpretazioni, qui. Parleremo di maturità psicologica… e come la definisci? E qui inizia il gioco delle definizioni: allarghi, stringi, allunghi, stagliuzzi, incolli le definizioni di infanzia, rapporto sessuale e pedofilia, e ottieni quello che vuoi. Allora sarà “di tipo pedofilico” il rapporto fondato sull’abuso di fiducia da parte del partner più maturo, fondato sulla violazione dell’innocenza, sulla violenza fisica o psicologica, sul dominio… ma, ragazzi, possiamo anche appiccicare tutte ‘ste cose alla pedofilia, ma non possiamo lasciarci trasportare a definire “pedofilo” qualsiasi stupro o violenza sessuale; quella lì è un’altra questione: ogni atto pedofilo è stupro, ma non ogni stupro è pedofilo. La pedofilia richiede attrazione per il bambino, quindi, se vogliamo definire il pedofilo come categoria dobbiamo per forza definire il bambino come categoria, e questo significa che o andiamo a entrare nei dettagli del caso specifico (i.e. parliamo con Fatima, guardiamo le sue foto etc.), o ci adeguiamo alla biologia, che ci dà una risposta ben chiara, oppure dobbiamo appellarci ad una qualche convenzione socio-culturale. Affermare che Montanelli dovesse per forza usare la nostra convenzione, quando si trovava immerso in una completamente diversa e l’altra persona ne faceva parte, mi pare uno sterile esercizio moralista; a meno di sostenere che la nostra convenzione sia per forza migliore (spoiler: non lo è; ed è anche abbastanza ipocrita).

Certo, magari Fatima, se questo era il suo nome, fisicamente aveva tratti immaturi; magari non aveva ancora il senso, magari non aveva il pelo pubico, non aveva i fianchi formosi, e magari Montanelli era attratto proprio da questo. Effettivamente ciò configurerebbe la presenza in lui di gusti pedofilici. Se qualcuno mi fa vedere foto della ragazza che provino ciò, ammetterò che probabilmente Montanelli aveva anche un lato pedofilico (che comunque è diverso dal dire che “era pedofilo”, leggere il DSM su questo).

La questione, poi, se Montanelli abbia fatto bene a prestarsi a quella roba… Ho detto sin dall’inizio che non mi interessava come questione, ma se proprio mi si vuole trascinarci, no, secondo me non ha fatto bene; si trattava comunque di una pratica molto sessista e per molti versi barbarica: la ragazza dopo essere “appartenuta” ad Indro cambiò marito altre due volte, come un oggetto. Tratta di esseri umani. Ma non vedo perché avrebbe dovuto essere una cosa meno brutta se di anni ne avesse avuti quattordici o sedici: è sempre tratta di esseri umani. La domanda qui non è se stiamo parlando di schiavitù, tratta di esseri umani, violenza sulle donne; la questione è se stiamo parlando di pedofilia, e la risposta, sulla base di ciò che sappiamo, dev’essere per forza: no. E la difesa di Montanelli, che “in Etiopia si usava così”, è solidissima: se in Etiopia a dodici anni sei già considerata adulta, e tu ti trovi in Etiopia, hai pieno diritto di appellarti a quella convenzione lì, che è buona quanto qualsiasi altra convenzione.

Si può anche tirare in gioco la maturità psicologica, quando si parla di consenso in quel caso specifico, quando siamo in grado di entrare nell’ordito sottile di quel caso specifico. Io non lo so se quella specifica dodicenne era psicologicamente pronta per il sesso, non sono nella sua testa; come non sono nella testa di tutte le sedicenni o delle trentenni o delle ottantenni per sapere se sono pronte: sono solo nella mia, di testa. Posso presumere che non fosse matura? Ok… Perché mai dovrei presumere una cosa del genere? Stiamo parlando di una società in cui l’uso è quello, a dodici anni ci si sposa, e le ragazzine saranno dunque preparate sin da bambine a quell’esperienza. Io non posso fare l’assunzione che non fosse pronta, e poi chiedere a chi pensa che lo dovesse essere di provarmi che ho torto, non funziona così.

Ma soprattutto, quando nell’altro articolo citavo il risibile caso di Bennett e Argento, volevo sottolineare quali sono i pericoli di questo ragionamento. Io vado ad assumere che un’intera fascia di popolazione, che in California è tutta quella sotto i diciotto anni, che è sessualmente attiva o attivissima, non possa formulare consenso, e vado ad accusare di pedofilia chiunque violi l’innocenza delle nostre diciottenni tettone e dei nostri twink pompinari (perdonatemi il linguaggio, credo che renda l’idea)… che peraltro spesso sono sessualmente molto desiderabili, specialmente le donne. Così si crea un autentico mostro giudiziario e morale che può facilmente sfuggire al controllo, e il caso Argento dimostra che le donne non sono immuni ad esserne addentate. Ciò è reso possibile proprio dall’abitudine di usare alla leggera una categoria, quella della pedofilia, che è invece pesante come un macigno e come tutti i macigni andrebbe maneggiata con molta cautela.

Che “una dodicenne è una bambina in tutto il mondo” è cosa semplicemente non vera; non è vera per la biologia, non è vera per la sociologia, e neanche per la psicologia, che invece potrà discernere specificamente le dodicenni che possono essere considerate bambine e quelle che invece sono da considerarsi mature. E tacciare di pedofilo uno solo perché è andato con una dodicenne è un uso improprio, e pericoloso, di un termine clinico che richiede di essere rigorosamente individuato per essere utilizzato.

E questo qualunque cosa si voglia pensare di Montanelli.

 

Ossequi.

 

 





Il razzismo del pene

6 11 2019

Una volta feci una battuta: dissi che secondo me la ragione del razzismo verso gli africani ha a che fare con la lunghezza del pene.

In realtà ero piuttosto serio.

Mi spiego: proviamo a immaginare un razzismo “razionale”, se mi si permette l’ossimoro, ovvero un razzismo che affondi le radici in paure fondate e legittime per la stabilità della nostra società. Per esercitare questo tipo di razzismo dovremmo individuare come obbiettivo un popolo che abbia il potenziale di modificare sostanzialmente il nostro stile di vita e i nostri valori, e che magari lo stia già facendo. E per riuscire a a modificare il nostro stile di vita e i nostri valori bisogna essere potenti, ovvero innanzitutto avere i soldi, poi avere le armi, poi essere in tanti.
Il candidato ideale – ovviamente – è la Cina. Un miliardo e mezzo di abitanti, crescita economica esplosiva, è abbastanza influente da riuscire a tener testa agli USA in una guerra di dazi, non somiglia nemmeno da lontano ad una democrazia, e già ora usa il controllo dell’accesso al suo mercato per costringere le aziende americane ed europee a sottostare ai suoi diktat.

Dunque, perché mai non sono i cinesi l’oggetto del razzismo degli occidentali? Avrebbe più senso, semplicemente perché sono molto più pericolosi e potenti.

Tre ragioni.

La prima: proprio perché sono pericolosi e potenti. Il razzismo è una forma di bullismo, dunque è sempre rivolto a qualcuno di più debole che non può fartela pagare. La Cina se dici “a” sul suo governo o sulle sue politiche o anche solo più in generale sui cinesi ti manda a gambe all’aria l’economia. Se dici il peggio possibile di un paese africano a caso non v’è alcuna conseguenza, perché non hanno strumenti per reagire. Quindi questa è una ragione.

La seconda: gli africani e i mediorientali sono più appariscenti. Non mi riferisco solo all’aspetto e all’abbigliamento, ma al fatto che in effetti esiste il terrorismo islamico che porta a sovraesporli. Anche qui: in realtà il gesto teatrale, violento, uniformemente condannato, l’atto terroristico insomma, non rappresenta affatto una minaccia alla tenuta di una società o ai suoi valori. In effetti fa l’esatto contrario: coagula la società e scatena una reazione smisurata (razzista). Gli atti terroristici dovrebbero farci avere paura (con molta misura) solo per la nostra sicurezza personale, ma non certo per la tenuta della nostra società; e sono due cose diverse: un leader “pacifico” e democraticamente eletto non minaccia la mia sicurezza personale, ma ha un’influenza sul nostro stile di vita e sui nostri valori che è un miliardo di volte maggiore di un pazzoide che accoltella tre persona in una piazza, che invece la mia sicurezza personale la influenza. Infatti per sostenere che i musulmani possono conquistare la nostra società bisogna postulare scenari fantapolitici in cui iniziano a clonarsi fino a superarci in numero di cento ad uno, perché è così dolorosamente ovvio che allo stato attuale non contano un cazzo. Tuttavia, è difficile cogliere la differenza fra minacciare la sicurezza personale degli individui e minacciare il tessuto della società. Le due cose vengono spesso confuse, per cui la pericolosità percepita dei musulmani è molto più alta di quella reale.

Ma anche così non basta.
E qui interviene la terza ragione, secondo me la più importante: la lunghezza del pene.
I neri, almeno secondo lo stereotipo, ce l’hanno molto lungo. Gli asiatici molto corto. I neri, grossi e forti; i cinesi, piccoli e gracili. I neri, virili; i cinesi, effeminati.
È credibile che i neri vengano qui a rubare le nostre donne (che? Non penserete che le donne siano individui invece che merce, no?) e ingravidarle coi loro potenti cazzi generando una numerosa prole che ci sostituirà; non è così credibile coi cinesi, e questo nonostante abbiano ampiamente dimostrato di essere piuttosto prolifici.

Si tratta della madre di tutte le ansie sociali. Quando due tribù o due popoli si fanno la guerra, si vanno a stuprare le donne della tribù nemica; noi lo abbiamo fatto in Libia, per dire, neanche troppo tempo fa. L’Alt-Right quando si riferisce a… beh… chiunque non sia Al-Right, usa il termine “cuck”, che si riferisce a quegli etero che hanno il feticcio sessuale di essere resi cornuti da un maschio più virile: non c’è nemmeno lo sforzo, qui, di nascondere l’idea che c’è dietro, e cioè che questi maschi neri più forti e più virili ci ruberanno le donne. Se tu permetti che costoro vengano nel nostro paese vuol dire che ti piace l’idea che ti fottano la donna. Tutta una questione di pene. Però i cinesi ce l’hanno piccolo, quindi non hanno i requisiti necessari per rubarci le donne.

Risultati immagini per lunghezza del pene
In un episodio di South Park il Giappone iniziava un piano segreto di invasione degli Stati Uniti, ma nessuno vi prestava attenzione perché ogni volta che un occidentale sollevava sospetti i giapponesi gli ricordavano che gli americani hanno il pisello più grande, e confortati nella propria virilità gli americani si calmavano. La Cina sta facendo la stessa cosa, e noi siamo abbastanza scemi da continuare a guardare la dimensione dei genitali. E per inciso: la Cina l’Africa se la sta praticamente comprando tutta pezzo dopo pezzo; si vede che i soldi contano anche più del cazzo.

D’altro canto la comparazione di genitali è un movente base di moltissime azioni del maschio umano. Gli africani stanno pagando il crimine di averlo più lungo di noi.

Immaginatevi nascere in Africa e averlo pure piccolo come dev’essere.

 

Ossequi.





Trans-età?

5 05 2019

Provocazione bipartisan: se è possibile essere transessuali, è possibile essere trans-età? Cioè, è possibile chiedere e ottenere di cambiare l’età che c’è sui documenti, riallineandola a dati differenti rispetto alla semplice data di nascita?
Un tema del genere suona come una reductio ad absurdum contro le istanze della comunità trans, e dunque può essere fastidioso affrontarlo in quell’area. D’altro canto, proporre una cosa del genere in tutta serietà è sicuramente in grado di triggerare, invece, i conservatori. Forse che riusciamo nell’impresa di scontentarli tutti? Senz’altro si può tentare.

In realtà questo discorso potrebbe invece essere un ottimo esercizio di riconciliazione, utile a capire i punti di vista dell’una e dell’altra parte sul tema. E, sì, c’è bisogno di “riconciliazione”; non nel senso di riappacificazione o di compromesso, beninteso, ma di comprensione reciproca: è importante capire il punto di vista degli altri anche laddove non concordiamo con esso, e perfino quando lo riteniamo illegittimo.
Dunque, andiamo avanti con la provocazione e riflettiamoci un secondo: che cos’è l'”età”?
Strettamente definita, è la differenza fra la data di oggi, generalmente arrotondata all’anno, e la nostra data di nascita.
Se la definiamo così strettamente, e attenzione, è del tutto sensato definirla così strettamente (dopotutto, questa è una cosa che i conservatori tendono a non recepire, le definizioni sono solo una convenzione e sono la cosa più semplice da modificare se uno vuole), è del tutto impossibile sostenere che qualcuno possa chiedere di farsene assegnare una differente da quella vera, perché è un semplice dato di fatto.
Ma, come accennavo, non siamo costretti a definirla così strettamente, anche se sembra proprio un percorso obbligato farlo. Quando infatti pensiamo a che cos’è l’età nella nostra vita di tutti i giorni, come ci contraddistingue, in che forme ci identifica e concretamente influisce sulla nostra vita, la data di nascita in sé non dice molto. Voi forse sapete quanti anni ho? E diciamolo: vi serve tanto, saperlo?
Di certo usiamo l’età per dedurre tante cose di una persona… Ma la maggior parte di esse non sono affatto legate all’età nel senso oggettivo di -differenza di date-. La usiamo piuttosto per dedurre altre cose. Per esempio, sulla base dell’età cerchiamo di dedurre lo stato di salute di una persona, la sua maturità intellettuale, la sua maturità emotiva, la sua esperienza di vita, e in mancanza di riscontri fisici anche la sua avvenenza fisica.
Il legame fra tutte queste cose e l’età esiste, ma non è affatto così stretto. Abbiamo cinquantenni idioti, che non hanno mai letto un libro in vita propria e magari sono ubriaconi perenni, e diciottenni colti, responsabili, idealmente pronti a mettere su famiglia. Così come settantenni che hanno ancora almeno una quindicina d’anni davanti a sé e trentenni obesi patologici che potrebbero averne di meno.
Certo, ci sono dei limiti a tutto ciò. Una bambina di nove anni non può essere fertile e matura per un matrimonio. Una novantenne non può avviare un mutuo ventennale o partorire un figlio (al netto di Guinness dei primati). Non stiamo dicendo, dunque, che il tempo trascorso su questa terra, dato oggettivo, sia privo di influenza. Come ovviamente non lo è il sesso biologico di un individuo; una donna trans può fare la vaginoplastica e può crescerle il seno, ma partorire non può di sicuro. Quello specifico dato biologico influisce sulle nostre vite in maniera inevitabile, non può essere cancellato, e in realtà generalmente nessuno vuole cancellarlo. Quello che sto dicendo è, però, che l’età non influisce così tanto, di per sé. Più spesso è un proxy attraverso il quale cerchiamo di indovinare, spesso fallendo, informazioni veramente rilevanti sull’altro.

Ora prendiamo un individuo che magari ha sessant’anni, ma ha sempre praticato sport e condotto una vita molto sana ed è stato baciato dalla genetica, per cui di fatto è come se ne avesse una quindicina di meno ed ha anche un’aspettativa di vita sopra la media. Sarebbe davvero così insensato se volesse essere trattato come un quarantacinquenne? E mettiamo che un trentacinquenne appena entrato, piuttosto tardivamente, nel mercato del lavoro, debba questo “ritardo” a problemi oggettivi, come disturbi seri di salute o roba simile, ma di fatto abbia tutta la tempra e la voglia di fare uno con dieci anni di meno. Sarebbe assurda da parte sua la richiesta di essere trattato come un venticinquenne?
La risposta ovviamente è no. Sono richieste sensate. Così sensate che il più delle volte è naturale accontentarli, in questi casi, e possiamo perfino scordarci quale sia la loro data di nascita. Sui siti d’incontri a cui sono iscritto io mi tolgo sempre due o tre anni, posso permettermelo e dirò la verità: non mi sento particolarmente bugiardo o truffaldino nel farlo; potrei benissimo avere tre anni di meno a guardarmi… ma magari anche di più, eh. Sono un trans-età!

Se seguiamo il ragionamento in tutta onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che l’età “vera”, ovvero la data di nascita, tutta questa importanza non ce l’ha nella vita di tutti i giorni e spesso noi stessi ci comportiamo tutti come dei trans-età, volendo essere visti e trattati sulla base dell’età che ci sentiamo e mostriamo, piuttosto che sulla base di un numerino del cazzo che sta sulla carta d’identità; non solo, spesso facciamo anche operazioni chirurgiche e trattamenti farmacologici per adattare il nostro corpo all’età che sentiamo di meritare.
Essere “trans-età” è possibile e sensato esattamente quanto lo è essere transessuali. La differenza è solo che nessuno sarebbe disposto a cambiarti l’età sulla carta d’identità… e che comunque l’età cambia negli anni, mentre l’identità di genere no, per cui nessuno solleva un problema sociale di trans-ageismo.
Non voglio certo sollevarlo io, in effetti; quello che voglio dire è semplicemente che, come richiesta, quella di farsi dare dalla società un’altra età rispetto a quella che si ha, non è così assurda e insensata come potrebbe sembrare.

Dall’altra parte, però… e qui si richiede uno sforzo di comprensione da parte dei progressisti… che suoni insensata è perfettamente normale. In effetti suona insensata quasi a chiunque. “Ma come, ma che cazzata è, l’età è un dato oggettuale, non possiamo giocarci così!”
E se abbiamo seguito bene il discorso sinora sappiamo bene che il punto non è l’oggettività dell’età come dato, quanto il fatto che sotto quel numerino vengono riassunti tutta una serie di tratti identitari che travalicano il numerino stesso. Sulla base di quel numerino la gente presumerà come mi vesto, cosa mi piace fare nella vita, quanto e come camperò, le mie priorità nella vita. Io non potrei mai volere che gli altri mi riconoscano una data di nascita diversa, perché quella è la data; ma potrei volere che gli altri non mi imprigionino in quel numero permettendogli di determinare interamente la mia immagine di me. Come i transessuali distinguono fra il sesso biologico, immutabile, e l’identità di genere, più flessibile, potremmo tranquillamente distinguere un’età temporale, oggettiva, e una serie di età definite diversamente, come l’età ossea o l’età mentale… concetti che peraltro già usiamo correntemente.

Tuttavia è necessario capire che vi sarebbero resistenze a questo tipo di mutamento, e sono resistenze comprensibili. Come dicevo prima, l’età che effettivamente ho non dice chi sono… ma comunque non può non condizionare vari aspetti della mia vita. E siamo abituati a parlare di età pensando al dato oggettivo, la differenza fra due date. Se da un giorno all’altro inizio a parlare di “età” cambiando il riferimento e pretendendo di scindere il dato oggettuale da tutti gli altri aspetti di cui parlavo… ragazzi, gli altri non ci si possono abituare subito, non è una pretesa razionale che lo facciano. Specialmente se si considera che le nuove categorie non vanno a prendere dei “posti vacanti”, bensì occupano posizioni già prese nel linguaggio: anche l’età ossea e quella mentale si misureranno in anni, anche se in effetti non sono veri “anni” quelli che misurano, ed è quindi abbastanza ovvio che chi è abituato a pensare in termini degli anni che effettivamente ho in termini di date percepisca l’introduzione di nuove categorie come un tentativo di rimpiazzare quelle vecchie.
Insomma, magari a me interessa, per le mie ragioni, sapere esattamente quand’è nato l’altro, e non qual è la sua età ossea o mentale. E mi trovo invece a dovermela giostrare fra tutta una serie di enumerazioni che mi interessano di meno.

Il problema della distinzione fra identità di genere e sesso biologico, al netto della transfobia e della malizia di chi non vuole proprio capire, è solo uno: che i termini “uomo” e “donna” non sono tabula rasa, sono stati usati per millenni in riferimento biunivoco al sesso biologico. Usarli ora in maniera distinta da esso, per parlare di una cosa che invece è distinta da esso, genera resistenze e problematiche.
… Ed è davvero così distinta? Anche quello è argomento di discussione; la transessualità spesso porta a voler assumere tratti somatici che sono tipici di un certo sesso (non “genere”, ma “sesso”). Dunque la ridefinizione dei termini va effettivamente ad occupare uno spot già preso e occupato militarmente con quindici carriarmatini, e la richiesta da parte di chi c’era prima di non esserne scalzato ha un senso. Che non significa che vada accolta, ma ha un senso, si può capire abbastanza da dove viene e che funzioni ha.

Per brutto che possa sembrare dirlo, io credo che la ragione principale per cui le preoccupazioni dei conservatori sono fuori luogo sia la marginalità numerica del transessualismo. Per dire, la classica obiezione omofobica che “se tutta l’umanità fosse gay ci estingueremmo” non ha senso, fra le altre cose, perché i gay se lo desiderano possono anche avere figli, ma principalmente perché i gay sono più o meno il 5% della popolazione e non è mica vero che crescano fino ad invadere il mondo: son sempre quelli. Anche se fossimo tutti preti ci estingueremmo, ma il punto è che non siamo chiamati ad essere tutti preti.

La preoccupazione specifica dei conservatori, quella di vedersi “scippate” le categorie del sesso biologico vedendole sostituite con quelle dell’identità di genere, si esprime nel termine molto offensivo che usano per definire le donne trans: “traps”, trappole, persone che ti traggono in inganno “fingendosi” donne quando invece sono “uomini”. Hanno insomma il terrore di vedersi sostituite le donne biologiche da donne trans. Paradossalmente non è una paura del tutto insensata, in via astratta. Si intende: io uomo etero posso non avere nulla contro le donne trans ma non avere voglia di iniziare rapporti con loro per questa o quella ragione; magari per motivi del tutto sensati come il desiderio di avere figli biologici con la partner. Mi sentirò dunque più a mio agio sapendo che posso approcciare qualunque donna nel locale con la ragionevole certezza che corrisponda a quella mia aspettativa. Messa così è abbastanza ragionevole, no?

Ma i transessuali sono tipo uno su diecimila persone. Quindi sì, se una donna transessuale si “confonde” con una donna biologica non mette a rischio la tua sicurezza che in quel locale quella che ti piace possa anche partorire. Non più di quanto la metta al rischio il fatto che potrebbe essere semplicemente sterile. Certo se fossero il 50% della popolazione, ecco, lì il problema si potrebbe porre legittimamente. Quella dei conservatori è una preoccupazione che potrebbe essere compresa e contestualizzata e neutralizzata, ma che più spesso viene ingigantita e prende la forma della fobia, con tutta l’aggressività e l’irrazionalità che ne consegue. Ed ecco dunque che si immaginano un futuro prossimo in cui non esistono più donne biologiche e loro non possono più avere figli e sono costretti ad accoppiarsi per forza con “donne col pisello”…

Pensare a queste cose solleva riflessioni molto interessanti, per esempio il paradosso apparente per cui una certa situazione può essere normalizzata solo in virtù della propria marginalità ed eccezionalità. Omosessualità e transessualità sono normali e sane perché sono marginali, numericamente. Se non fossero marginali non sarebbero sane, o quanto meno, dovrebbero essere ripensate e integrate in modo diverso nel tessuto sociale. A pensarci, ciò non è così strano: abbiamo tutti bisogno di chirurghi e di operai e di manager, ma se fossero tutti chirurghi chi costruirebbe i palazzi, se fossimo tutti operai chi farebbe il manager, se fossero tutti manager chi aprirebbe la pancia alla gente?

C’è un elemento di irriducibile diversità nell’essere LGBT. Questo va accettato e secondo me si digerisce facilmente. Ora si tratta di capire cosa farne.

 

Ossequi.





Montanelli era pedofilo?

16 03 2019

 

No.

Questa era la risposta breve e per quanto mi riguarda, se vi basta, chiudete qui.

 

Altrimenti vi do una spiegazione più lunga.

Sapete che ogni tanto internet fa delle “scoperte”, no?

Le scoperte sono generalmente una roba che si sapeva da almeno cinquant’anni, ma che l’altro ieri è stata condivisa su facebook da qualcuno di famoso che a sua volta l’ha scoperta due giorni fa ed è convinto di aver inventato internet.

La scoperta in questione è che un famoso giornalista italiano, Indro Montanelli, defunto diciotto anni or sono, aveva “comprato” e sposato in Etiopia una moglie locale, una ragazza di dodici anni.

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Monumento a Montanelli vandalizzato da alcune attiviste femministe.

Lui non si sforzò mai di nascondere la faccenda e addirittura ne parlò con nonchalance (forse in effetti eccessiva) in un’intervista in TV, durante la quale una femminista (che in seguito divenne nota per l’omofobia e per il supporto a Berlusconi), tale Elvira Banotti, lo accusò di aver stuprato una bambina. Alcune attiviste femministe hanno fatto la “scoperta” e hanno dunque deciso, visto che andare a dirgliele a Montanelli non era più possibile, di imbrattarne una statua di rosa. Con un risultato che se chiedete a me è pure carino.

Ora, siccome sto per parlare di un argomento altamente isterogenico faccio subito due chiarimenti. Chi legge per favore vi ponga attenzione perché non li ripeterò due volte:

 

  • Non mi interessa santificare Montanelli.
  • Non mi interessa dare una giustificazione acritica del suo comportamento.
  • Non mi interessa dare un giudizio di valore sulla pratica del madamato né del colonialismo in senso lato.
  • Non mi interessa nemmeno dare addosso alla Banotti, seppure sarebbe un’occupazione delle più piacevoli.

 

Se questi sono i temi che vi interessano smettete di leggere qui perché non li tratterò.

Tratterò esclusivamente quell’unico tema che è nel titolo, e cioè se il comportamento di Montanelli possa essere classificato come pedofilo. Lui si giustificò molto semplicemente dicendo che, a quell’età, in Abissinia erano già donne. È questa difesa accettabile?

Ecco la mia risposta.

Dicevo che quest’argomento è isterogenico. Ricordate che gli integralisti cattolici piantarono, e ancora oggi ci piantano, grane pazzesche sul terribile GENDER nelle scuole e sulla stepchild adoption? Notate come ogni tre per due gridano alla minaccia della pedofilia che ormai secondo loro sarebbe praticamente ovunque in occidente?

Ecco, in realtà però tutta la loro campagna contro l’educazione sessuale nelle scuole si basò sulla minaccia della pedofilia, o più in generale: dell’esposizione del bambino al sesso; ma il fatto che la suddetta campagna abbia anche avuto un notevole successo, così come che sia stata giocata la carta pedofilia in prima battuta, è prova provata dell’esatto contrario di quanto vorrebbero suggerirci: in realtà la nostra società è incredibilmente sensibile, non a caso ho usato il termine “isterica”, sul tema della sessualità infantile, e anche adolescenziale. E lo è oggi molto di più che in passato. Il fascismo non era certo un regime progressista, eppure, o forse proprio per quello, Montanelli agiva con benedizione fascista, e in generale la pratica di far sposare le figlie molto giovani, secondo gli standard odierni, è vecchia come il mondo: Maria Antonietta si sposò a quattordici anni, per fare un esempio. Anche oggi, nella nostra Italia l’età del consenso per avere rapporti sessuali è quattordici anni, una delle più basse d’Europa ma non la più bassa: ci supera la Spagna con tredici anni. E queste non sono trovate moderniste della lobby gay e delle femministe, l’esatto contrario: sono residui di epoche passate, e femministe e gay sono forse quelli più impegnati nel cercare di farceli cancellare.

Mi preme insomma sottolineare che la battaglia per ritardare ancora e ancora e ancora l’età della maturità sessuale non è una battaglia conservatrice o reazionaria; un conservatore genuino, verosimilmente, vorrebbe tornare a vedere gente che si sposa e sforna figli a quattordici anni. È, piuttosto, un tratto tipico delle civiltà occidentali modernizzate e “progressiste”. E su questo fronte, invece di farci più flessibili, ci stiamo facendo sempre più moralisti. Ha raggiunto toni da farsa il caso di Asia Argento, che dopo essere stata molestata da Weinstein, è stata accusata di molestie da Jimmy Bennett, un ragazzo che ai tempi in cui ebbero il presunto rapporto sessuale era probabilmente consenziente… ma non ha importanza, perché aveva sedici o diciassette anni (scusatemi, non ricordo di preciso) e dunque era minorenne, e in molti stati USA questo basta a configurare lo stupro. In una svolta quasi parodistica, Bennett è stato poi accusato di molestie da una sua ex con la stessa scusa: lei era minorenne e lui no. Poco importa che fossero ben al di sopra dei quattordici anni che stabilirebbe, invece, la legge italiana…

Insomma, rispetto alla California, noi italiani siamo un popolo di maniaci pedofili. E provateci voi a dire che non è così: i primi che vi salteranno al collo saranno femministi e queer. Non siamo abbastanza avanti e moderni noi italiani, nella caccia alle str… pardon, nella battaglia ai mostruosi pedofili!

E uno di questi mostruosi pedofili parrebbe essere (stato) Indro Montanelli, perché “una dodicenne è sempre e comunque una povera infante, indipendentemente dal contesto culturale, dal luogo dall’epoca”.

E questa è una mostruosa CAZZATA. È così chiaramente non vero.

Una lezione di biologia, ora: che cos’è l’infanzia, in senso biologico?

Si tratta di quel periodo nella vita di un individuo sessuato durante il quale esso non ha la maturità biologica per riprodursi.

I confini di questa condizione sono molto chiari: un giorno non sei in grado di riprodurti, pochi giorni dopo il processo è compiuto e ne sei perfettamente capace. E se quel momento è meno facile da identificare per i maschi (Platone diceva “deve crescergli il pelo sul viso”, se no è pedofilia), nelle femmine corrisponde al menarca.

Volete davvero qualcosa che non cambi da cultura a cultura? Beh, la biologia non cambia da cultura a cultura, quindi eccovi accontentati: l’infanzia di una bambina è, in qualsiasi cultura, tutto ciò che c’è prima del menarca. Dopo è una donna.

E molto di frequente a dodici anni una il menarca lo ha già avuto.

“Ma come, Alberto?! Stai dicendo che una ragazzina di dodici anni è sempre psicologicamente matura per avere rapporti sessuali, o addirittura per sposars?!”

Assolutamente NO. Sto dicendo che spesso ha avuto il menarca, è quindi è BIOLOGICAMENTE matura, è BIOLOGICAMENTE una donna. E dunque sempre BIOLOGICAMENTE non sei un pedofilo se sei un maschio etero e ne sei attratto: verosimilmente avrà anche già il seno, il pelo nei posti giusti, i fianchi formosi. Non esattamente le caratteristiche per cui i pedofili escono pazzi. E questo vale davvero in qualsiasi cultura e tempo e luogo, perché è biologia.

Ovviamente, al di là della biologia, in senso psicologico una dodicenne può benissimo non essere matura. Ma quello è appunto un fatto psicologico: per via delle condizioni culturali in cui è vissuta, è rimasta psicologicamente bambina e dunque esserne attratti assume una sfumatura pedofilica sempre in senso psicologico, nel senso che implica un rapporto di superiore maturità mentale di un partner rispetto all’altro.

Ma ecco dove ha perfettamente ragione Montanelli: questo ultimo aspetto dipende dalla cultura.  In Etiopia a quei tempi (forse anche oggi?) vigeva una cultura che trattava le ragazze sin dopo il menarca come donne, dunque pronte ad avere rapporti sessuali e a sposarsi. In quel contesto culturale lì, insomma, la dodicenne era donna a tutti gli effetti, e non puoi sentirla definire “bambina” dalla Banotti di turno o sentirti dare di pedofilo perché ci sei stato, è assurdo.

Che l’universo progressista si sia gettato a spolpare l’osso di dare di pedofilo ad uno sepolto da vent’anni, solo perché si è adattato ai canoni di una cultura diversa, rivela molte delle contraddizioni di questo universo. Un universo che combatte il razzismo e lotta per l’accettazione della diversità… Ma si deve prima o poi confrontare con una diversità che non si manifesta nel modo in cui si cuoce la pasta, ma nel modo in cui consideriamo, per esempio, il rapporto fra età e sesso. E lì si rivela che in realtà non riusciamo ad uscire dalle nostre categorie e siamo pronti a dichiarare che interi popoli e intere culture sono popoli e culture pedofile.

Forse avremmo dovuto castrare chimicamente tutta l’Africa?

 

Ossequi.





La scienza di Destra

29 12 2018
Ho notato che è molto comune oggi, presso gli ambienti alt-right, la tecnica di vendersi come alfieri della ragione e della scienza VS la sinistra irrazionale ed emotiva.
 
Da un lato si tratta di un’innovazione comunicativa radicale; s’intende, tutti gli ideologi cercano di tirare la scienza dalla propria parte, perché la scienza è “roba forte”, la vuoi avere nel tuo angolo… ma tipicamente la Destra non se la mette sulla bandiera, perché quello è il posto riservato per tradizione e passione, che vinceranno sempre sulla scienza.
E in effetti per la Destra è ancora così, tradizione e passione vincono su scienza. Ma allora come e perché mettono la scienza sulla bandiera?
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Premettiamo necessariamente che la scienza non è mai né di destra né di sinistra, perché aderire ad un’ideologia richiederebbe che la scienza si adegui ad essa, mentre è sempre il contrario che deve accadere: l’ideologia deve adeguarsi alla scienza. Ma, a parte quest’ovvietà, diciamo che la scienza ha sempre avuto una certa attrattiva per la Destra, perché essa è un metodo per ordinare il mondo in schemi mentali. La Destra adora gli schemi mentali, e dunque adora la scienza… almeno nella misura in cui le offre una sponda per calare sul reale degli schemi-gabbia rigidi in cui imprigionarla.
Caso di studio le Sentinelle in Piedi, che si presentavano come alfieri del dato di fatto scientifico: esistono uomo e donna e i bambini nascono da uomo e donna. Allora prendiamo questo schema binario uomo-donna e caliamolo su tutto l’esistente, utilizzandolo come pretesto per stuprare la realtà stessa: si usa dunque il binarismo biologico come trucco retorico per negare la molteplicità del comportamento sessuale umano e non solo. Ci sono due sessi biologici… Ok, possiamo prendere il dato biologico in questione e soppesarlo nell’insieme delle nostre valutazioni insieme a tutti gli altri dati biologici: l’esistenza dei comportamenti omosessuali, la natura socialmente costruita dei ruoli di genere, l’esistenza della disforia di genere… Il punto è che da Destra tutti questi altri dati biologici, altrettanto solidi, vengono completamente disconosciuti. Ma sono dati, nel senso, non si apre neanche discussione su questi punti, sono puro fatto, come il becco dei pinguini o la forma della luna.
 
Il punto è che il pensiero scientifico crea sì degli schemi per inquadrare il mondo, ma questi schemi devono calzare al mondo al modo stesso in cui un abito su misura deve calzare al committente: stretto abbastanza da non cadergli di dosso, ma anche comodo abbastanza da farlo respirare e da non irritargli la pelle. Una scienza che si rifiutasse di categorizzare la realtà sarebbe inutile… ma una scienza che voglia per forza far stare la realtà in categorie decise a priori è anche peggio che inutile: è dannosa. E non è vera scienza.
La Destra è sedotta da questi abiti stretti, e non so quanto in buonafede e quanto in malafede, pensa di vendersi come scientifica perché anche la Destra, come la scienza, cala schemi sulle cose. Ma non è quello il punto della scienza, non è che basti osservare le cose, inventarsi uno schema rigidissimo che ci pare calzi loro, e poi costringere a viva forza la Natura ad indossarlo, non funziona così. C’è sempre l’altro lato da considerare: la scienza deve descrivere il reale e adeguarsi al reale, e la molteplicità infinita del reale è sfuggente rispetto ai nostri schemi mentali, per quanto raffinati.
Per di più, raramente gli schemi mentali della Destra sono raffinati. La punta di diamante della strategia retorica qui è in effetti l’utilizzo di schemi rigidissimi e semplicissimi. Da un lato gli schemi semplificati fanno parte della scienza; si pensi ad esempio ai gas perfetti o all’approssimazione gaussiana… ma in genere questi modelli semplificati rappresentano un punto di partenza su cui aggiungere strati ulteriori di complessità, e raramente sono efficaci nel descrivere la realtà così com’è. In ogni caso, quando non lo sono vanno sostituiti con schemi più raffinati; non esiste invece che la realtà venga piegata per entrare a forza in questi schemi.
 
Ovviamente, chi ha inclinazioni più o meno marcatamente destrorse sentirà spesso la seduzione degli schemi forti da calare sulle cose. Mi ci metto pure io dentro, e potremmo fare molti altri esempi a riguardo; me ne vengono in mente almeno tre, presi fra piccole celebrità del web: Uriel Fanelli, per esempio, o Albanesi, o Butta, che commentai qui piuttosto impietosamente (ragazzi, ma sarà mica una cosa da ingegneri…? Comunque se non li conoscete, fa niente, secondo me non è nulla di imperdibile). Il tratto comune che rende seducente per alcuni (fra cui anche per il sottoscritto) la retorica di questi blogger, e che la rende ad altri allo stesso modo repellente, è la forte impressione di rigore che trasmettono nel momento in cui calano i propri schemi sul reale. La seduzione deriva dal fatto che quegli schemi sono così rigidi ed eleganti ed ordinati… Peccato per quel piccolo difetto che spesso hanno di essere inadeguati o del tutto campati in aria, al punto di costituire ogni tanto delle involontarie parodie della realtà che vorrebbero descrivere.
Gli sfoghi dell’uno sui Napoletani possono racchiudere qualche elemento di riflessione interessante sui problemi del meridione, ma in ultima analisi sono un becero luogo comune razzista che pretenderebbe di sussumere un milione di napoletani sotto un unico tipo umano. Quell’altro può sembrare tanto intelligente nel momento in cui ti disseziona una frase estratta da un dibattito TV secondo i criteri della logica matematica; ma un approccio del genere diventa ridicolo, e più banalmente sbagliato, se ti richiede di far finta che non esista nel linguaggio una dimensione metaforica, iperbolica, associativa, evocativa e via dicendo che quel metodo lì, in quella forma iper-semplificata, manca in toto. Per non parlare poi di chi improvvisa calcoli su quanti musulmani ci saranno in Italia fra dieci anni senza ritenere di consultarsi dieci minuti con un demografo che queste cose le studia per vivere, e che magari può fargli notare numeri alla mano qualche erroruccio.
 
Schemi, appunto, attraenti nella misura in cui sono reminiscenti del linguaggio della scienza, e ne evocano tutta la potenza veritativa… Ma che di fatto vanno in briciole nel momento in cui ti ricordi che ci sarebbe anche, nel metodo scientifico, quel dettaglio di confrontarsi con la complessità del reale, rispetto alla quale certi schemi risultano non solo inadeguati, ma al livello del ridicolo involontario.
 
Per un esempio più su larga scala, usando questa tecnica di creare schemi-gabbia semplici e seducenti e presentandoli come “scientifici”, viene condotto da anni in USA un attacco spietato contro l’intera disciplina degli studi di genere, e trattasi del fenomeno che ha originato poi per esportazione la teoria del complotto del gender (quindi un problema non trascurabile).
Fermo restando che molte teorie sociologiche sul genere sono opinabili e alcune possiamo tranquillamente classificarle come puttanate, gli studi di genere restano comunque una materia di studio del tutto valida, che ovviamente si pone su un piano d esattezza diverso rispetto a discipline come biologia e fisica e più sul livello di studi storici e sociologici, ma non per questo è un mucchio di cazzate, come non sono cazzate la storia e la sociologia. A volte la complessità della materia di studio è tale che non si presta a iper-semplificazioni… Anzi, quasi mai la realtà si presta a iper-semplificazioni. L’invito a rientrare per forza in schemi rigidi e semplificati laddove la materia di studio richiede complessità è di fatto un tradimento del metodo scientifico a più livelli, e il genere è una di queste realtà altamente complesse, che se devono essere approfondite richiedono che si vada un momentino oltre le donne che mettono le gonne e partoriscono bambini e i mariti che hanno il pisellino e fanno gli idraulici.
Se proprio volete farvi del male, vi offriranno tanti altri esempi di questo tipo specifico di pseudoscienza nella comunità redpill. Mi colpì in particolare, fra questi, un tale che denunciava “una visione molto serendipica e non statistica della vita” in alcune donne. Essendo io statistico di professione, qui ho fatto un sorrisetto, perché il modus cogitandi dei redpill non è statistico per nulla; la statistica si basa su approssimazioni che riassumono aspetti interessanti della realtà tenendo conto delle variazioni di misurazione tramite indici di dispersione. La metodologia dei redpill consiste piuttosto nel negare la molteplicità del reale tacciando tutto ciò che non corrisponde alla teoria di essere una deviazione irrilevante, il che statisticamente parlando è un metodo abominevole. Questo fraintendimento della statistica è la ragione per cui alcuni scherzano su di essa affermando che “la statistica è quella disciplina per cui se io mangio un pollo e tu nessuno abbiamo mangiato mezzo pollo a testa”. Ovviamente non è così, ma la statistica dei redpill è perfino peggio di così, visto che se uno dei due mangia un pollo e l’altro nessuno sostiene che le donne abbiano mangiato tre polli a testa, che i maschi bianchi eterosessuali siano affamati e stiano morendo come le mosche per via della carenza di polli, che i musulmani abbiano preso il controllo dell’intera industria del pollame e che in capo a cinque anni il mondo intero sarà una teocrazia islamica controllata da polli musulmani geneticamente modificati e dalle femministe. Nella realtà, la statistica deve trovare il modo di perdere meno informazione possibile ed è consapevole che in ogni caso sta approssimando e riassumendo, dunque si perde lo stesso qualcosa per strada. La realtà non si esaurisce in incel, cuck e chads o similari, e non si riassume l’avvenenza delle persone in una scala da 1 a 10. Cercare di ridurre la realtà ad uno schema così infantile è un cazzo senza vasello e preservativo nel culo della biologia, della sociologia e della psicologia.
Quello che si verifica in certi ambienti di estrema destra è, insomma, una sorta di volgarizzazione della scienza, dove il termine “volgarizzazione” va inteso nel senso peggiore come deformazione del pensiero scientifico in forme quasi parodistiche e perfino apertamente menzognere. Contrariamente alla pseudoscienza classica, che di solito si muove cercando di attribuirsi un’autorità simile a quella della scienza ma poi di fatto non le somiglia neanche vagamente, questo nuovo tipo di pseudoscienza è a mio avviso più pericoloso, perché invece imita attivamente il linguaggio scientifico in certi aspetti chiave. I parallelismi storici più calzanti sono quelli con il “razzismo scientifico” ottocentesco o quello dei nazisti; entrambi si basavano sulla proposta di schemi iper-semplificati che magari potevano richiamarsi anche a certi dati scientifici, ma poi di fatto li stiracchiavano e storpiavano in forme pazzesche e ridicole, facendo di entità biologiche fluide e sfumate la cui stessa esistenza è discutibile, come le “razze umane”, realtà monolitiche determinanti la totalità dell’esistenza dell’essere umano.
 
Per inciso, molti critici della scienza (“dello scientismo”, preferiscono di solito loro) che invece vengono da sinistra spesso si riferiscono proprio a questa forma di pseudoscienza come proprio target polemico e ci trascinano dentro tutto il metodo scientifico vero e proprio… salvo perdere anche loro di vista quello che è scienza e quello che non lo è. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta.
 
Ossequi