STAR WORDS: “L’uso sessista della lingua”

9 03 2021

Dal 2020 in poi alcuni aspetti della mi vita sono molto cambiati, e il più importante di essi è il mio rapporto con la mia bolla. Il 2020 è stato l’anno segnato dalla pandemia di COVID-19 e dall’esplosione della bomba del politicamente corretto, due questioni su cui mi sono trovato sul lato opposto a un po’ tutta la cultura di centro sinistra che sembra rappresentare la maggioranza dei miei lettori.

Amen and Awomen - 9GAG

Senza perderci per ora sulle questioni collegate al coronavirus, andiamo sul fronte del politicamente corretto, e in particolare sulla più grande cagat… pardon, intendevo, sulla questione più importante, centrale e controversa che è stata sollevata da sinistra ultimamente. E ovviamente non sto parlando di razzismo sistemico, diritti riproduttivi, violenza sulle donne, ma della declinazione femminile dei mestieri.

Il caso ritorna periodicamente alla ribalta ma in questo periodo peggio del solito, testimonianza imperitura di quanto durante il lockdown godiamo di troppo tempo libero, e recentemente il pretesto che ha riportato l’attenzione su di esso sono state le dichiarazioni di Beatrice Venezi, direttore dell’orchestra dell’Ariston, che ha dichiarato la preferenza per il titolo “direttore d’orchestra”, declinato al maschile non marcato, sul femminile “direttrice d’orchestra”.

Apriti cielo.

La poveretta non immaginava la gravità delle sue affermazioni, esternazioni ai limiti del nazismo che con poche parole hanno cancellato secoli di diritti delle donne, avallato femminicidio e burqa, peggiorato significativamente il riscaldamento globale e fatto piangere Gesù.

Riuscite a immaginare un tema più fondamentale su cui un progressista potrebbe decidere di concentrarsi? Letteralmente impossibile, suppongo.

Ora, sarebbe molto facile dire in questo caso che i problemi sono ben altri, ma verrei accusato di “benaltrismo”.

Il che mi permette di fare la prima importante precisazione a riguardo: asserire o implicare che certi problemi meno seri non debbano essere trattati affatto, nel nome del fatto che ce ne siano altri più seri, è un ragionamento chiaramente fallace: quello che chiamiamo “benaltrismo”, appunto. Questo però non significa che sia sbagliato in generale stabilire una gerarchia di rilevanza dei problemi e, sulla base di questa, assegnare delle priorità e stabilire una proporzione di risorse da dedicare alla questione. Che un discorso su come si declina al femminile una parola possa occupare i giornali per giorni rappresenta chiaramente un caso in cui il senso delle priorità nei discorsi e nei problemi va perduto, così come in generale la stessa tendenza è espressa da tutti i commenti indignati di femministi e femministe che trattano Beatrice Venezi come una specie di traditrice maxima colpevole di tutti i mali della terra. Rilassiamoci, tesori, “direttore” è UNA CAZZO DI PAROLA, non un omicidio.

Ma a parte questo, insistere sul fatto che i problemi siano ben altri, qui, sarebbe comunque ipocrita da parte mia, perché io non penso che le declinazioni femminili dei nomi siano un problema piccolo o di scarsa importanza: io penso che NON SIANO un problema, e che la proporzione delle risorse politiche e dell’attenzione pubblica da rivolgervi dovrebbe essere non “poco”, ma precisamente zero. E se mentre di suo il problema in sé è un non-problema, è un problema il fatto che il non-problema diventi un problema, non so se mi spiego. Ed è su questo ultimo aspetto che mi sento obbligato a intervenire.

Ma prima di procedere con l’esposizione della mia opinione a riguardo, occorre levare di torno alcune formalità. La prima di esse è: cosa dice la grammatica a riguardo?

STAR WORDS EPISODE I: THE GRAMMATICAL MENACE

Ora, alcune discussioni sui social mi hanno fatto scoprire che a questo riguardo, nelle bolle ideologiche “di sinistra”, si è sviluppata la credenza che usare il maschile per professioni svolte da donne sia sbagliato, e sia obbligatorio invece utilizzare il femminile. La Venezi, quindi, non avrebbe soltanto annientato secoli di lotte per l’emancipazione femminile, ma commesso anche un errore grammaticale. Il Lato Oscuro è potente in questa donna.

Questo sarebbe un interessante caso di studio su come si crea e moltiplica una credenza completamente infondata in comunità all’interno delle quali nessuno ti contraddice. Perché niente di tutto ciò corrisponde a vero. Ora dovrò dire delle cose che dopo averle dette sembreranno banalità, ma evidentemente è necessario ripeterle.

La prima cosa da fare è enunciare un principio generale su cosa significhi “grammaticalmente corretto”. La grammatica è un insieme di regole formali che ordinano il nostro linguaggio rendendolo comprensibile a tutti i parlanti. Poiché il principio centrale di funzionamento di ogni lingua è l’intendersi a vicenda, in realtà risulta corretto tutto quello il cui uso diventa abbastanza esteso e radicato da essere inteso da tutti con la medesima agevolezza e senza storcimenti il naso. Quindi, a priori, qualsiasi forma può essere corretta, se tutti la usano. Un caso particolarmente tragico che spesso cito a riguardo è la dicitura “il/un pneumatico”. Ragazzi, ma come cazzo fate a pronunciare un obbrobrio simile? È oggettivamente cacofonico perché obbliga a inanellare una “n” e poi una “p” e poi un’altra “n” senza nessuna vocale di mezzo, sembra il nome di un alieno. Eppure, vi garantisco che word non lo corregge, e la Crusca lo ha dichiarato accettabile, pur indicando la forma “lo/uno pneumatico” come più adeguata ad un registro formale. Questo perché è una questione di uso, e se lo usano tutti, raga’, sembra che mi toccherà sopportarlo.

E la Crusca, quando è chiamata a giudicare sulla correttezza di una forma o di un’altra, alla fin fine applica un primo metro che è di correttezza “formale”, ovvero se il costrutto sia coerente con norme sedimentate nella nostra lingua, e poi va a valutare se l’espressione contesa sia utilizzata e diffusa a sufficienza da potersi ritenere “corretta”.

Riguardo alla questione dei femminili dei nomi di mestiere la Crusca è intervenuta esclusivamente per dire che essi sono in generale “ben formati”, ovvero la loro formazione è compatibile con i principi noti della grammatica. Dunque, queste forme sono ammissibili.

Non ha però MAI detto che siano obbligatorie, necessarie, che non usarle sia un errore. MAI. E il presidente della Crusca, Marazzini, è intervenuto sulla questione posta da Beatrice Venezi per asserire che se “direttrice” sarebbe stato corretto, lo è anche “direttore”. Marazzini ha anche specificato che l’uso in questione si chiama maschile inclusivo, o maschile non marcato, che potremmo definire un uso del maschile in senso neutro.

Nella mia bolla ideologica si è diffusa di fronte a questa asserzione una risposta automatica, tipo quelle che metti nella mail: “MA IN ITALIANO NON ESISTE IL GENERE NEUTROOOO!”

Wow. Geniale. Tutti quanti esperti di linguistica. Ci vuole davvero una mente superiore per accorgersi che in italiano non c’è il genere neutro. Probabilmente questo sta in cima al podio degli argomenti più capziosi che abbia mai udito nella mia vita: ovvio che non c’è il genere grammaticale neutro in Italiano, ma in italiano, come in tutte le lingue, esiste un uso neutro dei termini. Non si può sempre specificare il genere sessuale di persone o animali; se io per strada ho visto un lupo non ho modo di sapere se sia maschio o femmina, quindi mi serve una forma che abbia un significato neutro rispetto alla questione. Poiché come molti argutamente notano in italiano il genere neutro non esiste, quel ruolo lo svolge il genere maschile, dunque “ho visto un lupo”, e non “ho visto una lupa” e nemmeno facezie tipo “ho visto un* lup*”.

Questo uso si chiama “maschile non marcato”: il genere grammaticale è maschile, ma include come significato tanto il maschile che il femminile. Quindi per neutralizzare i vari sofisti che ti inchiodano se ti permetti di dire che in Italiano c’è il maschile neutro, con un colpo di mano io dirò sempre “maschile non marcato”, facendo così esplodere come una scorreggia la loro potente retorica.

Chiaramente a decretare se il maschile non marcato sia corretto o meno o se sia preferibile o meno alle forme declinate sarà l’uso, ma è chiaro che in questo momento l’uso o il non uso non è ancora sedimentato in modo tanto preponderante da giustificare chi, da un lato o dall’altro del dibattito, voglia accusare il prossimo di star commettendo strafalcioni linguistici.

Dunque dire che la Venezi è “direttore d’orchestra” è corretto, grammaticalmente. Ma questo non la scagiona dal crimine ben più grave di cui la si accusa: ella ha letteralmente annientato secoli di lotte femministe.

Ma come ha fatto? Donde proviene questo straordinario potere?

Lo scopriamo subito.

STAR WORDS EPISODE II: ATTACK OF THE GENDERS

Tutto inizia, in Italia almeno, con un libro vecchio esattamente quanto me; “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” di Alma Sabatini.

Prevedibilmente l’origine di questo filone è fuori dall’Italia e come al solito gli italiani sono andati a copiare mode straniere anche in questo, ma in sostanza il saggio in questione è una lunghissima masturbazione intellettuale dell’autrice che è andata a spulciarsi Dio sa quanti giornali e annunci di lavoro per catalogarne uno per uno tutti gli usi del maschile non marcato o sovraesteso e dire “questo è il male”.

Non mentirò dicendo di essermi sottoposto alla tortura di leggermelo tutto, perché onestamente non rientra nei limiti della mia umana sopportazione riuscire a sottopormi ad uno sfracellamento di palle così esteso e approfondito. E non sarebbe servito, perché la questione che interessa a me quel testo non la tratta. Ho letto l’introduzione e scoperto che la Sabatini parlava di come la lingua influenza la realtà e il nostro pensiero, di quanto questa idea sia accettata da Tutti i Linguisti® (gli stessi Tutti i Linguisti® che pensavano che il maschile non marcato fosse sbagliato, ipotizzo) ma non pare si prenda il disturbo di fornire referenze che giustifichino questo argomento. Peccato che sia… come dire… IL FULCRO DI TUTTO IL DISCORSO?

Quella tesi del “linguaggio che influenza la realtà” l’ho sentita ripetere ad nauseam in questi giorni, ma nessuno me l’ha mai giustificata con dei dati. Il ragionamento che c’è dietro sembra essere che l’uso del maschile non marcato in qualche modo “invisibilizza le donne”, e poiché “il linguaggio plasma la realtà” – e altri luoghi comuni pseudofilosofici che non significano un cazzo di niente – questo in qualche modo propaga ed alimenta la sottomissione delle donne.

Come lo fa? Perché? In che modo si suppone che agisca?

Domande che uno in questi casi tenderebbe a porsi, ma cui nessuno perde troppo tempo a rispondere. A rigor di logica, è impossibile vedere un modo in cui un uso linguistico come il maschile universale possa influenzare la realtà in qualunque maniera. Come dicevo sopra, il maschile inclusivo è una convenzione linguistica, e in quanto tale si basa sulla comune intesa del suo significato, e il genere grammaticale stesso in generale è una convenzione: va da sé che una -a o una -o alla fine di una parola non abbiano alcuna implicazione sociale se non quella che vogliamo attribuirvi. Se è per questo, in italiano “il contralto” e “il soprano” sono termini di genere maschile, eppure contralti e soprani sono tutti femmine; in che modo questa nozione dovrebbe “plasmare la realtà” o alterare il pensiero o altre facezie di questo genere? Sono solo sequenze di suoni, mica evocano demoni. Se noi ci intendiamo che un contralto è una femmina quale altro effetto potrebbe mai avere quell’uso linguistico sulla nostra psiche?

Difficile rispondere ad un argomento che nessuno ha portato, a dei dati che nessuno ha prodotto, ad un’idea che nessuno ha supportato. Mi sono andato a cercare dei dati su questa presunta influenza del maschile inclusivo sulla psiche delle persone, e non ne ho trovati. Ho chiesto a chi conduceva questa crociata di portarmeli lui, ma nessuno lo ha fatto. Vi prego, lettori miei, se avete qualche dato che indichi 1) la correlazione fra maschile inclusivo e atteggiamenti sessisti e anche 2) il rapporto di causalità del primo verso i secondi, linkatemelo qui sotto. VOGLIO leggere questo lavoro rivoluzionario.

Anche perché sarebbe interessante capire COME CAZZO POSSA FUNZIONARE UNA COSA DEL GENERE. Perché onestamente, non si riesce a ipotizzare una plausibilità o un meccanismo di azione per questo presunto effetto. Normalmente il linguaggio è il sistema che permette di intendersi associando segni a idee: se io vado in Giappone, fermo qualcuno per strada e gli dico con un bel sorriso “sei un figlio di puttana” e poi me ne vado, quello, che non sa l’italiano, resterà un po’ perplesso, cercherà di indovinare cosa potessi voler dire, e non registrerà minimamente l’insulto. Questo perché non ha uno schema di significati da calarvi sopra e che gli permetta di trarne un senso. Non c’è l’intesa fra me e lui secondo la quale “figlio di puttana” è un insulto molto volgare. Questo meccanismo del quadro comune di significato è alla base dell’intendersi e dunque del linguaggio, è sulla base dell’intesa che il linguaggio esercita l’effetto. Non sulla base dei suoni, non sulla base degli intenti, non sulla base dell’etimo. Sull’intesa, solo quella.

Ora, sicuramente le parole plasmano i comportamenti delle persone, questo è così lapalissiano da non necessitare nemmeno di dati a supporto… ma lo fanno attraverso uno schema di significati. La parola evoca il suo significato nella mente dell’altro, è così che lo influenza. “Figlio di puttana” è un insulto se entrambi lo intendiamo come tale, ovverosia solo se io voglio usarlo come insulto e il mio interlocutore lo vede anch’egli come un insulto.
Ma con il maschile inclusivo lo schema di significato dice che quel maschile grammaticale ha un significato neutro, che comprende tanto il maschile che il femminile; non c’è nessuna “invisibilizzazione” o negazione delle donne, sono comprese nel significato. Rispetto al significato, l’unica differenza fra “direttrice d’orchestra” e “direttore d’orchestra” è che nel primo caso voglio specificare che la Venezi è una donna, e nel secondo invece potrebbe essere sia donna che maschio. Quindi questo crea un uso differenziale nel momento in cui io voglia dire, per esempio, “è la migliore direttrice d’orchestra del mondo” che avrà un senso diverso da “è il miglior direttore d’orchestra del mondo”: nel primo ci limitiamo ai direttori donna, nel secondo a tutti. E se invece volessimo dire che un uomo è il miglior direttore d’orchestra, ma limitatamente agli uomini? Allora dovremmo dire “è il miglior direttore d’orchestra uomo”.
Caspita, molto razzista nei confronti degli uomini dover aggiungere quella parola per specificare che parliamo dei maschi, vero…?

No, non è vero. Stiamo solo cercando di trasmettere significato e di capirci, non ci sono chissà quali malignità dietro. La Venezi preferisce enunciare il proprio ruolo senza accentuare il proprio sesso, ma ciò non significa che stia dicendo di essere uomo, o che solo gli uomini possono avere quel ruolo, o che non esistano direttrici d’orchestra donne (seriously? Ma come si fa a pensare un’idiozia simile?). Semplicemente affida alla regola grammaticale del maschile inclusivo l’intesa che potrebbe essere sia maschio che femmina.

Quindi sul piano del significato stiamo parlano letteralmente del nulla: “direttore” o “direttrice” differiscono esclusivamente per una sfumatura di enfasi sulla forma dei genitali della persona. “Il direttore d’orchestra” vuol dire “la persona che dirige l’orchestra”, maschio o femmina che sia. Fine.

Quindi, quale che sia l’influenza che si attribuisce a questo linguaggio capace di “plasmare la realtà”, la cosa strana è che questa influenza prescinde dal significato. Ovvero prescinde dalla funzione stessa svolta dal linguaggio, che è quella di intendersi.

Sì, il maschine inclusivo significa “neutro”, è il suo modo di funzionamento. Eppure, si dice, anche così in qualche modo avrebbe il potere di negare la femminilità. Viene attribuito qui, alla parola, un potere che trascende il suo senso, il modo in cui viene intesa. Vi è in essa un qualcosa di più, un aspetto ineffabile e sottile, subconscio, pervasivo ma impercettibile al tempo stesso.

Uhm.

Una filosofia del linguaggio in cui le parole hanno valore indipendentemente da come le intende chi le ascolta…

Dov’è che abbiamo già visto una cosa del genere?

STAR WORDS EPISODE III: REVENGE OF THE CAZZARIS

Oh, sì, scrissi fiumi di inchiostro per criticare la filosofia del linguaggio di Gualtiero Cannarsi, in un mio articolo che riscosse un discreto successo.

Forse me la giocavo troppo facile: dopotutto il lavoro di Cannarsi è evidentemente disastroso, quindi andare a spiegare quali sono i vizi filosofici che stanno dietro a quel disastro è semplicemente un esplicitare qualcosa che il lettore già sa e con cui concorda.

Non altrettanto immediato, però, è riuscire a capire nel profondo l’estensione e il significato dei vizi filosofici di Cannarsi, e quindi vedere gli stessi vizi se vengono applicati in altri ambiti, magari in modo meno plateale, più subdolo.

Il mio suggerimento è di andare a leggere l’articolo su Cannarsi prima di andare avanti, se non l’aveste già fatto; ma se non volete vi faccio un breve riassunto delle puntate precedenti: Cannarsi è un adattatore che presta la propria fenomenale competenza per gli adattamenti in italiano degli anime dello Studio Ghibli. Più che famoso è famigerato perché i suoi adattamenti sono caratterizzati da una strana e macchinosa traduzione letteralista: Cannarsi non tenta di tradurre il giapponese nella forma italiana che meglio ne riproduce il senso, bensì in quella che meglio ne riproduce la lettera (qualche esempio). I risultati sono quelli che si possono immaginare: non puoi riprodurre strutture sintattiche e costrutti specifici di una lingua alla lettera in un’altra lingua, ne esce fuori una roba che è incomprensibile nella lingua d’arrivo. Difatti, questo è quello che fanno i programmi di traduzione come Google Translate: prendono le parole e cercano la parola corrispondente in Italiano, perché non hanno la capacità di capire il senso e non sanno renderlo. Non cambiano l’ordine delle parole, non cercano il termine che renda meglio l’intento comunicativo dell’originale, non si sforzano di riprodurre le stesse impressioni e in generale gli stessi significati. E Cannarsi fa la stessa cosa, in un certo senso egli traduce cercando di non tradurre, traduce senza occuparsi di rendere bene il senso; egli sembra considerare la traduzione automatica fatta dai programmi appositi una specie di ideale regolativo.

La filosofia del linguaggio di Cannarsi, che nell’altro articolo paragonavo a quella dei letteralisti biblici, sarebbe quella secondo cui in un testo, in una sequenza di parole, il nucleo che conta di più non sia il significato, bensì un universo di rimandi e relazioni esterne fra le parole stesse, che sta nel loro ordine, nel loro suono, nella loro lunghezza e frequenza.

Ora, non è che i rimandi, le allusioni, gli echi, la storia e l’etimo di una parola non siano utili nella composizione o traduzione di un testo. Figurarsi. Sono importanti alla luce di quanto possono precisare e delineare meglio sfumature di senso… ma non fino a mettere in parentesi il senso, non fino a mettere il senso in disparte o perfino oscurarlo. Gli orrori linguistici di un ragionamento secondo cui nell’analisi del linguaggio si può accantonare il problema di cosa esso trasmetta, di cosa esso significhi, in favore di una fantomatica riverenza nei confronti della sua forma, sono autoevidenti: perdi il senso, scrivi cose che non significano niente.

E questo modus cogitandi cannarsiano è lo stesso che sta dietro tutte queste epiche battaglie contro il sessismo nella lingua. “Direttore d’orchestra” al maschile ha un significato neutro, è questo che significa e non c’è molto dibattito possibile a riguardo (specie se a usarlo in quel modo è proprio una donna che dirige l’orchestra, quindi non vi sono possibili ambiguità). Ma alcuni non sono contenti di ciò che significa, non gli basta, e vanno ad immaginare che quella forma possa rimandare ad altro: si guardano la storia, la sequenza dei suoni, l’etimo – generalmente in modo molto superficiale, peraltro – e iniziano a fare ipotesi sul perché e sul percome si usi un maschile grammaticale… e in tutta questa analisi viene però completamente cancellato il significato, e cioè quello di un’espressione che è neutra rispetto al genere.

Esattamente come Cannarsi si maschera da grande cultore di lingua e cultura giapponese e traveste i suoi pastrocchi da raffinati esercizi intellettuali, le riflessioni insistite ed ossessive sul genere grammaticale diventano anch’esse grandissime masturbazioni intellettuali che superficialmente paiono complesse e argute, ma di fatto non hanno alcun contatto con la realtà. Semplicemente, mentre a Cannarsi non riesce bene di farsi passare per genio e cultore della lingua, ai cazzari che impostano epiche battaglie per le sorti dell’umanità su di una convenzione grammaticale questa recita riesce un po’ meglio. Ma non vi sono differenze filosofiche: dietro la mascherata di grande avanzamento scientifico e sociale si nasconde una profonda regressione culturale che riconduce il pensiero ad uno stadio pre-linguistico, una condizione in cui segni e simboli non possono più essere compresi in quanto significanti, ma diventano formule magiche e riti.

Perché in effetti che cos’è la frase “il linguaggio plasma la realtà”, se non una dichiarazione di fede nella magia? La convinzione che segni e suoi influenzino la struttura della natura è alla base del pensiero magico primitivo. Questo non è progresso sociale, politico, scientifico. Molto banalmente, si chiama superstizione.

Conclusioni

E qui si ritorna all’inizio, quando dicevo che i problemi sono ben altri, e c’è chi molto a luogo fa notare che i problemi sono ben altri, ma nel frattempo su questo problema ho scritto sei pagine di word.

Ma d’altro canto, perché in passato ho scritto tanto anche su Cannarsi, quando a me gli anime dello Studio Ghibli manco piacciono particolarmente?

Perché se è vero che la desinenza di un sostantivo non cambia di una virgola la vita di nessuna donna o uomo della terra, e in questo senso si potrebbe semplicemente ignorarla, quello che non si può ignorare è il deterioramento filosofico che questa battaglia porta con sé. Di fatto, quando un dibattito del genere si impone sul pubblico, questo è sintomo di un generale abbrutimento intellettuale, di una perdita del contatto proprio con la lingua, con le sue funzioni, potenzialità e scopi, e in generale di un’involuzione delle nostre capacità di pensiero astratto.

Non ultimo, piantare grane epiche su queste sciocchezze ha tutta una serie di effetti collaterali pericolosi: si vanno a creare divisioni e conflitti politici gravi sulla base di temi di infima importanza, si fornisce agli estremisti un pretesto per incancrenirsi ulteriormente nelle proprie posizioni, e ci si aliena gli alleati. Personalmente, sono stato attaccato ed insultato per le mie opinioni abbastanza da alienarmi per sempre le simpatie di qualsiasi causa femminista, anche quelle che condivido, perché non ho intenzione di trovarmi affiliato o nella stessa squadra con dei nazisti linguistici pronti a darmi di fascio sulla base di una -a o di una -o alla fine di una parola.

In buona sintesi, queste battaglie linguistiche sono in primis inutili, in secondo luogo sono spesso semplicemente sbagliate (come quando si afferma erroneamente che il maschile non marcato sia scorretto), successivamente hanno presupposti filosofici viziati, e come se non bastasse scatenano conflitti che però possono avere conseguenze, queste sì, serie.

Con un rapporto costi-benefici così disastrosamente sbilanciato dalla parte del danno una persona intelligente una battaglia così la abbandonerebbe subito, o quanto meno ne smorzerebbe TANTO i toni.

Non che di persone intelligenti il mondo sia prodigo, purtroppo.

Ossequi.
E anche ossequie, dai, se no invisibilizziamo le donne.





Accusa del Complottismo

25 05 2018

Mi capita giusto oggi sotto gli occhi un articolo dal titolo che è tutto un programma: apologia del complotto.
Non potevo esimermi dal rispondervi, perché esprime un modus cogitandi che già altre volte ho incrociato e che necessita di vigorosa correzione.
Riassumendo tantissimo (ma vi invito a leggere), l’autore, Alessandro Lolli, risponde ad un altro articolo di Emanuele Giusti su L’Eco del Nulla. Emanuele è colpevole, secondo l’autore dell’apologia, di combattere il complottismo con troppa foga e assumendo colori politici. Sostiene Alessandro, dunque, che il debunking venga utilizzato come arma per supportare alcune parti politiche attraverso la costruzione di un simulacro di verità scientifica e la delegittimazione dell’avversario in quanto “complottista”, e dunque sciroccato. Si sorprende, infine, che il discorso anticomplottista sia particolarmente fiorente in Italia, dove effettivamente esiste evidenza storica di alcuni “complotti” reali mirati a nascondere al pubblico delle verità scomode al potere.
Come dicevo, ho già letto altre volte roba simile, tipicamente viene dalle dita di autori di estrema destra o estrema sinistra (che tanto ormai chi le distingue più) che stanno per sparare qualche gigantesca stronzata complottistica, Fusaro style, e mettono le mani avanti con una difesa d’ufficio del cospirazionismo. Tuttavia, non conoscendo l’autore non gli imputerò una simile intenzione, ma mi limiterò a spiegare perché sbaglia su quasi tutta la linea.

Ho detto quasi, quindi diciamo prima dov’è che ha ragione: è vero che a volte si adopera impropriamente il lessico del debunking e del fact-checking per affrontare questioni che non possono, per loro stessa natura, essere oggetto di rigoroso fact-checking. L’autore stesso fa un esempio validissimo in tal senso: che la riforma costituzionale del governo Renzi rischiasse deriva autoritaria è una tesi che, per com’è formulata, non si presta a fact-checking, ovvero ad una verifica rigorosa, stringente, provata punto per punto. Certo si può sicuramente argomentare punto per punto che questa tesi sia sbagliata, o che viceversa sia giusta, ma non si può risolvere la questione mettendoci sopra una pietra tombale nello spazio di un articolo di giornale. Altre tesi similmente strutturate possono essere cose tipo “occorre abbassare le tasse” o “l’immigrazione è dannosa alla società”. Possono essere vere o false, e sicuramente si possono discutere in termini rigorosi, ma non si prestano al formato del fact-checking. Questo perché, attenzione, il fact-checking e il debunking sono modalità comunicative specifiche e ben codificate in un formato. Il debunker deve prendere una notizia, un’informazione ben localizzata e individuata, e valutarne la veridicità effettiva in un breve articolo, o al massimo una serie di articoli se l’argomento è complesso. Per restare sulla riforma costituzionale, uno esempio potrebbe essere se uno avesse detto, com’è accaduto in campagna referendaria, che avrebbe permesso alla maggioranza di “eleggersi il Presidente della Repubblica da sola”; numeri alla mano, questa cosa la si poteva dimostrare falsa molto facilmente e in spazi molto ristretti. Ma il debunker non può mettersi a confutare o validare intere ideologie o worldview, ciò esula dallo scopo e dai mezzi del fact-checking, e non può essere chiamato debunking ciò che si pone obbiettivi così ambiziosi.
Ciò detto, però, ci sono varie precisazioni da fare.
La prima è la seguente: il fatto che il fact-checking non possa prendere come oggetto di confutazione o validazione intere worldview, non può essere preso a significare che il fact-checking sia neutrale rispetto a worldview e ideologia.
Si possono fare esempi molto semplici e molto illuminanti a riguardo. Per esempio, il Cristianesimo non è oggetto di debunking e fact-checking; tuttavia il creazionismo, l’Intelligent Design, la storicità dei Vangeli, le teorie riparative dell’omosessualità, i miracoli, sono oggetto di fact-checking e debunking. Va da sé che un debunker che faccia bene il suo lavoro, e dunque sbufali miracoli, creazionismo e via discorrendo, non farà un gran servigio al Cristianesimo. Ovviamente uno potrà restare cristiano anche al netto di grosse dosi di debunking di miracoli e creazionismo, ma se volessimo sostenere davvero che il debunking di creazionismo e miracoli è neutrale rispetto al Cristianesimo faremmo ridere i polli.
Il punto è questo: come già ho notato altre volte nel  mio blog, la verità non è una cosa neutrale e super partes. Tutt’altro. Oserei dire che la verità è una bomba H ideologica. Certo, può essere difficile rendersi conto di quanto la verità non sia una cosa neutrale, ma diventa più intuitivo se uno pensa al fatto che il suo opposto, ovvero la menzogna, è chiaramente non neutrale: la menzogna di solito serve uno scopo preciso ed è spesso politicizzata. Dire una menzogna è sovente un atto politico, e quanto più si politicizza la menzogna, tanto più si politicizza anche la verità. Suppongo che negli anni ’30 i “debunkers” che sostenevano che non vi fosse nessun complotto ebraico per conquistare il mondo venissero tacciati di anti-nazismo, per esempio. E probabilmente lo erano davvero, anti-nazisti, visto che la teoria del complotto pluto-giudaico era la spina dorsale del nazismo…
E qui si risponde facilmente anche alla sorpresa di Alessandro nel vedere quanto in Italia il discorso anticomplottista sia avanzato (sì, ho usato il termine “avanzato”; perché lo è ed è una cosa buona che lo sia); la risposta è delle più semplici: il primo partito del paese e principale forza di governo, il Movimento 5 Stelle, ha una potentissima componente complottista, così come il suo partner leghista. Il complottismo e le fake news in Italia sono pesantemente politicizzate, conseguentemente la battaglia contro di esse non può che finire con lo schierarsi. Non si diventa anticomplottisti perché si è schierati, al massimo si diventa schierati perché si è anticomplottisti, molto banalmente; ciò non nel senso che se sono anticomplottista automaticamente divento un fanboy di Renzi, ma è chiaro che il PD mi farà meno cagare a spruzzo del M5S perché non ha una componente cospirazionista neanche lontanamente così forte. Per questo il PD parla di combattere le fake news e il M5S subito inizia a ergersi in difesa della “libertà di parola”, con una coda di paglia lunga 830 Km; perché fake news e complottismo sono politicizzate e utilizzante prevalentemente (seppur non esclusivamente) da certe parti politiche.

D’altro canto il problema nel discorso di Lolli è più profondo del non vedere quanto il discorso veritativo sia naturalmente non-neutrale e anzi politicamente incisivo. Il problema è che non sembra comprendere l’essenza stessa del fenomeno complottista. Sembra invocare un anticomplottismo neutrale, piccolo e sostanzialmente innocuo; invoca un anticomplottismo che si dedica solo a sciroccati con copricapo di carta stagnola.
Si potrebbe fare un discorso anticomplottista piccolo, neutrale ed innocuo, se fosse piccolo neutrale ed innocuo il complottismo, ma non lo è. Lolli sembra mancare completamente la portata immensa e la perniciosità sconfinata del discorso complottista; questo perché, come altri, definisce il complottismo solo sulla base dei suoi specifici contenuti e di “impressioni” collegate a questi contenuti, invece che dei suoi metodi. Analogamente a quelli che vedono la scienza come una specie di religione, ovvero come un insieme di credenze più o meno valide, mentre invece la scienza è un metodo, Lolli vede il cospirazionismo come un container di credenze pazzesche, laddove invece è un metodo.
Il complottista, secondo Lolli, sarebbe uno che crede in una qualche cospirazione, e le cui credenze sono completamente pazzesche e ridicole. Questi due requisiti, “crede in un complotto” ed “è sciroccato”, non catturano minimamente l’essenza del discorso complottista e non ci permettono nemmeno di definirlo rigorosamente. I complotti, per esempio, ovviamente esistono; quindi non è che solo perché uno sostiene che ci sia un complotto gli si può dare di sciroccato, potrebbe avere ragione, come nota lo stesso Lolli… E infatti il complottista non è chiunque creda che esistano dei complotti, altrimenti dovremmo esserlo tutti visto che esistono. Resta l’altro requisito per definire il complottista, e cioè che la sua teoria sia evidentemente pazzesca, ma questa è solo la “impressione” di cui parlavo prima: le teorie complottiste sarebbero quelle che suonano folli: che so i rettiliani, gli Illuminati, ‘ste robe qui. O il complotto mondiale degli ebrei, che sarà stato pure ridicolo e folle ma ha dato inizio ad una guerra mondiale.
La cosa che mi fa pensare che Lolli non conosca affatto bene il complottismo è proprio quest’ultimo punto: sembra credere che le teorie cospirazionistiche siano pazzesche, chiaramente assurde, strutturalmente incredibili. Non lo sono affatto.

Cioè, chiariamoci, spesso (ma non sempre) sono contrarie al sentire comune, contrarie alle credenze più diffuse nella popolazione… Ma se le analizzi nella loro struttura logica, la caratteristica preminente delle teorie del complotto è al contrario la loro rigorosa, strettissima coerenza razionale, unita ad un immenso potere esplicativo. Dopotutto, non abbiamo un complottista ante litteram in Cartesio? Ricordate, il “genio maligno” che ci fa vivere in un sogno…? Certo, è molto controintuitivo pensare che viviamo in un sogno prodotto da un genio maligno, ma secoli dopo Cartesio ancora i filosofi non hanno trovato una prova logica conclusiva contro l’argomento del genio maligno. Non è confutabile, logicamente parlando è solido e dannatamente seducente.
Nella mia personale esperienza, ebbi intorno ai diciotto anni il primo contatto con le teorie del complotto, e lo ricordo come estremamente perturbante, perché queste teorie sembravano solidissime ed effettivamente parevano capaci di mettere in dubbio ogni tua certezza, fornendoti al contempo uno strumento interpretativo onnipotente capace di dare nuovo significato a tutto il reale. Dopo aver letto una teoria del complotto sugli ebrei cattivi, improvvisamente sui giornali iniziavo a vedere dappertutto l’opera di questi perfidi ebrei; di qua Israele, di là quel regista che è ebreo, di là c’è Gad Lerner… inizi a vedere ebrei ovunque ed è un soffio rendersi conto di quanto facilmente potrebbero essere colpevoli di tutto. Certo, si potrebbe dire anche che ci sono anche un sacco di fatti che depongono contro questa o quella teoria del complotto, ma le teorie del complotto hanno anticorpi naturali contro i fatti che le smentiscono. Qualche fatto smentisce la teoria? Be’, allora quel fatto è un falso messo in giro dai cospiratori, che sono onnipotenti onnipresenti ed onniscienti come il genio maligno di Cartesio, e dunque possono falsare qualsiasi prova.

Fortunatamente, siamo allenati ad essere un po’ sospettosi di alcune specifiche teorie del complotto, come quella sugli ebrei. Ma solo perché abbiamo visto che razza di danni hanno fatto, altrimenti ci cascheremmo ancora. E fortunatamente siamo attrezzati con il pensiero scientifico, che ci vaccina dal cospirazionismo… Perché in realtà le teorie cospirazioniste sono logicamente del tutto coerenti e non suonano affatto pazzesche, se non sei abituato ad avvertirle come tali per altre ragioni.
Emanuele Giusti fa benissimo a vedere del complottismo anche nella scelta di non votare PD; non è che tutti quelli che non votano PD sian complottisti, ovviamente, ma in molti casi può essere puro e semplice complottismo la ragione di quello come di altri comportamenti… E non è una buona ragione, ça va sans dire. In sostanza quando Giusti parla di complottismo indica la luna, e Lolli ha guardato il dito. Il complottismo non è una serie di teorie sciroccate su questioni ridicole. Il complottismo non è un insieme di contenuti. Il complottismo è un modus cogitandi malato, un virus del pensiero.

Ancora una volta si capisce bene cos’è il complottismo se si pensa al suo opposto, il pensiero scientifico. La scienza non è, come i più credono, un insieme di contenuti, bensì un metodo che può essere applicato a quasi tutti i contenuti immaginabili. Tutto può essere inquadrato e analizzato nei termini del pensiero scientifico.
Allo stesso modo, il complottismo è un metodo, e tutto può essere inquadrato ed analizzato nei termini del pensiero complottistico. Solo che il complottismo è, in buona sintesi, l’opposto del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico parte dai fatti e poi cerca di costruire teorie “unendo i puntini”; il pensiero complottistico parte da un’immagine e poi va alla ricerca dei puntini che la costituiscano.
Se uno va a vedere come si compone un argomento complottista, si accorge che è costituito interamente di fallacie logiche. Avvelenamento del pozzo e altre fallacie ad hominem, per esempio. il complottismo si costruisce quasi tutto su fallacie ad hominem: la veridicità delle affermazioni non viene valutata sulla base del loro merito effettivo, ma solo sulla base di chi è che le sta facendo. Una persona che dice cose che non corrispondano alla teoria può essere automaticamente screditata individuando qualche interesse che la spinga a dire bugie, e dunque tutto ciò che essa dice è screditato. Quello dice qualcosa che non ci piace? Beh, ovvio: è ebreo. Beh, ovvio: è un ateo. Beh, ovvio, e un piddino. Non ci si può fidare di un ebreo o di un ateo o di un piddino, quindi tutto ciò che egli dice è falso. E se sono in dieci, in cento, in mille a dire quella stessa cosa? Beh, saranno tutti ebrei, tutti atei, tutti piddini … Tanto non lo so mica se davvero è ebreo o ateo o piddino, in realtà lo sto deducendo dal fatto che dice qualcosa che non mi piace. Capito il trucco? Dunque se una nota testata nazionale analizza il programma di governo gialloverde e, numeri alla mano, dimostra che non sarebbe realizzabile neanche in un milioni di anni… beh? Evidentemente è una testata che fa parte del complotto nazionale (degli ebrei? della lobby gay? degli americani? dei piddini? Vanno tutti bene, anche quelli che non avrebbero nessun motivo di partecipare al complotto possiamo tranquillamente gettarceli dentro).
Ma hai voglia a individuare fallacie nel pensiero complottista… Come dicevo, ne è interamente costituito. A parte le fallacie ad hominem che sono tutte rilevate in blocco dal complottista, ve ne sono varie altre. Petitio principii: in realtà le fonti affidabili vengono selezionate sulla base del fatto che corrispondano alla tua teoria. Bias di conferma: “unisci i puntini”… Sì, però li unisci secondo un’idea precostituita, quindi in realtà tu selezioni solo le “prove” che sono a tuo favore. Cherry picking: tutti i fatti che depongono contro la tua teoria sono in realtà bugie frutto del complotto e vengono dunque eliminati.
In generale, mentre la pietra d’angolo del pensiero scientifico è la falsificabilità, la pietra d’angolo del pensiero complottista è l’infalsificabilità. È letteralmente impossibile provare ad un complottista che si sbaglia, perché qualunque prova porti contro la sua tesi è frutto del complotto, un artefatto creato da un malvagio, potentissimo qualcuno.

Vista la versatilità del pensiero cospirazionista, si può dunque arrivare a dire senza troppe remore che se ne può trovare ovunque e ad ogni livello di strutturazione del pensiero umano. La mia ex moglie pensa che io sia uno stronzo. I miei colleghi pensano che io sia uno stronzo. Il mio capo pensa che io sia uno stronzo. I miei parenti pensano che io sia uno stronzo. La cassiera che ho insultato stamane pensa che io sia uno stronzo. Sarà mica che sono stronzo…? No! Posso sempre dire che sono vittima di una cospirazione perché, boh, sono “uno scomodo”, sono invidiosi del mio successo o qualche altra pantagruelica cazzata.

In estrema sintesi, se dovessi definire il cospirazionismo, lo definirei così: è il discorso menzognero sistematizzato, raffinato e portato al suo più alto livello di complessità; è l’eleganza massima del mentire, analogamente a come il pensiero scientifico è la ricerca del vero portata alle sue massime raffinatezza ed eleganza.
Ne consegue che, del complottismo, non se ne parla mai abbastanza, e mai abbastanza male. Troppo poco lo si individua e si denuncia, troppo poco si lancia l’accusa di complottismo, troppo poco accorti siamo contro di esso.
E proprio se per una volta il discorso viene reso un po’ più avanzato, ovvero se per una volta qualcuno si accorge che il discorso complottista si sta già pericolosamente gonfiando fuori di misura nel nostro paese e lo denuncia… Viene accusato di essere schierato e di star esagerando perché tutto sommato è roba innocua.

Mala tempora currunt.

Ossequi.

 





Razionali, razionalisti?

10 07 2016

 

Il sito dell’UCCR, “Unione Cristiani Cattolici Razionali” è uno dei miei bersagli preferiti, lo trovo troppo divertente, seppure mi faccia in contemporanea un po’… come dirlo … Mi faccia un po’ senso, ecco. Ma non sono l’unico a trovarlo divertente, soprattutto per via dell’ovvio ossimoro di dichiararsi “razionali” e poi metter su un sito che è fra le dieci maggiori repository italiane di bufale, fallacie logiche e nonsense.

Fa sorridere anche pensare al fatto che il nome vorrebbe rappresentare uno spoof, una presa in giro, dell’UAAR, Unione Atei Agnostici Razionalisti. Gli UAAR si ritengono razionali, sì, ma anche razionalisti. Con il loro nome gli UCCR accusano delicatamente ma inequivocabilmente gli UAAR di essere razionalisti, cosa molto brutta e cattiva, ma non razionali come sarebbero  loro.

Ora, non staremo qui a sottolineare di fronte al mio pubblico, che generalmente ha una certa cultura ed intelligenza, l’ovvietà che l’UCCR non è razionale in nessun senso del termine (seppur del termine “razionale” torneremo a discettare). Piuttosto vorrei discutere due aspetti che non sono altrettanto ovvi: possiamo dire che l’UAAR sia razionalista, e che l’UCCR invece non lo sia?

La risposta a questa domanda è secondo me tutt’altro che scontata. Diciamo che l’appellativo di essere “razionale” piace un po’ a tutti; è molto neutro e sembra un complimento, tutti vogliono definirsi razionali; gli atei di ferro dell’UAAR però ci tengono a definirsi razionalisti, mentre gli integralisti cattolici dell’UCCR ci tengono a prendere le distanze da quella definizione.

Come spesso facciamo su queste pagine, partiamo da questo spunto per un discorso di respiro molto più ampio. Da questa dicotomia comunicativa fra UAAR e UCCR possiamo infatti provare a desumere una vulgata, un luogo comune, un’idea o un quadro di pensiero così diffuso da essere dato quasi per scontato nel pensiero moderno.  Cerchiamo di desumere, insomma, cosa dice quella che gli integralisti religiosi amano chiamare la “cultura dominante” (onde potersi vantare di non farne parte), e poi valutiamo se questa diffusa idea sia effettivamente fondata.

Tutti vogliono essere razionali, dato che tutto sommato non significa niente di preciso. Gli UCCR mandano affanculo tutta la comunità scientifica mondiale ma ancora si fregiano del titolo; stanti così le cose è evidente che lo usano più o meno come sinonimo di “furbo e intelligente dal mio punto di vista” e nulla di più. “Razionalisti” dovrebbe voler dire qualcosa di più preciso, ovvero un affidarsi in maniera preponderante allo strumento della ragione, un credo stentoreo nell’ordine razionale del mondo e nella capacità della mente umana di penetrarne il disegno in maniera completa. Ovviamente, lo strumento principe della ragione è la scienza, dunque il razionalista in teoria è anche uno che crede con fermezza nel metodo scientifico. L’ateo è naturalmente razionalista, o incline ad esserlo? E il credente, il credente è naturalmente irrazionalista o incline ad esserlo?

La vulgata comune è che sì, è così. Perfino gli UCCR, il cui lavoro consiste praticamente per intero nell’usare giochi di prestigio per cercare di far passare l’idea che la scienza sia sempre dalla loro, non ritengono di essere razionalisti. Avvertono, come tutti, la sensazione che “ragione e fede sono cose separate”.

Ecco la vulgata, ecco il luogo comune indistruttibile; il pensiero che ti fa fare gli applausoni se lo dici in un talk show serale, insomma. Sicuramente il credere in Dio e il credere nella ragione e nella scienza sono cose separate che procedono su sentieri separati e trattano oggetti di ricerca separati.

È a partire da questo assunto che praticamente tutti i discorsi su religione e ragione vengono affrontati oggidì. Ci sono minoranze di “incompatibilisti” più o meno radicali, convinti che fede e ragione, approcci separati e diversi l’uno dall’altro, si litighino un campo che dovrebbe appartenere ad una sola delle due. Il sottoscritto è un incompatibilista ateo, ad esempio: la scienza è ciò che serve, non c’è spazio per la fede. Gli integralisti protestanti di stampo americano, come i loro epigoni italiani aderenti di solito alle chiese pentecostali, sono invece incompatibilisti credenti: la Bibbia ci spiega il mondo, non c’è spazio per la satanica scienza. Ma a parte questi casi, più di frequente abbiamo a che fare con compatibilisti che affermano che sì, scienza e fede sono cose separate, ma che proprio in virtù della separazione possono convivere pacificamente. Dunque io credo nella creazione MA ANCHE nell’evoluzione. Credo nella morale sessuale cattolica, MA ANCHE nella coppia omosessuale.
I compatibilisti, in qualche modo, cercano sempre di tenere il piede in due scarpe. Alcuni lo fanno saltellando da una scarpa all’altra, come ad esempio Renzi e Vendola in politica, o come Vattimo in filosofia. Altri indossano la scarpa della razionalità sulla testa a mo’ di cappello e vogliono definirsi ancora razionali, come appunto l’UCCR; altri ancora fanno la stessa cosa con la scarpa della religione ma definendosi ancora credenti o quanto meno neutrali, come ad esempio molti nel CICAP.

Ci sono mille contraddizioni particolari nell’approccio compatibilista, andare ad elencare casi specifici è sparare sulla Croce Rossa, e la gente non mi legge per sentirsi dire banalità del tipo “ma che cattolico sei se sei a favore dell’aborto?” o “ma che razionale sei se ogni volta che la scienza non è d’accordo con te la scarichi nel cesso?”
Il mio punto non è il modo in cui questi attriti fra fede e ragione sono affrontati oppure svergognatamente negati; il punto è che tutti sono d’accordo che fede e ragione siano cose separate. Tutta la discussione che segue è una semplice disputa territoriale: dove si applica la fede, e dove la ragione? L’UCCR non vuole dirsi razionalista perché è convinto che ci siano ambiti su cui la ragione reclama territorio che però vanno consegnati alla fede (nel caso specifico, praticamente tutti). L’UAAR vuole dirsi razionalista perché ritiene che sia la fede che reclama spazi non suoi (anche qui, praticamente tutti).

Ma se invece fede e ragione fossero la medesima cosa? Se essere razionalisti ed essere fideisti fossero tutto sommato sinonimi, o al massimo modi diversi di guardare allo stesso approccio filosofico? Qualcuno l’ha mai considerata questa possibilità?

Sì: nel Medioevo, TUTTI. Nel Medioevo, era QUESTA la vulgata: ragione e fede sfumano l’una nell’altra, non v’è cesura né disputa territoriale alcuna.

Una delle argomentazioni più idiote usate dai credenti per sostenere che la scienza sia dalla loro anche quando non lo è è copiare-incollare un elenco di famosi scienziati credenti che gira in rete da anni, e probabilmente continuerà a girare sempre uguale anni dopo la mia morte: “visto quanti scienziati credenti? È perché non è vero che la scienza contraddice la fede”. L’argomento è chiaramente demenziale per una serie di ragioni, prima fra tutte il fatto che nella lista ci sono prevalentemente scienziati vissuti secoli fa in un mondo, quello della scienza, in cui sei le tue posizioni diventano già obsolete dopo un anno da quando sono state espresse; ma ancora più demenziale è la risposta che danno di solito gli atei a questo demenziale argomento:  “erano credenti solo perché se no lì  bruciavano!”

Chiariamoci: è vero, non conveniva a chi avesse la pelle sensibile al fuoco dichiararsi atei nel ‘600, per dire. Ma chi dica che gli scienziati del passato erano credenti solo perché costretti è uno che non ha letto niente di quello che costoro hanno scritto.

Farò un esempio per tutti; prendiamo Cartesio, da molti considerato iniziatore del razionalismo e fra le altre cose grandissimo matematico. Cartesio era un gran paraculo che non pubblicava niente senza essere sicuro al 100% di non rischiare l’Inquisizione; quindi sì, è vero che era in qualche misura costretto. Però, leggetelo tutto. Il sistema di Cartesio dipende da Dio per funzionare. Seppure Pascal “accusasse” Cartesio di aver costruito un sistema che poteva fare a meno di Dio eccetto “per fargli dare un colpetto per far iniziare a muovere il mondo”, quest’accusa è ingiusta a leggerla oggi. È vero che l’universo di Cartesio è meccanicista e può sembrare che non abbia bisogno di Dio per andare avanti, ma se guardiamo con più attenzione vediamo che Dio è la toppa che Cartesio mette su tutti i buchi del suo sistema, che altrimenti lo farebbero crollare. L’esistenza del mondo esterno, che Cartesio aveva sottoposto al suo dubbio iperbolico, viene salvata attraverso il ricorso a Dio: la garanzia che il mondo esiste è Dio; senza Dio Cartesio è impantanato come una zanzara sulla carta moschicida.

Dunque si mette diligentemente all’opera e prova logicamente l’esistenza di Dio. Come avevano fatto quasi tutti i filosofi prima di lui, peraltro!

Di prove dell’esistenza di Dio oggi non si parla più, e quando se ne parla vanno per la maggiore i miracoli. Dal punto di vista filosofico ciò è buffo, perché i miracoli per definizione non provano niente e infatti i razionali filosofi medioevali usavano un armamentario argomentativo molto più raffinato. Tuttavia è comprensibile se si ricorda la vulgata odierna su fede e scienza: la prova è un concetto scientifico, ricordiamoci che oggi fede e scienza sono considerate rigidamente separate, dunque non si può e non si deve tentare di dar prova di Dio; anche perché se sottoponi Dio al processo della prova lo sottoponi anche al rischio, o meglio alla certezza, della controprova. Per questo oggi i credenti citano prevalentemente i miracoli, ovvero non cercano di provare qualcosa di positivo muovendosi all’interno del pensiero scientifico e razionale, ma piuttosto di scardinare la logica scientifica ed il concetto stesso di prova attraverso l’eccezionale. Per la ragione, che si sforza disperatamente di dare al mondo delle regole, le eccezioni, le imprecisioni, le fluttuazioni, sono una minaccia, un’elemento di caos; ed è lì, in quello spazio pertinente al non-razionale, che i credenti cercano di ritagliare il proprio spazio in opposizione alla ragione, nella posa dichiarata o velata del nemico della ragione.
Ma questo atteggiamento, almeno da parte dei credenti un po’ più intellettualoidi, è abbastanza giovane in senso storico. Non dimentichiamoci che c’è stato un tempo in cui tutti i filosofi, che erano spesso anche scienziati  e comunque i massimi intellettuali del tempo, citavano prove positive e logiche dell’esistenza di Dio. Una di esse, quella ontologica, è semplicemente e palesemente ridicola e ammetto che mi sorprende che qualcuno possa averla seguita davvero anche solo per un momento …  Ma le altre, e mi riferisco soprattutto alla prova cosmologica della “causa prima” e quella fisico-teologica basata sull’ordine razionale del mondo, avevano una logica abbastanza stringente, specialmente la seconda.

Ora, non possiamo accusare Cartesio di essere ateo, quando infilava Dio pure nell’insalata. Nemmeno possiamo accusarlo di essere un irrazionalista: è considerato il padre del razionalismo! E nemmeno possiamo fare quello che piacerebbe ad alcuni credenti, ovvero riconoscergli di essere riuscito a conciliare l’inconciliabilità fra fede e ragione, perché sanno anche le capre che il suo sistema filosofico di fatto era un colabrodo. Il punto è un altro, e cioè che Cartesio non vedeva ancora alcuna distinzione netta fra fede e ragione; sfumavano l’una nell’altra. Cartesio risolveva i problemi logici del suo sistema invocando Dio, e il suo sistema a sua volta provava l’esistenza di Dio. Non stava cercando di conciliare fede e scienza, erano già unite nel momento in cui il sistema era stato concepito. Be’, certo, i gemellini monozigotici stavano iniziando a separarsi in quel periodo, Cartesio probabilmente lo stava vedendo ed è forse l’ultimo che tenterà seriamente di tenerli insieme come succedeva ai bei vecchi tempi. Ma nel suo sistema sono ancora uniti.

Il chirurgo che li separerà per sempre ha, ai miei occhi, il nome di Blaise Pascal. Oggi uno degli idoli dei credenti e di tanti compatibilisti, è forse l’iniziatore, o comunque uno degli avvocati più convinti, del luogo comune di cui dicevo: scienza e fede sono separate. La ragione è sovrana su questioni di ragione, ma deve riconoscere che “ci sono infinite cose al di là di essa”. Su queste cose regna invece la fede, ma attenzione, anche lei non è autorizzata a sconfinare! Il moto dei fluidi lo decide sempre la ragione!
Quali siano le questioni di scienza e quali quelle di fede a questo punto è disputa territoriale, e su questo argomento ci stiamo ammazzando a vicenda ancora oggi, ma è ormai chiaro che sono cose diverse e trattano di cose diverse. La scienza ha un suo regno e la fede ne ha un altro.

Ora guardiamo questi due soggetti: l’ultimo ad essere convinto che scienza e fede fossero una cosa sola, e il primo a dire che non è così. Guardiamoli dal punto di vista psicologico.

Domandiamoci: sono razionali?

Come tutti gli esseri umani, sono razionali a corrente alternata, ma fintanto che non avremo chiarito meglio il termine “razionale” riconosceremo loro che, a parte qualche cazzata come alcune prove dell’esistenza di Dio di Cartesio e la scommessa di Pascal, erano due cervelli abbastanza rigorosi.

Sono razionalisti?

Cartesio di sicuro, ma Pascal molto di meno. Entrambi credono che il mondo abbia un ordine razionale che può essere penetrato dalla mente umana; hanno una fiducia fortissima nella ragione, ma è solo Cartesio ad essere convinto che vi sia ragione ovunque e che essa sfumi naturalmente e comodamente nella fede. E razionalisti quasi come Cartesio erano anche tutti i filosofi cristiani medievali che prima di lui avevano tentato di provare l’esistenza di Dio; non sempre erano razionali, ma sempre erano razionalisti. Anche Anselmo quando scriveva quella robaccia ridicola della prova ontologica lo faceva evidentemente con una fiducia grandissima nel potere della ragione (forse non infinita, diciamo, quello no, ma quella penso neanche Dawkins ce l’abbia). Il famoso “intellego ut credam“, è il motto; ragiono per credere, il ragionamento mi porta naturalmente a credere. E la ragione sembrava indicare inequivocabilmente che Dio c‘era; anche perché se no come spieghiamo il fatto che ci sia questo unico mondo al centro dell’universo intorno al quale tutto gira? Come la spieghiamo l’esistenza della vita e la differenzazione della specie, senza Darwin? Dio è una soluzione abbastanza ragionevole, se proprio ci serve una spiegazione per tutto.

Ma ci serve proprio una spiegazione per tutto?

Nel loro rigido razionalismo, i filosofi medioevali erano alla ricerca continua di una spiegazione per tutto; non riuscivano a fare a meno di una spiegazione.

Questo è un punto importante all’interno del razionalismo, e va spiegato. Prendete la prova della Causa Prima sull’esistenza di Dio; la conoscete, no? Poiché ogni cosa ha una causa, la catena delle cause degli eventi andrebbe naturalmente all’indietro all’infinito; ma ciò è inaccettabile, allora è necessario postulare una causa prima incausata, Dio.
Il difetto di questa prova è evidente: se postuliamo una causa incausata stiamo semplicemente contraddicendo la premessa principale, e cioè che ogni cosa debba avere una causa; e se non è vero che tutto deve avere una causa, allora posso anche decidere che il mondo è iniziato in una grande esplosione senza nessuna causa. “Ma come? E il Big Bang cosa l’ha causato?” è una domanda legittima e naturale, ma non più e non meno legittima e naturale di “e Dio chi l’ha creato?”

Attraverso la questione della causa prima ci rendiamo conto, semplicemente, che ci sono quesiti indecidibili, domande che non hanno una soluzione, fatti che non ce l’hanno una spiegazione. Non a caso, si tratta di una delle aporie sottolineate da Kant: tanto “esiste una causa prima” quanto “non esiste una causa prima” sono soluzioni inaccettabili al problema della regressione infinita delle cause.

E Kant era proprio un nome che bisognava fare a questo punto, perché se Cartesio è l’ultimo vero razionalista puro, Kant è il primo esponente di un razionalismo nuovo, quello cui si rifanno coloro che si definiscono razionalisti oggi. Un razionalismo basato sulla critica della ragione alla ragione stessa. Il kantismo è la ragione che critica sé stessa e si riconosce limitata, e accetta in qualche misura di stare dentro ai propri limiti. È finita l’era della ragione assoluta, la ragione che ordina ogni cosa e che deve spiegare ogni cosa, ed è così ossessionata dal dover spiegare tutto che è pronta anche a spiegarlo male … per esempio rispondendo “l’ha fatto Dio” ogni volta che è in difficoltà.

Il sistema kantiano è filosoficamente molto problematico; ciò nonostante, Kant è oggi probabilmente il filosofo più amato dagli scienziati, perché il suo approccio è lo stesso dello scienziato: navighiamo a vista, lavoriamo per spiegare quello che riusciamo a spiegare, ma non illudiamoci di riuscire a soddisfare mai la ricerca infinita della ragione; lo scienziato vive per le domande molto più che per le risposte. È questa la ragione per cui quando sento dire che “la scienza non può spiegare tutto” come argomento in favore dell’irrazionalismo, sorrido sempre: tutti gli scienziati sanno che la scienza non può spiegare tutto, non foss’altro che perché non vivremmo abbastanza da riuscirci; il senso della scienza non è tanto spiegare tutto, quanto provarci sempre.

Dunque la ragione che sta dietro alla scienza moderna non è una ragione onnipotente, assoluta e onnicomprensiva. Quel tipo di ragione che vuole assolutezza a tutti i costi non può che, in pieno spirito hegeliano, degenerare nel suo perfetto contrario: irrazionalità.

Il che ci conduce finalmente a quella che è la mia risposta al quesito iniziale sul razionalità e razionalismo. Uno scienziato ateo, oggi, forse non dovrebbe dirsi razionalista, perché se ha fatto i compiti a casa di filosofia dovrebbe sapere che la ragione è uno strumento intrinsecamente limitato utilizzato da esseri intrinsecamente limitati per riuscire a gestire meglio le loro vite intrinsecamente limitate. Se il razionalismo è la fiducia senza confini nella ragione che tutto inquadra, tutto spiega e tutto fa funzionare a puntino come un meraviglioso orologio cosmico, uno scienziato ateo non può dirsi razionalista, in senso filosofico. Dovrebbe invece dirsi razionale.

Ma parliamone, adesso, del termine “razionale”, che finora abbiamo lasciato abbastanza in ombra. Ho detto prima che si tratta di una generica denotazione di cui la gente piace vantarsi, come “bello”, “intelligente”, “simpatico”. Son tutti termini che a conti fatti indicano qualcosa di molto vago. Ma si può dare un significato più preciso al termine?

Penso di sì, ma mentre al termine “razionalismo” possiamo dare una collocazione di tipo filosofico, il termine “razionalità” dobbiamo calarlo in un contesto psicologico; non è una posizione filosofica ma un atteggiamento della persona. Io intendo la razionalità come l’uso corretto e circostanziato della ragione all’interno dei suoi ambiti; insomma, quello che ispira il criticismo e il metodo scientifico. E alla base del criticismo c’è proprio il ridimensionamento della fiducia nella ragione; come diceva Pascal, la ragione deve riconoscere che ci sono cose al di là di essa. Quindi direi che in questo senso il razionalismo, che invece vuole sottomettere tutto alla ragione, non può essere razionale.

Ma attenzione, non può esserlo neanche l’irrazionalismo.

Torniamo a Pascal. Lasciamo stare per un momento il Pascal filosofico, e guardiamo al Pascal psicologico, che è praticamente il paradigma psicologico dello “scienziato credente” e delle sue contraddizioni, tormenti e a volte del suo infantilismo. Pascal ci diceva che al di là della ragione ci sono molte cose. Quasi tutte, potrei aggiungere io che su quel punto sono d’accordo; la ragione si può applicare in maniera parziale a molti problemi, ma forse non può risolverne in maniera completa nemmeno uno. Quindi ok, ci sono confini ben precisi alle potenzialità e all’uso della ragione. Ma al di là della ragione cosa c’è?

C’è il caos, c’è il dionisiaco, c’è il movimento incessante e incontrollabile della vita e delle passioni. Questo è ciò che c’è al di là della ragione. Lasciare la ragione significa scendere a patti con quel po’ di follia che attraversa come un filo invisibile tutto l’esistente. Ma Pascal non intendeva questo: al di là dell’ordine razionale basato sulla scienza, egli vedeva l’ordine religioso basato sulla fede. Un ordine non meno rigoroso, e anzi più rigoroso; non meno pervasivo, e anzi più pervasivo; non meno pretenzioso, ed anzi più pretenzioso; un ordine basato sulla rigidità del dogma, sulla gerarchia della Chiesa, sulla fissità dei testi Sacri, sul rigore dei documenti conciliari, sulla punizione attiva dei dissidenti.
Pascal il caos non lo tollerava proprio. Lo vedeva, certo che lo vedeva, mica era scemo; una persona così ossessionata dall’ordine non può fare a meno di vedere se c’è qualcosa di così fuori posto come “una canna che pensa”. Ma una persona così ossessionata dall’ordine non può neanche vedere qualcosa di così fuori posto senza andare subito a raccoglierla, piegarla per bene e infilarla in un cassetto. Ed è quello che ha fatto lui.

Proprio nella famosa scommessa emerge nella forma più chiara il tentativo di Pascal di costruire un argine all’ignoto e al caos come obbiettivo primario: la sua priorità è niente di meno e niente di più che trovare un modus operandi che massimizzi una funzione di profitto; una formula vincente per l’esistenza. Pascal non tenta di applicare a tutto la ragione strictu sensu, e in questo si differenzia da Cartesio. Ma, esattamente come Cartesio, vuole applicare a tutto un ordine gestibile.

Attenzione, ovviamente ordine e ragione sono cose diverse in senso logico; ma spesso vengono scambiate nel discorso. Per esempio, come spiegavo qui, quelli che si scagliano contro il “gender” dicono di farlo in nome della ragione, ma in realtà agiscono bellamente contro la ragione, e piuttosto sotto la spinta della brama di un certo ordine costituito riguardo ai ruoli di genere che oggi non è affatto razionale; e molti ambienti “progressisti” che si scagliano contro la scienza in realtà la scambiano semplicemente con un ordine costituito che non amano, nello specifico, l’ordine capitalistico. Questo accade perché, in senso psicologico, la ragione è una forma di ordine, o forse potremmo addirittura dire che è la forma d’ordine per eccellenza. La ragione è lo strumento principale che rende il cosmo prevedibile e gestibile. Chi è mosso da amore per la ragione di solito ama anche l’ordine (e mi ci metto dentro anche io), e viceversa di solito chi odia la ragione odia anche l’ordine. Ma non è regola assoluta; anzi, addirittura è perfettamente normale aspettarsi che l’amore eccessivo dell’ordine finisca col diventare irrazionale.

Pascal voleva mettere tutto in ordine; resosi conto che non poteva farlo con la sola ragione, allora la completò con la fede. È condivisa fra Cartesio e Pascal un’autentica “ossessione razionalizzante”, ovvero un’ossessione non tanto per la ragione ma per l’ordine che essa porta con sé; un’ossessione che è molto comune fra i filosofi anche oggi, in particolare fra quelli di scuola analitica. E all’apice dell’evoluzione di questa figura psicologica del “filosofo razionalizzante” sta Kierkegaard. In lui l’ossessione per trovare un ordine si rovescia, dialetticamente, nel suo perfetto contrario: gettare alle ortiche ogni ordine e abbracciare l’assurdità. La contraddizione è reale e insanabile in senso logico ma, in senso psicologico, fila magnificamente: nella mente di Kierkegaard la razionalità più totale è distruggere la ragione: gli estremi alla fine si toccano. O tutto è ragione o niente lo è; e il motto non è più “intellego ut credam“, bensì “credo quia absurdum“, credo perché è assurdo. In Kierkegaard è rimarchevole che ciò si verifichi all’interno di un quadro di assoluta consapevolezza, qualcosa che troveremo poi anche in Nietzsche, un altro, questa volta ateo, che passò dal venerare la ragione al gettarla alle ortiche. Ma nella maggior parte dei filosofi odierni lo scambio fra ragione assoluta e irragionevolezza assoluta si verifica silenziosamente, e in questo silenzio si nasconde il suo pericolo, poiché nella ricerca degli “assoluti” riposa il germe della distruzione di ogni adeguazione fra pensiero e realtà.

Come ci si può salvare da questo pericolo costante?

Be’, la risposta è una specie di uovo di colombo al contrario: facilissima da spiegare, difficilissima da mettere in atto.

Bisogna fare gli equilibristi: camminare sempre in bilico sul muretto che separa il caos delle cose dall’ordine dei pensieri, guardando e ponderando ogni passo, sempre pronti a tornare indietro e a correggere il tiro.

Questa non è nient’altro che la pratica giornaliera della vita, il gioco cui tutti quanti già giochiamo, volenti o nolenti. Un gioco incredibilmente difficile, basato tanto su ragionevoli scommesse quanto su imprevedibili colpi di fortuna e sfortuna; un gioco in cui siamo giocatori quanto pedine, che spesso controlliamo ma che altrettanto spesso non controlliamo.

Credo che la maggior parte dei filosofi anche odierni, come Cartesio e Pascal, lavorino incessantemente più che altro per cercare di trovare la formula vittoriosa, il trucco, il cheat, il codice segreto da infilare nel gioco che permetta di evitare di dover pensare ogni mossa con tanta fatica, di dover passare ogni momento a cercare di comprendere e gestire l’incomprensibile che abbiamo sia dentro che fuori, e infine di prendersi la responsabilità dei successi e dei fallimenti collegati alle proprie scelte.

“Cosa è morale?”; ecco una tipica domanda dei filosofi.

“Dipende da un milione di fattori: da ciò che vuoi, da ciò che senti, da chi sta intorno a te, dalle circostanze esterne e dalle circostanze interne; insomma da così tante cose che di solito è impossibile definire in maniera univoca il comportamento moralmente giusto.”; ed ecco, questa era la risposta corretta.

Ma ammettiamolo, sono molto più semplici da mettere in atto risposte tipo “è il comportamento che tu vorresti vedere divenire legge universale”, o “è il comportamento che minimizza la sofferenza complessiva” oppure ancora “è quello che dice la Chiesa”. Per quanto tutte queste risposte richiedano comunque un certo sforzo di “calcolo” dietro (legge universale in che senso? E come si misura la sofferenza? E la Chiesa, ma quale delle tante, e quale delle tante anime interne ad essa?), hanno comunque ristretto il numero di variabili da analizzare da “innumerevoli” a “numerabili”. Che, seppure a scapito della correttezza, risparmia un sacco di tempo. E in ciò, e solo in ciò, sta l’attrattiva ineliminabile di queste risposte-trucchetto.
Mentre di forma ti chiedono di usare in qualche modo la ragione per trovare le risposte che vuoi nella vita, di fatto ti  chiedono in realtà di usarla a regime minimo. E anche quando ti dicono, se te lo dicono, “ci sono cose al di là della ragione”, in realtà non si riferiscono al caos e all’imprevedibilità dell’esistenza e alla necessità di accettarli, no. Si riferiscono a fattori numerabili, ordinati, ordinabili e gestibili attraverso un utilizzo minimo delle nostre facoltà. La scommessa di Pascal: risolvere l’esistenza dell’uomo in dieci righe e un’equazione.

Se questa è la razionalità, il mio consiglio è di lasciarla perdere: siate irrazionali.

 

Ossequi.

 

 

 

 

 

 





Prove tecniche di teocrazia

3 12 2015

Scioccante e rivelatrice la levata di scudi del mondo cattolico integralista contro la docente che ha deciso di cambiare sesso.

Scioccante perché, tenetevi forte, perfino in Iran, una teocrazia islamica, il transgenderismo è ammesso e legale.

Rivelatrice perché in realtà abbiamo già insegnanti transessuali in Italia da anni, e per molti anni nessuno ha detto niente. Per quanto non sia un’esperienza di tutti i giorni, rientra tutta nel range della “normalità”. Solo oggi è diventata uno scandalo pazzesco, grazie agli strali di odio e al terrorismo psicologico dei talebani de ‘noartri. E il fatto getta luce ulteriore sulla già cristallina strategia degli adinolfiani: essi giocano sui pregiudizi sessisti ed omofobici preesistenti nella popolazione, cercando di farli emergere nuovamente al massimo livello di pericolosità.

Bisogna dire che gli italiani obbiettivamente vivono una dissonanza cognitiva: in media rispettano idealmente la dignità delle persone omosessuali e transessuali, al punto che ci convivono fianco a fianco; sono figli, amici, colleghi, genitori e parenti: l’italiano medio non odia il gay perché ne conosce uno. E tuttavia afferma tranquillamente che i gay non dovrebbero avere i suoi stessi diritti.

Tutto ciò ci ricorda Himmler che, nel discorso di Posen, spiegava al suo pubblico di gerarchi le ragioni del segreto attorno alla Shoah:

“Ed ecco che se ne arrivano, tutti i nostri ottanta milioni di tedeschi, e ciascuno di essi ha il suo bravo ebreo. E dicono: ‘gli altri tutti porci, ma ecco un ebreo di prima classe’.”

Ovviamente, però, se tutti quanti conoscono un bravo ebreo o un bravo gay o un bravo musulmano o un bravo transessuale, non è vero che sono tutti porci, e neanche la maggioranza. E qui sorge la contraddizione: perché, se davvero mi rispetti come umano tuo pari, mi dai pari diritti, è ovvio.
Noi LGBT infatti mettiamo in luce continuamente questa contraddizione, e diciamo agli italiani “guardate che, visto che idealmente ci considerate persone vostri pari, dovreste anche rispettarci concretamente attraverso diritti  e tutele”.
Gli integralisti cattolici del GIENDER, dal canto loro, si muovono in direzione opposta, ma dobbiamo rendergliene atto, col medesimo rigore logico: “italiani, visto che non siete disposti a rispettare concretamente gli LGBT, dovreste anche ammettere che sono pericoli per la società e che dovrebbero essere rinchiusi nei manicomi”. Che come discorso fila bene. In effetti l’incoerente qui è, come al solito, il middle voter, che nella dissonanza cognitiva sguazza beato e vorrebbe restarci ad libitum.

E, per corteggiare il middle voter moderato, gli integralisti cattolici cercano di presentarsi come moderati a propria volta. Salvo qualche pazzesco scivolone.

Per esempio, in questa deliziosa intervista, Satan… cioè, l’avvocato Gianfranco Amato (per l’occasione ribattezzato Giuliano da “Il Giornale”, evidentemente avvezzo a trattare con Amato di ben altra levatura se non morale, almeno politica) ammette con suprema lucidità che

“con i gay parificati ai neri e agli ebrei, dire che un uomo non può sposare un altro uomo equivarrà a dire che va impedito il matrimonio fra l’uomo bianco e la donna nera”.

Be’, sì, più o meno qui ha ragione. Siamo chiari, in realtà la legge Mancino già ora non è applicata quasi mai; basti dire che abbiamo la Lega Nord in Italia per rendersi conto del fatto che la Mancino già ora ha un valore quasi esclusivamente simbolico, e consideriamo che se va in porto la Scalfarotto sarà ulteriormente indebolita attraverso il salva vescovi. Quindi, malgrado godrei come una scrofa a vedere certe facce in prigione, non accadrà mai. Ma anche se concretamente lo scenario paventato da Amato non si realizzerà certo con la Scalfarotto, concettualmente il suo ragionamento, ancora una volta, non fa una grinza: se io dicessi che i matrimoni interrazziali sono un abominio sarei a tutti gli effetti un razzista, esattamente come dicendo che i matrimoni gay sono un abominio sarei un omofobo. Lineare.
E infatti Amato ci dice chiaro e tondo che omofobo lui lo è al 100%, e ci rende più chiaro il concetto istituendo un parallelismo logicamente ineccepibile fra la sua omofobia e il razzismo. Potrebbe quasi sorprendere il candore e l’onestà con cui dichiara al mondo di coltivare un’ideologia del tutto sovrapponibile all’Apartheid, ma io mi concentro maggiormente sul suo rigore logico, che è perfetto nella sua malizia. Sostanzialmente ci dice: “odio i gay, voglio discriminare e insultare i gay, voglio sottoporli allo stesso trattamento dei neri durante l’Apartheid, e voglio che me lo lasciate fare senza nessuna conseguenza”. Ma com’è moderato, lui!
Certo non si può dire che non sia stato chiaro e coerente. Peccato che adesso si è trovato dei consulenti di immagine che gli hanno fatto notare che non può dire quello che pensa in questo modo, altrimenti sono sicuro che ci regalerebbe molte altre perle …
E d’altro canto, qualche sospetto di essere di fronte a gente non proprio moderata ci era già venuto sentendo Costanza Miriano sperticarsi in lodi per Wladimir Putin, meritevole di aver de facto reso impossibile l’associazionismo gay e ogni manifestazione per i diritti LGBT nel suo paese.

Ma, se dopo aver letto dichiarazioni abominevoli come questa stessimo coltivando ancora dubbi su chi sono le persone come Amato, ecco che ora al banco di prova ci dicono chiaramente quale sarebbe la prima azione ufficiale se dominassero l’Italia: i transessuali insegnanti li licenziamo o li escludiamo a priori dall’insegnamento perché sono “pericolosi”.

Come gli ebrei ai tempi delle leggi razziali, e allo stesso livello delle teocrazie islamiche attuali o, perfino, peggio.

Quindi, ricapitolando: gay e transessuali non dovrebbero sposarsi e avere figli, non doverebbero poter insegnare, in più per loro dovrebbero essere sospesi i diritti costituzionali di manifestazione e di associazione. Se ci mettiamo dentro pure quello che scrisse Ratzinger nella sua famigerata lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, non abbiamo neanche diritto all’alloggio.

Fortuna che loro sono i moderati che rispettano la dignità degli LGBT, se no che facevano, ci buttavano direttamente nei forni?

 

 

Ossequi.





Il “cambio di manovra”

22 11 2015

 

Ormai internet è pieno di gente che si improvvisa esperta di logica quando non sa manco completare sillogismi aristotelici; donde la moda di scovare e denunciare ovunque le “fallacie logiche”.

Personalmente trovo che tutto questo elencare e classificare le fallacie non sia particolarmente utile: chi sa ragionare rigorosamente non ha bisogno di stare in guardia contro le fallacie, perché gli viene naturale non commetterne e anche vederle quando gli altri le commettono.  Viceversa, chi non sa ragionare rigorosamente le commetterà sempre senza avvedersene, e non solo, finirà anche col credere di vederne dove non ce ne stanno.

Tuttavia devo ammettere che, quando si vede una fallacia, è comodo, a scopi espositivi, mostrare come sia già ben nota a scienziati e filosofi, al punto da denunciarla con il suo nome.

Oggi dunque parlerò di una “fallacia”, o per così dire un trucco retorico, con cui mi scontro spesso nei miei dibattiti. Poiché mi sembra di essere il primo a classificarla, le darò anche un nome: la chiamo il “cambio di manovra”.

Il cambio di manovra è la strategia di chi ha iniziato un dibattito sostenendo con forza un certo punto X, e quando vede che X non regge alla prova dei fatti, lo sostituisce con X1, una specie di X indebolito, facendo finta di aver sempre sostenuto X1.

L’esempio più sgamato di questa strategia lo incontro quando discuto sulla sperimentazione animale, in particolare quando dimostro agli animalisti che una certa procedura sperimentale, che ci viene presentata come la cosa più orrenda e mostruosa del mondo, in realtà va ridimensionata.

Un esempio potrebbe essere il seguente (Al, che sta per Alberto, sono io, Sc, che sta per Scemo, è l’animalista di turno):

Sc: Voi scienziati siete dei mostri! Guarda che orrori fate agli animali [inserisce foto di scimmia o gatto con apparati di rilevamento elletrofisiologici sul cranio]! Aprite il cranio di queste povere bestie e introducete degli elettrodi nel loro cervello! Questa è tortura!

Al: Ma guarda che il cervello non contiene recettori del dolore. Un elettrodo nel cervello non fa alcun male. Certo l’operazione per inserirlo sarebbe dolorosa, ma ovviamente viene fatta sotto anestesia. Questa cosa non è affatto una tortura, infatti a volte viene fatta anche sugli umani.

Sc: Ah sì? Allora fattela fare tu!

Al: No, è comunque un’operazione chirurgica, non è uno scherzo. Qualcosa potrebbe sempre andar male, inoltre richiede anestesia eccetera; lo si fa solo se la persona ha bisogno di un’operazione al cervello oppure a scopi terapeutici, e dà il consenso.

Sc: AHA! Hai visto?! Agli animali mica chiedete il consenso, glielo imponete! Siete dei mostri!

Eccoci. Notato cos’ha fatto Sc in questa conversazione?

Sc ha iniziato proponendo il punto X, ovvero “siete dei mostri perché mettete elettrodi nel cervello, e gli elettrodi nel cervello sono una tortura”; poi quando ha visto che gli elettrodi nel cervello non sono affatto una tortura, e infatti possono essere installati anche a degli umani per ragioni mediche, lo ha sostituito con X1: “siete dei mostri perché fate operazioni agli animali senza chiedere il consenso”.

Ma è completamente diverso! Sc non diceva questo all’inizio, Sc diceva che ero un mostro perché compievo torture causando immani dolori a delle povere bestie. E se X avesse retto alla prova dei fatti, sarebbe stato un punto argomentativo relativamente forte; non è bello creare immani dolori a un povero animale, e se mi dai del mostro perché causo immani dolori ad un animale è abbastanza facile farti applaudire. Ben diverso è dirmi che sono un mostro soltanto perché causo un semplice disagio ad un animale senza fargli firmare prima il consenso informato.

Prima Sc mi ha dato del torturatore. Intendeva dire seriamente che io causassi immani dolori agli animali, ha mostrato foto suggestive di bestie operate con l’intento palese di rafforzare questo punto. Poi, quando ha visto che non sono un torturatore e che il suo punto “immani dolori” era una bufala pura e semplice, ha fatto il “cambio di manovra” per  salvare la faccia, fingendo di aver sempre sostenuto l’altro punto, ben più complesso, che è quello della questione del consenso. Ora, mentre la maggior parte della popolazione sarà d’accordo che non si debbano torturare gli animali, sul punto che invece non gli si debba causare alcun disagio senza consenso, neanche al netto di un beneficio umano, probabilmente non sarebbe d’accordo; quindi non è neanche una differenza da poco quella che Sc cerca di far svanire.

In sostanza, il cambio di manovra è una forma molto raffinata di red herring: quando si è in difficoltà si cambia discorso per deviarlo su lidi più favorevoli alla propria causa. Si tratta però di una manovra per il cambio di discorso particolarmente astuta, che va riconosciuta subito e neutralizzata, ad esempio con una risposta di questo tipo:

Al: Un momento, io non ho mai detto che mettere un elettrodo nel cervello sia una passeggiata o che non comporti alcun rischio. Io ho dimostrato soltanto che non è affatto una tremenda tortura come tu sostenevi con tanto di foto drammatiche a supporto, ma al massimo un disagio. Io ritengo che al netto di un beneficio per la scienza possiamo causare qualche disagio a degli animali; altra questione è una “tortura” come quella che tu affermi esistere.

Insomma, dopo aver detto una cazzata, Sc potrebbe cercare di svicolare cambiando l’oggetto primario del discorso con uno ad esso superficialmente simile, con gli scopi di: 1) di non far vedere di aver detto una cazzata; e 2) ritornare a sostenere il suo punto primario ignorando il fatto che è già stato demolito.

Non permettetegli mai di farlo.

 

Ossequi.

 

 





Per l’ultima volta sul “gender”

3 08 2015

Ormai, tutte le volte che fai notare che la teoria gender non esiste, gli integralisti cattolici ti tirano fuori un qualsiasi scritto di qualsiasi autore non-cattolico della terra che abbia nel titolo la parola “gender” e dicono:

AH, ECCALLÀ! VEDI CHE È GIENDER OMFG!1!!

Dovrebbe essere abbastanza lampante che, dato che “gender” è solo il termine inglese per “genere”, accusare chiunque abbia scritto qualcosa sul genere di aderire ad una certa teoria è più o meno come accusare chiunque abbia usato la parola razza di essere razzista.

Ma ad ogni modo sarà bene chiarire ulteriormente la questione, se no la gente rischia di cadere nel loro trabocchetto:

Essi ti spacciano la “teoria gender” per il pensiero strutturato secondo cui “l’identità sessuale si sceglie” o “la differenza sessuale non ha alcuna importanza”.

La teoria gender in questo senso non esiste, e non c’è niente da discutere a riguardo. Non c’è, punto.

Forse possiamo parlare, al massimo, della teoria queer, una teoria che critica(va, dovrei dire, per quello che conta oggi) il concetto di identità sessuale tout court, e quindi possiamo approssimativamente denotare come la teoria per cui l’identità sessuale “si sceglie” o per meglio dire “si costruisce”. Ma non è che ogni autore che parli di questioni di genere, o di omosessualità o transgenderismo o omogenitorialità sia queer, tutt’altro. La teoria queer è una roba ormai abbastanza fuori moda e non troverete molti suoi seguaci in giro. È anzi piuttosto evidente che se l’identità sessuale si scegliesse, non esisterebbe proprio una questione omosessuale, e dunque una battaglia per i diritti degli omosessuali come oggi viene combattuta non ci sarebbe, perché non esisterebbero gli omosessuali. In effetti, penso che i gienderini vari andrebbero molto d’accordo sul piano teorico coi fautori del queer, visto che di solito sostengono o suggeriscono entrambi che l’orientamento sessuale sia una scelta.

Comunque, la teoria queer ha essenzialmente fatto il suo tempo e non rappresenta la base su cui si instaurano le rivendicazioni LGBT. D’altro canto, se i cattolici stessero parlando davvero della queer theory quando parlano di “teoria gender”, perché non dire direttamente di essere “contro la teoria queer”, che indubbiamente esiste, e inventarsi invece una fantomatica “teoria gender”?

È semplice: è più facile attaccare un uomo di paglia, ovvero un avversario creato da loro e che si comporta e dice e pensa esattamente come dicono loro, che un avversario reale, foss’anche un avversario facile facile come la queer theory.

Infatti la queer theory dice qualcosa di molto chiaro e definito ed ha un suo corpus di autori e scritti di riferimento, quindi è qualcosa di ristretto e identificabile; identificabili sono i suoi seguaci e sostenitori, identificabili i suoi contenuti, identificabili i suoi oppositori. Leggete il mio blog: chi mai potrebbe accusarmi di essere un teorico queer? È impossibile, sono chiaramente un nemico giurato della teoria queer! Invece la teoria gender è una specie di blob tentacolare lovecraftiano nel quale si può incorporare agevolmente tutto e il contrario di tutto: non si può accusare il sottoscritto di essere queer, ma mi si può accusare di essere “gender”, visto che non significa niente di preciso.

Ed è quello che infatti fanno: avete presente la dottrina cattolica sulla sessualità? Ve la riassumo for morons: esistono maschi e femmine, i maschi sono forti e guerrieri e lavoratori e razionali, le fanciulle sono fragili, delicate, materne ed emotive, tutti stanno bene col proprio corpo, tutti si identificano nello stereotipo sessuale di cui sopra, tutti sono attratti dal sesso opposto e solo col fine del matrimonio e della procreazione; quello che non quadra con questa teoria (omosessualità, transgenderismo, sesso ricreativo etc.) è “errore” o “malattia”. Questa è, stringatamente, la teoria “anti-gender”.

Bene. Adesso che abbiamo spiegato la teoria anti-gender, prendiamo tutto quello che non è d’accordo con la teoria anti-gender.

Ffffatto?

Ecco. Quello loro lo chiamano “gender”.

E, sicuramente, questa cosa ESISTE. Nel senso, è ovvio che esiste tutta una teorizzazione sulla sessualità che non corrisponde a quella cattolica. Anzi, oggi è banalmente accettata in tutto il mondo civile; la teorizzazione cattolica ce la siamo lasciata dietro (per la ragione abbastanza ovvia che non puoi permetterti di chiamare “errore” tutto quello che non quadra con la tua teoria). Se non aderire alla dottrina cattolica della sessualità, ammettendo invece l’esistenza e la dignità di varianti del comportamento e dell’identità sessuale umana che si discostano dalla dicotomia di cui sopra, è “gender”, allora sì, ovviamente il gender esiste.

Ma, se è così, chiaramente non si tratta della teoria secondo cui l’identità sessuale si sceglie, né della teoria per cui il sesso non ha alcuna rilevanza nelle nostre vite. Quella, al massimo, potrebbe essere la teoria queer.

Nella loro testa, anche solo accettare l’esistenza dignitosa dell’omosessualità, riconoscendo i diritti civili corrispondenti alle persone LGBT, è “teoria gender”, perché non corrisponde alla visione cattolica del sesso e della società. Ma siccome non possono dire di essere semplicemente contro tutto quello che non segue la dottrina cattolica della sessualità, allora prendono tutto quello che non va d’accordo con la dottrina cattolica della sessualità, lo schiaffano dentro un cestino, lo pressano bene col piede e ci appiccicano sopra un cartello con su scritto “teoria gender”. A quel punto ci buttano dentro un bel po’ di complottismo, iniziando ad attribuire a questo nemico immaginario tutte le peggio minchiate che gli passano per la testa facendolo diventare addirittura una “ideologia”; tanto, ehi, l’hanno creato loro, mica dovranno mai confrontarsi con un sostenitore autentico della “teoria gender” o con qualcuno che la conosce (un rischio che con la teoria queer avrebbero invece corso).

In effetti, di fronte a quest’aggressione micidiale verso la “teoria gender” che stanno portando avanti, non vi aspettereste che qualche suo sostenitore accorra in suo soccorso? Se critichi la teoria queer nessuno nega la sua esistenza e anzi arriva sempre qualche suo sostenitore a difenderla, e questo nonostante sia una teoria estremista che, come tutti gli estremismi, diventa facilmente dannosa per l’immagine del movimento LGBT. Com’è che se critichi la “teoria gender” invece arriva solo gente che ti dice che non esiste? C’è un mega-complottone mondiale per dire tutti quanti che non esiste? E allora perché invece nessuno si è preso la briga di fare lo stesso complottone contro la teoria queer? Non sarà che la teoria queer esiste, mentre la “teoria gender” non esiste davvero? È attraverso questo meccanismo perverso che anche uno come me, che è al di sopra di qualsiasi sospetto di simpatie per la teoria queer, può comunque essere accusato di “teoria gender”, visto che sono contro la teoria cattolica della sessualità e quindi tutto quello che dico fa brodo, sono comunque il “nemico”, ovvero il “gender”.

Ed ecco che i nostro amici hanno creato il mostro perfetto, memori della lezione che ogni regista di film horror di qualche valore si è studiato: il mostro più terrificante è quello che nessuno ha mai visto. E ovviamente non è necessario neanche che esista davvero, per essere terrificante.

E va bene, siete liberi di usare il vocabolario che preferite. Avevate bisogno di un nome collettivo sotto cui radunare tutti quelli che bollate come “nemici”, siano essi di destra o di sinistra, etero o gay, transgender o cisgender, costruttivisti o naturalisti, scienziati o filosofi … non ha importanza: sono il nemico, e dovevate dare un nome al nemico. Bene, lo avete trovato, è “gender”. Buon pro vi faccia.

Ma adesso non cercate di farlo passare come un problema sociale o come un nemico sociale: è semplicemente un termine che voi usate per designare i vostri “nemici”; è reale e definito, sì, ma solo in negativo, rispetto a voi. Quando dovete dargli qualche carattere positivo, ecco che ve lo dovete inventare, perché in sé è un termine senza significato: il senso lo assume solo come contrasto alla vostra idea.

Insomma, esiste la teoria secondo la quale l’identità sessuale è un costrutto sociale e basta?

Penso che possiamo dire approssimativamente di sì, anche se non è molto di moda: si tratta della teoria queer.

Esiste la “teoria gender”?

Se “teoria gender” denota qualsiasi alternativa alla visione cattolica, allora ovviamente esiste questa “teoria gender”; ma solo come termine ombrello per raggruppare tutti i “nemici” della visione della sessualità degli integralisti cattolici. Non certo come “la teoria per cui l’identità sessuale è un costrutto sociale”.

Ossequi





LA SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA

17 07 2015

Ho sempre pensato che, se spiego bene il mio pensiero, certi ovvi fraintendimenti non ci saranno, e nessuno prenderà sul serio certe apparenti “contraddizioni” in ciò che dico che in realtà sono solo frutto di lettura superficiale. E, al limite, ciò è vero; una volta che si sia capito tutto perfettamente anche le apparenti contraddizioni spariranno. Non è però vero all’atto pratico, specie se il fraintendimento affonda in concezioni filosofiche millenarie e ancor oggi molto vive …

Dunque sono passati due anni dall’apertura di questo blog, eppure l’unico post finora che abbia trattato specificamente l’apparente contraddizione fra il mio essere anti-omofobico e anti-antispecista insieme è uscito qualche giorno fa; e ora esce il secondo. Perché una contraddizione, seppur solo apparente, c’è, e va chiarita.

Difatti, vedrete che il più delle volte i filosofi o pseudofilosofi antispecisti sono pro-LGBT, e viceversa i filosofi o pseudofilosofi omofobi sono generalmente specisti. E nella mente di queste persone, l’associazione fra le due cose viene naturale e spontanea. Anche noi, a breve capiremo perché per loro è tale, e poi anche perché invece non lo è affatto per me e neanche, a ben vedere, nella testa del grosso della popolazione.

Intendiamo subito che in termini pratici la questione dei diritti LGBT non ha davvero niente a che vedere con questioni come il vegetarianesimo o la sperimentazione animale: a favore dei diritti LGBT e anche della sperimentazione animale: why not? Quasi tutti i miei conoscenti la pensano così. Omofobo e anche vegano: why not? Proprio l’altro giorno ho fatto un raccapricciante incontro con un’omofoba incancrenita che si dichiarava vegana. Le due cose possono tranquillamente andare insieme nella lotta politica e nella vita di tutti i giorni.

Per questo io ho fatto riferimento ai filosofi antispecisti, e ai filosofi omofobi, o per lo meno, quelli che si divertono ad atteggiarsi a tali. Perché parliamo di persone che hanno fatto la scelta, per una settimana o per la vita, per convenienza o per amore, di occuparsi principalmente dei problemi rigorosamente astratti della filosofia.

Prendiamo i problemi su cui si accaniscono gli antispecisti e gli omofobi: i primi mettono in discussione a vario titolo la netta linea di demarcazione uomo-animale, i secondi invece insistono su una categorizzazione estremamente, e aiutatemi a dire estremamente, rigida riguardo ai sessi: maschio-femmina.

Già ora dovremmo iniziare a cogliere qual è il fulcro del paragone che sto istituendo, ma facciamo qualche altra osservazione empirica prima di arrivarci. Gli attivisti a favore dei diritti LGBT (me escluso, ça va sans dire) spesso impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione maschio-femmina, utilizzando come testa d’ariete contro di essa una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e donna sono violati; ad esempio intersessuali, androgini, transgender, o anche solo donne “mascoline” e uomini “effeminati”. Ad essi gli omofobi rispondono generalmente con una severa riaffermazione della categorizzazione, che generalmente assume la forma dell’uso improprio dell’argomento della normalità. Gli antispecisti generalmente impostano il proprio discorso su una critica della rigida categorizzazione uomo-animale, utilizzando come testa d’ariete una serie di fenomeni reali nei quali questa categorizzazione viene sfidata e i tradizionali attributi di uomo e animale sono violati; ad esempio i famosi casi marginali. Ad essi gli umanisti rispondono generalmente riaffermando la differenza uomo-animale e la sua rilevanza al livello metafisico, spesso usando l’argomento dalla normalità in forma impropria (me escluso, ça va sans dire).

Dovremmo cominciare a vedere dove si va a parare, sbaglio?

Essenzialmente, omofobi e “specisti” si muovono nella direzione di affermare con forza e rigore l’esistenza di linee di demarcazione ontologiche che definiscono la realtà: maschio e femmina, con tutti i loro tradizionali attributi; uomo e animale, con tutti i loro tradizionali attributi.

Antispecisti e pro-LGBT (più che altro i queer theorist, a dire il vero) si muovono nella direzione opposta: il loro è un atteggiamento strutturalmente critico delle categorizzazione ideali.

Gli omofobi ripetono ossessivamente che maschile e femminile sono assoluti ontologici. Gli antispecisti negano continuamente qualsiasi valore effettivo alla demarcazione uomo-animale.

Ecco dunque la ragione dello scontro filosofico: gli omofobi sono realisti platonici, che danno una priorità assoluta alle idee nelle loro elaborazione, mentre gli antispecisti sono nominalisti di ferro, che si spingono indefinitamente oltre nella critica alla validità delle idee nel descrivere la realtà.

“Adaequatio rei et intellectus”; raggiungere l’identità fra il pensiero e la realtà, ecco lo scopo ultimo di questi filosofi, tutti. La differenza fondamentale fra antispecisti ed omofobi è che i primi vorrebbero modificare l’idea per adeguarla in maniera perfetta alla realtà, mentre i secondi vorrebbero modificare la realtà per adeguarla in maniera perfetta all’idea.

Lo scopo di entrambi è “alto”, anche se non molto utile. Ma il problema principale sono i mezzi, necessari, che essi sono disposti ad usare per raggiungere un tale altissimo scopo.

L’idea e la realtà non sono uguali. Non lo saranno mai. La realtà è mutevole e caotica, piena di sfumature, imprevisti, eccezioni e stranezza. Il pensiero è ordinato, rigido, definito, strutturato, e tende a preservarsi uguale a se stesso.

Non potranno mai essere uguali. L’intima natura dell’uno e dell’altro lo impedisce.

Non sorprende dunque se i filosofi dell’una e dell’altra fazione, all’estremo delle loro elucubrazioni, iniziano a sembrare completamente pazzi.

L’ossessione per le idee, portata alle sue estreme e naturali conseguenze, conduce a negazione della realtà. Gli omofobi per esempio insistono a pretendere che la realtà sia quella che sta nella loro idea: maschi e femmina, tutti cisgender, tutti eterosessuali, tutti stereotipati. Messi di fronte alla realtà che quest’idea rigidissima non si applica a quello che vediamo tutti i giorni, confrontati col fatto che esistono transgender, esistono intersessuali ed esistono omosessuali, essi li catalogano come “errori” e fanno finta di niente. Il che è follia pura se ci pensiamo un momento: stanno accusando la realtà di essere sbagliata rispetto alla loro idea. Stanno accusando la natura di aver commesso un errore, rispetto a loro che invece sanno come dovrebbe andare il mondo.

L’assurdo è abbastanza evidente.

E d’altro canto è chiaro a cosa conduce anche l’atteggiamento opposto, al collasso del pensiero. La distinzione fra uomo e animale non è perfetta (e quando mai ve ne sono in natura?), ma è sicuramente una delle più rigide che la biologia ci offra, visto che Homo sapiens è l’ultimo sopravvissuto del suo genere e il suo parente più prossimo (lo scimpanzé) dista milioni di anni di evoluzione da lui. Se si nega la legittimità del processo che consiste nel formalizzare una distinzione almeno verbale fra le due realtà, descrivendo le caratteristiche comuni fra gli umani che non sono normalmente presenti nell’animale, allora finirà che non potremmo neanche dire che una pera e una mela sono due cose diverse: sono entrambe dolci, sono entrambi frutti … e poi cos’è un frutto? Non è forse un fiore modificato? Allora come facciamo a dire che un fiore è un fiore e un frutto è un frutto?

Certo, se ci chiudiamo in camera, bendiamo gli occhi e tappiamo le orecchie ignorando così l’esistenza di qualsiasi cosa che non quadri con le nostre idee, abbiamo raggiunto l’identità perfetta di pensiero e realtà negando la realtà.

Certo, una volta che abbiamo smesso di usare qualunque categoria e qualunque idea e messo da parte qualunque pregiudizio, ovverosia abbiamo smesso di pensare e ci siamo ridotti a puro istinto, abbiamo raggiunto l’identità di pensiero e realtà negando il pensiero.

In entrambi i casi abbiamo vinto, abbiamo conquistato il nostro scopo … Ma il prezzo è stato un po’ altino. Ma che importa? Anche lo scopo era alto. E bisogna capire che il filosofo, che quasi sempre è anche un metafisico, ragiona in questo modo (o per lo meno, in questo modo ragionano i miei avversari): tutto gira intorno ad una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA, che a sua volta esprime in qualche modo quella dualità di approccio che ho descritto.

Dunque tutti i dibattiti particolari, che so, le adozioni a coppie omosessuali, la sperimentazione animale, l’eutanasia infantile, l’allevamento intensivo … non sono questioni che per se stesse siano degne di attenzione. Esse sono manifestazioni particolari, occasionali, di una latente SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA concernente l’adeguazione perfetta fra l’ideale e il reale, che essa sola è degna di attenzione. Dunque se io stringo un contratto di convivenza con un uomo invece che con una donna (perché il matrimonio è soltanto questo all’atto pratico: un contratto di convivenza e supporto reciproco), in realtà io sto affrontando la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione dei sessi! Cavolo, sono più potente d quanto pensassi, con una firma su un pezzo di carta io metto in discussione la natura stessa dell’uomo! Sono un Dio, cazzo! D’altro canto se faccio il dispetto di nascondere della carne nel piatto di un vegetariano non sto facendo solo uno scherzo deficiente, come pensavo, bensì sto affermando la mia posizione sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della demarcazione uomo-animale. Questo se sono fortunato, perché c’è caso addirittura che io stia dicendo la mia sulla SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA dell’esistenza della violenza e dell’oppressione, che rende quindi sciocca e vacua la molto-meno-suprema questione filosofico-antropologica della distinzione uomo-animale!

Suppongo che se mentre mi succhio un’ostrica mi ingoio un granello di sabbia quello sia un atto metaforico della mia scelta di campo all’interno della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA del rapporto fra l’uomo e il suo pianeta; sono diventato Galactus il divoratore di mondi.

Alla luce di questa prospettiva si spiega faclmente l’atteggiamento che i miei avversari assumono immancabilmente verso di me. Se io dico ad una conferenza sulla sperimentazione animale che per me le questioni etiche in realtà sono questioni pratiche e politiche, ecco che “l’antispecista” avvocato Prisco (che sarà contento che finalmente sia riuscito ad imparare il suo nome) mi bacchetta:  “nonnonnò! Non puoi ridurre l’etica a una  volgare questione pratica, ad un semplice insieme di provvedimenti e decisioni provvisorie e circostanziali! È una cosa più ALTA, è una SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA!”  (non saranno state proprio quelle le parole, ma quello era il significato). E dato che non ci sarà modo e tempo di rispondere, non potrò mai obbiettare che se non è una questione politica, e non è pratica, né tanto meno è una semplice scelta personale, e nemmeno ovviamente è teologia perché siamo atei, ma è comunque una cosa più ALTA … Allora non mi è chiaro che cavolo è. Ma di che stiamo parlando davvero? Quando è che la SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA sarà giudicata abbastanza suprema da esser degna di discussione?[1]

Naturale che in questa ottica un po’ perversa necessariamente anche le questioni dell’omofobia e dell’antispecismo sussumono sotto uno stesso concetto universale, perché entrambe manifestazioni della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA della distinzione categoriale che vede contrapposti Aristotele e Platone. Ed è dunque necessario individuare un metodo risolutorio di entrambe le questioni che risponda alla medesima formulazione della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Potrei benissimo dire che la questione dei matrimoni gay non ha nulla a che vedere con l’esistenza differenziata del maschile e del femminile, è semplicemente una scelta di convenienza sociale che renderebbe più piacevole vivere nella nostra società.

Potrei benissimo dire che la questione del vegetarianesimo ha a che fare semplicemente con un calcolo dei costi e benefici, personali e sociali, materiali ed emozionali, connessi al mangiar carne e al non mangiarla; e potrei dunque spingermi alla bestemmia suprema di affermare che fra me, che mi occupo di benessere animale ma non sono vegetariano, ed un vegetariano, non c’è nessuna suprema differenza filosofico-antropologica, ma solo una differenza nel grado e nel tipo di sensibilità rispetto alle questioni in esame.

Ma questo modo di ragionare è intollerabile per il “filosofo”. Per colui che ragiona da “filosofo” (che poi filosofo lo sia o meno è irrilevante) viene naturale come il respiro ricondurre il tutto ad un’unica suprema questione di somma astrazione. Un’astrazione tale che, se sottoposta ad uno scrutinio attento, si rivela vuota.

A ciò io contrappongo la mia modesta, e proprio per ciò blasfema, proposta: e se invece ci accontentassimo di qualcosa di meno della risoluzione perfetta della SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA? Se ci accontentassimo di ottenere un’uguaglianza approssimata fra pensiero e realtà, una somiglianza utile per i nostri scopi da adottarsi nei singoli casi specifici che dobbiamo affrontare?

Da quando mi occupo di biostatistica (non è un caso che questo sia diventato il mio mestiere: applicare perfette idee astratte ad una realtà mutevole e caotica …) non ho mai dimenticato la mia prima è più importante lezione: “un modello non è vero o falso, solo utile o meno utile”.

Quando descrivo i miei dati con un modello lineare sto solo dicendo che esso li descrive abbastanza bene da venire incontro a certi miei scopi.
Non sto dicendo che nella realtà le cose siano esattamente come le descrive quel modello; se volessi cambiare il modello per aderire perfettamente alla realtà avrei da lavorarci per millenni prima di poter inserirvi dentro tutte le (letteralmente) infinite variabili che lo determinano; se pretendessi invece che la realtà sia descritta perfettamente e senza alcun errore da quelle tre-quattro variabili che ho messo nel modello, farei un errore grosso come una casa, e non riuscirei mai a spiegarmi come mai quel farmaco che secondo il modello funzionava su qualche paziente invece non ha funzionato: “ah be’, la natura avrà sbagliato, mica io!”

Il mio modo di muovermi è strettamente pragmatico: cerco quella teoria che è al tempo stesso ragionevolmente “esatta”, perché contiene più informazioni possibile sulla realtà, e anche ragionevolmente “economica”, ovvero sia ancora di applicabilità abbastanza generale da essere di una qualche utilità pratica.

“Ma questa non è filosofia, è scienza!”

“Ma questa non è filosofia, è solo buon senso!”

Sapete che vi dico?

Avete perfettamente ragione!

Questo è il modo di procedere della scienza, che cerca di creare teorie che siano un compromesso fra la generalità e l’esattezza. E la scienza, come disse il saggio, “non è che buon senso accompagnato da solido ragionare”.

La scienza si sa accontentare del proprio essere approssimata. È la filosofia (o meglio, il resto della filosofia, visto che la scienza è una branca della filosofia) che non sa accontentarsi, è la filosofia che pretende che idea e realtà siano perfettamente identiche, ed è disposta a qualunque cosa pur di ottenere ciò.

Sono dunque consapevole che la mia posizione mi sistemi a margine dei dibattiti filosofici di cui sopra, per non dire fuori da essi. Ho notato in passato che gli antispecisti non mi rispondono mai, e neanche gli omofobi. La ragione principale per cui non lo fanno è sicuramente che non vogliono farmi pubblicità (perché non dimentichiamoci che ci sono battaglie politiche in corso qui, e quando c’è la politica in mezzo, la filosofia e l’amore per il confronto possono andare a farsi fottere, una lezione che ho imparato sulla mia pelle), ma è anche vero che non avrebbero nulla da rispondermi, perché io non entro nel “loro” dibattito filosofico. Piuttosto nego che il presupposto stesso di quel dibattito sia corretto, non mi interessa la loro SUPREMA QUESTIONE FILOSOFICO-ANTROPOLOGICA.

Quando mi capita di confrontarmi con questi soggetti in contesti in cui non possano svicolare agevolmente, mi trovo sempre in situazioni divertenti, perché mi scagliano addosso argomenti che non sono rivolti a me, ma “all’altra fazione”!

Gli omofobi mi accusano di voler cancellare la distinzione fra uomo e donna, quando io stesso ho criticato quel tipo di estremismo molto apertamente in passato; mi gettano addosso contro-argomenti per argomenti fondati sulla critica delle idee e che io non ho mai formulato o non in quella forma. Non è con me che se la prendono, il loro avversario predestinato non sono io.

E ovviamente non sono neanche l’avversario predestinato di un antispecista, come spiegavo qui. Io non ho mai affermato “il salto ontologico” fra uomo e animale, ad esempio; non ho mai neanche affermato l’impossibilità di concedere agli animali alcuni diritti, men che meno ho mai parlato di valore intrinseco dell’essere umano. Mi attaccano con argomenti che sembrano fatti apposta per rispondere ai metafisici cattolici, e probabilmente lo sono, ma che semplicemente non riguardano il sottoscritto.

La verità vera è che per chi è immerso fino alle orecchie in quel tipo di dibattito astratto ciò che dico è semplicemente non pertinente. Il loro è un dibattito filosofico in senso stretto, il mio è un discorso che in senso stretto è pratico-scientifico. Ovviamente, in senso lato anche il mio discorso è perfettamente filosofico, più filosofico del loro volendo, ma sicuramente più fisico che metafisico. Perché anche i filosofi che con più violenza si scagliano contro le “idee” sono comunque filosofi: idee sono le loro armi e idee è il loro pane, e di conseguenza rispetto ad uno scienziato resteranno sempre più “astratti” e più “metafisici”.

Dunque, non mi vedranno mai come un avversario filosofico, ma sempre e solo come un avversario politico. Il che, se vogliamo, è un riconoscimento di valore ben più grande. Penseranno che dal punto di vista filosofico io sia “contraddittorio” e non sapranno in che squadra mettermi.

E non verrà mai il giorno in cui capiranno che io non sono in nessun squadra perché non sto giocando al loro stesso gioco

Ossequi.

[1] In parentesi, dobbiamo notare anche che se davvero poi tu imposti il discorso come dicono loro, e cioè con una rincorsa all’astrazione sempre maggiore, ti accuseranno di aver “estremizzato il ragionamento in maniera illegittima”, un’accusa che ho ricevuto mille volte in risposta al mio video su youtube. Quindi devi essere più astratto di quanto non sei, ma comunque non più di quanto lo siano loro se no stai esagerando. Insomma devi fare esattamente come dicono loro per fare bene.





Sulla definizione di “morale”

12 07 2015

Contrariamente a quanto pensa Moore, il problema della definizione della morale non è irrisolvibile, quanto piuttosto è un falso problema.

Forse che i matematici trovano problematico definire anche le cose più strane, come la radice quadrata di -1? No, ovviamente. Le definizioni sono convenzioni, basta accordarsi e possiamo farle come vogliamo. Devono solo essere coerenti; non potremo definire un “triangolo con quattro lati”, perché sarebbe come dire “un poligono con solo tre lati e con quattro lati”, e sarebbe contraddittorio. Ma possiamo benissimo definire un “triangolo rettangolo”, o una “sfera trasparente”, o un “unicorno invisibile”. Che dibattito dovrebbe mai esserci su delle definizioni, una volta che siano coerenti?

Semmai si discuterà poi se questo triangolo rettangolo possa avere due angoli retti. Semmai si discuterà di che materiale è fatta la sfera. Semmai si discuterà se l’unicorno esista. E ci potremmo scannare parecchio su queste cose!

Ma non sulla definizione. Prima definiamo; lo facciamo attraverso una banale convenzione, e badando soltanto di non aver definito in modo contraddittorio. Poi descriviamo, deduciamo, facciamo inferenze; e lì si dibatte e discute e argomenta e filosofa, ma non prima.

Dunque non è un problema definire “morale” più di quanto non sia un problema definire “triangolo rettangolo” o “cavallo bianco”. Basta che la definizione sia coerente ed essa può essere convenuta senza ulteriori discussione. Non è mai la definizione il problema, le definizioni sono il punto di partenza della discussione, non c’è niente da discutere a riguardo.

Piuttosto i filosofi credono, per pregiudizio, che la morale sia o già definita oppure, come Moore, che sia indefinibile (ovvero intuita per semplice indicazione; non perderò tempo a spiegare perché, anche in questo caso, non ci sarebbe nulla da discutere sulla questione; “rosso carminio” te lo faccio vedere, e poi non dibattiamo certo su cosa sia), e dunque che il problema sia discuterla, descriverla. E a quel punto dicono che stanno discutendo della definizione, ma ciò è ridicolo: non puoi pretendere prima di dimostrare teoremi sui triangoli rettangoli e poi di dirci cosa sono i triangoli rettangoli, o addirittura, all’apice della follia, dedurre cosa sia un triangolo rettangolo da un teorema su di esso!
S
tanno discutendo sulla descrizione, sui teoremi; e la ragione per cui non arrivano mai a nulla è semplicemente che non si sono mai accordati sulle definizioni.

Sorprende vedere quanto comune sia questo errore banalissimo fra i logicissimi filosofi analitici: scambiano la descrizione con la definizione. Una cosa da bambini, filosoficamente parlando, eppure si verifica quotidianamente fra persone che in teoria dedicano la vita allo studio della logica.

Ma non sorprende più se ci ricordiamo a cosa serve storicamente il concetto di morale: a convincere gli altri a comportarsi come noi vorremmo.

E dunque, ciò che vogliamo dimostrare non sono dei rigorosi teoremi, ma bensì i teoremi che vogliamo noi.

Tenere nascosti quali siano i loro assiomi, seppellirli il più possibile sotto una muraglia di teoremi incomprensibili e fumosi, celarli anche all’occhio più attento …questo è l’obbiettivo dei filosofi morali. Rivelare chiaramente quali siano i loro assiomi è contro i loro più profondi interessi.

Non lo faranno mai.

Ossequi.





Matrimoni gay e “l’Argomento dalla Normalità”

5 07 2015

Come ho sottolineato più volte, questo blog è fatto per essere letto per intero, e magari pure più volte; questo perché alcune cose scritte in questo o quell’articolo sono presupposte, oppure spiegate più propriamente, in altri articoli. I rimandi sono ovunque e dovrebbero permettere al lettore attento di comprendere il senso complessivo della mia filosofia.

Per esempio, quello che scriverò in questo articolo l’ho già disseminato in altri due articoli precedenti. Dunque alcuni forse troveranno che non contenga particolari novità. Penso però che il punto che tratterò sia abbastanza rilevante da meritare un’attenzione specifica.

Che cos’è l’argomento dalla normalità?

Io chiamerò argomento dalla normalità la forma generalizzata dell’argomento dalla normalità di specie, che a sua volta è un importante contro-argomento per l’argomento dai casi marginali.

Un approfondimento sull’argomento dai casi marginali lo trovate in questo mio scritto, e include anche la mia risposta al suddetto. In estremissima sintesi, l’argomento dai casi marginali è un argomento utilizzato dai sostenitori degli animal rights, secondo il quale, poiché vi sono individui umani che hanno razionalità e consapevolezza inferiori a quelle di alcuni animali, allora dovremmo trattare tali individui umani allo stesso modo di questi animali, o viceversa.

La risposta più intuitiva e più corretta all’argomento dai casi marginali è proprio l’argomento dalla normalità di specie, formulato inzialmente dal filosofo Tibor Machan: non ha senso pensare di tarare un’intera normativa sulla base di casi estremi e/o patologici di ciascuna categoria. Noi non andremo a tarare la nostra morale su quelle quattro scimmie al mondo che riescono a capire un centinaio di parole, mettendole a confronto peraltro con quegli individui umani malati o disabili che sono incapaci di parlare o ragionare. La normativa sarà piuttosto basata sulla normalità di specie: l’uomo normale è dotato di capacità razionali che l’animale normale non possiede, e basarsi su questo dato è semplice buon senso.

Questo argomento è la più ragionevole e definitiva risposta all’argomento dai casi marginali. Ed è generalizzabile: si può infatti pensare che ogni normativa dovrebbe essere ragionevolmente tarata sulle situazioni normali, e che i casi speciali (marginali) meritino semmai un trattamento distinto.
Ma questo modus cogitandi porta sopra una scritta “maneggiare con cura” grande come il Colosseo, e bisogna capirne bene tutti i presupposti prima di utilizzarlo.

Infatti, la critica più semplice ed evidente a quello che d’ora in poi chiamerò in generale “argomento dalla normalità” è che manca assolutamente di rigore formale. Ed è una critica corretta. Ribadisco, non avete letto male, la critica è corretta: l’argomento dalla normalità (di specie o di qualsiasi altra cosa) è un argomento che non risponde a certi requisiti di rigore formale.

Immaginate di dire ad un matematico “ho un teorema, qui, non l’ho proprio dimostrato, ma mi pare che di solito funziona, tranne in un paio di casi strani!”

Rabbrividirà: un teorema non funziona “di solito”, non funziona “nella maggioranza dei casi”, men che meno funziona “nei casi normali”! Come lo decidi quali sono i casi normali e quali non lo sono, scusa? Nel ragionamento matematico si necessita di un rigore per cui se affermi un teorema vale sempre, in tutti i casi possibili ed immaginabili. Se esiste un controesempio, anche uno soltanto su milioni e milioni di casi, il teorema è falso.

Se invece siamo in fisica o in chimica o in biologia, va be’, la questione si fa diversa: possiamo, anzi, dobbiamo, iniziare ad approssimare. “Per un pendolo che fa oscillazioni molto piccole l’arco è approssimativamente uguale al seno dell’angolo”.

Non è uguale, è approssimato.

Ma per i nostri scopi, può anche andar bene; anzi, tutte le misure, nelle scienze naturali, contengono errori e sono dunque approssimazioni. Dunque in scienze naturali potremmo anche dire “più o meno le cose nella maggior parte dei casi vanno così, tenuto conto di un margine di errore accettabile per i nostri scopi”, ma in matematica dovremo dire invece: “le cose vanno così. Punto. Sempre e comunque.”

Quindi prima di utilizzare l’argomento dalla normalità bisogna fare un’importante scelta iniziale di principio: se trattare l’etica come se fosse matematica o come se fosse scienza naturale.

Perché se la trattiamo come fosse matematica, l’argomento dai casi marginali regge eccome, e l’argomento dalla normalità crolla miseramente!

E qui si giunge al dibattito più antico di tutta la filosofia: Platone Vs Aristotele. Platone, che privilegia sempre le idee come essenza di ogni cosa, e Aristotele, che invece ricerca nelle cose stesse la loro sostanza. Sulla strada tracciata da Aristotele, l’etica è una disciplina euristica e di approssimazione, poiché:

“Le azioni, quelle generali sono di più larga applicazione, quelle particolari più ricche di verità, giacché le azioni riguardano casi particolari, e occorre che la teoria si accordi con essi.”

Con Platone, la filosofia, e con essa la morale, è matematica, e dunque non può ammettere approssimazione ed eccezione; con Aristotele la morale è una “tecnica”, un modo in cui noi deliberiamo il modo più facile e bello per raggiungere i nostri fini.

In ottica Aristotelica, e solo in ottica aristotelica, vale dunque l’argomento dalla normalità. Obbiettivamente, non ha senso pretendere dall’etica lo stesso livello di precisione e rigore che pretenderemmo dalla matematica: se una direttiva morale vale nella maggior parte dei casi, la adottiamo, anche se magari non vale in tutti i casi immaginabili. E se poi c’è qualche caso in cui non vale, e va be’, si farà uno strappo alla regola, oppure si ragionerà di volta in volta se sia il caso di modificare la teoria stessa.

L’etica di Aristotele è etica pratica: approssimata, provvisoria. Come tale, è la più vicina alla realtà ed è quella che di fatto viene sempre seguita nella vita di tutti i giorni, come nella politica o nella giurisprudenza.

Purtroppo, però, Platone ha avuto dei seguaci particolarmente famosi, in particolare il tremendo Kant. Fu Kant a sostenere che l’etica dovesse essere un prodotto esclusivamente astratto-razionale, e dunque a ridurre la moralità a proprietà logico-formale degli enunciati normativi. E moltissimi gli sono andati dietro.

Ora, tutto sommato questo dibattito non mi importa più di tanto: l’etica formalizzata di matrice kantiana fallisce sempre. Nel mio articolo precedente mi divertivo a dimostrare come anche l’antispecismo singeriano abbia i suoi casi marginali, e dunque ricada in una regressione ad libitum: se ogni volta che c’è un caso marginale tu devi rigettare la classificazione e crearne una nuova che “metta dentro” anche il tuo caso marginale, allora otterrai che con ogni nuova classificazione, necessariamente imperfetta, avrai un nuovo caso marginale, e dovrai dunque estendere la regressione del tuo ragionamento morale all’infinito.

Un problema che noi etici pratici su base aristotelica non incontriamo, perché anche se il perfetto rigore formale non è rispettato, un’approssimazione può andar bene per i nostri scopi.

MA … ma c’è una cosa che voglio sottolineare mille, e duemila e tremila volte ancora:

Se non ti metti nella prospettiva aristotelica di un’etica pragmatica, flessibile e provvisoria, non puoi usare l’argomento dalla normalità.

In sostanza, quando dobbiamo stabilire un quadro normativo, generalmente siamo costretti a fare una certa violenza alla realtà, nel senso che dobbiamo costruire confini netti dove non ce ne sono in realtà. Nell’altro articolo facevo come esempio quello del ragazzo diciassettenne che magari guiderebbe benissimo, ma non può comunque prendere la patente. Non è giusto, in teoria, visto che sarebbe in grado di guidare. Solo che è più semplice per noi dare dei precisi requisiti di età per avere la patente che andare a valutare ogni singolo caso. Insomma, dal punto di vista pratico, ci conviene approssimare piuttosto che essere rigorosamente esatti.

Ma ci deve essere un guadagno pratico chiaro e molto netto in questa scelta, perché stiamo perdendo esattezza.

Questo lo devo dire necessariamente perché vedo molti omofobi usare l’argomento dalla normalità in maniera inappropriata. In particolare mi riferisco alla questione dei matrimoni gay. L’argomento più usato dagli oppositori è che tali unioni non dovrebbero essere tutelate in quanto non fertili.

Ovviamente tale argomento si sgretola nel momento in cui si faccia presente che esistono coppie eterosessuali sterili o che comunque non vogliono avere figli, e il matrimonio viene comunque concesso loro, insieme all’adozione per chi lo desidera.

Questa contro-risposta può essere considerata un argomento dai casi marginali: le coppie etero sterili come caso marginale di quelle fertili.

Usando l’argomento dalla normalità potremmo dire che le coppie sterili siano un caso “non normale” e dunque negare loro rilevanza rispetto al nucleo della nostra normativa.

Questo ragionamento non è inaccettabile in linea di principio, ma presuppone una prospettiva aristotelica. Non si può sostenere su base rigorosamente logica che una coppia etero sterile sia uguale ad una coppia etero fertile sotto il profilo “rilevante” della fertilità. Non lo è, non è fertile! Dunque sotto il profilo logico-formale non possiamo in alcun modo sostenere che la stessa norma che si applica alle coppie fertili in quanto fertili possa applicarsi a coppie che fertili non sono, quale che sia la loro composizione sessuale. Che una coppia, anche eterosessuale, sterile, non sia fertile, è un’asserzione degna del tautology club; una coppia eterosessuale sterile ed una fertile sono uguali sotto il profilo dell’eterosessualità, ma non della fertilità. Ma davvero, c’è bisogno di dirlo, che sterile fertile?

Se invece ci mettiamo in un’ottica aristotelica e pragmatica, potremmo forse sostenere che una coppia etero sterile è approssimativamente analoga ad una coppia etero fertile per i nostri scopi, che sia un “caso limite”, e dunque che sia conveniente in senso pratico assimilare le due categorie, perché essere più accurati sarebbe impossibile o difficilissimo, o comunque avrebbe un rapporto costi-benefici non accettabile. Ma quali potrebbero mai essere quegli scopi pratici tali per cui sia conveniente escludere delle coppie gay che si amano, convivono, si aiutano a vicenda ma non possono avere figli biologici, mentre invece dovremmo includere delle coppie etero che si amano, convivono, si iutano a vicenda ma non possono avere figli biologici?

E infatti è qui che sorgono le difficoltà insormontabili per l’omofobo di turno, perché di fatto non c’è nessuna ragione pratica per cui dovremmo trovare particolarmente conveniente approssimare una coppia etero sterile ad una coppia etero fertile, se davvero è la fertilità che conta.

Quando io dico che a volte conviene approssimare, do per scontato un dettaglio banalissimo ma che certi fini pensatori si dimenticano: si usa l’approssimazione, ok, ma solo laddove sia impossibile o sconveniente raggiungere un’esattezza maggiore.

E non è questo il caso! Se davvero la fertilità è ciò che conta (AMMESSO E NON CONCESSO), allora, più che trattare le coppie etero sterili come “caso limite”, è molto più semplice escluderle: ad esempio, si può imporre un test di fertilità obbligatorio positivo a tutte le coppie come precondizione per il matrimonio. O meglio ancora! Potremmo decretare che il matrimonio contratto cominci ad avere effetti legali solo ed esclusivamente in seguito alla procreazione! E soprattutto, potremmo e dovremmo negare la possibilità dell’adozione di figli, poiché essa permetterebbe di bypassare il problema della fertilità, ed è la fertilità che conta, giusto?

Dunque non c’è alcuna ragione pratica per “approssimare” una coppia etero sterile ad una fertile che non sia applicabile anche alle coppie gay. E, ripetiamolo la terza volta: un’approssimazione ha senso solo ed esclusivamente in virtù del fatto che sia più pratica rispetto all’esattezza perfetta. Se così non è, l’approssimazione si chiama in un altro modo: si chiama pregiudizio ed errore.

In sostanza, loro vorrebbero usare l’argomento dalla normalità per stabilire un rigoroso limite logico-formale per l’aderenza a certi requisiti.
Ma il problema è che l’argomento dalla normalità, dl punto di vista rigoroso, assolutista e logico-formale, è clamorosamente sbagliato. Sbagliato, sbagliato come affermare che l’arco di un oscillazione non nulla sia uguale al seno dell’angolo. Non lo è, fine della discussione.

Ora, diciamo le cose come stanno: nel diritto, ancor più che nella morale, Aristotele regna incontrastato: approssimazione, flessibilità, adattamento, fanno giustamente la parte del leone nelle scelte moralmente rilevanti. Così dev’essere, e infatti i più svegli di voi avranno già notato come anche quando io uso l’argomento della normalità di specie contro gli antispecisti, comunque non affermo MAI che sia impensabile o insostenibile che gli animali abbiano alcuni diritti. Possono e, difatti, la legge ne concede alcuni ad alcuni di essi. Semmai, lo uso come argomento contro il loro assolutismo morale, ma non lo uso per sostenere un mio assolutismo morale.

L’argomento dalla normalità non è e non potrà mai essere una mazza da piazzarsi in mano agli assolutisti morali perché possano dettare le leggi universali di come dovrebbe essere il cosmo. Non funziona così, semmai è proprio al contrario: è una souvenir per ricordar loro che alla fine tutte le nostre perfette costruzioni morali e legali sono solo un espediente per sopravvivere.

Oggi funzionano, domani chissà …

Ossequi.





Sulla Fallacia Naturalistica (e altre)

4 07 2015

L’altro giorno riflettevo su quanto la questione fallacie logiche sia trattata con scarsa serietà in giro per la rete (uno dei danni di internet). Oggi inciampo nell’esempio che forse rende meglio l’idea di quanto sia importante essere addentro a tutti i meccanismi del pensiero, prima di poter davvero iniziare a pontificare sulle fallacie logiche.

Mi accorgo infatti che, Su Wikipedia inglese, la fallacia naturalistica è messa fra le fallacie “condizionali o discutibili”.
Dopo un iniziale stupore (la fallacia naturalistica è probabilmente la più demenziale di tutte le fallacie), capisco rapidamente cosa si intende: Wikipedia ha ragione; ma la cosa non è affatto immediata… E in effetti, in realtà lo stesso discorso potrebbe valere per quasi tutte le fallacie logiche.

Ma per ora concentriamoci su quella naturalistica, che è una delle più interessanti. Ovviamente, se la interpretiamo nella maniera più stringente, asserire che a partire dal fatto scientifico non si possa inferire nessun argomento di rilevanza morale è, chiaramente, sbagliato, e dunque non saremmo di fronte ad una vera fallacia.

Nel caso più semplice, ad esempio, se io dico “si deve vaccinare i propri figli”, lo dico basandomi sul fatto scientifico che il vaccino li protegge. Quindi, dato che io voglio proteggere i bambini (questo assioma sottinteso è di estrema importanza, come vedremo) è ovvio che sapere che il vaccino li protegge è rilevante per la questione. Quindi sicuramente è falso che lo “essere” non abbia alcuna rilevanza per il “dover essere”.

Ma il discorso non finisce qui. Nell’argomento qui sopra mi sono limitato a considerare lo “essere” in senso molto stretto, come uno stato materiale delle cose, una legge inesorabile. Se intendiamo “essere” in questo senso, resta tutta una serie di cose moralmente rilevanti che stanno fuori dall’essere, perché sono psicologiche, e non strettamente materiali. Mi riferisco ai nostri interessi, i nostri sogni, le nostre speranze, i nostri valori. Le nostre azioni sono tutte vincolate, ovviamente, alle leggi fisiche naturali che governano la materia; ma, all’interno dei confini stabiliti da tali leggi, sono quelli che io genericamente chiamerò “valori”, ovvero le nostre pulsioni psicologiche, a direzionare le nostre azioni, determinamdone quindi la rilevanza morale.

Ma i fatti psicologici non sono, solo in quanto psicologici, “meno fatti” dei fatti materiali. Quindi, i fatti psicologici dovrebbero a pieno titolo figurare nella categoria dei fatti naturali. Ergo, se teniamo in conto una definizione più lata di “essere”, che includa anche i nostri valori sotto la categoria dei “fatti naturali”, diventa possibile inferire il comportamento morale interamente in base a fatti.
In quella che sembrerebbe una flagrante contravvenzione della fallacia naturalistica.
A titolo di esempio, se mi baso solo sui fatti materiali, un ragionamento del tipo:

(1) “l’overdose di barbuturici uccide, DUNQUE non devo somministrare overdose di barbiturici”

E’ chiaramente fallace. Dal fatto che l’overdose di barbiturici uccida non consegue che non dobbiamo usarla, perché questo presuppone che l’atto dell’uccidere sia in quella circostanza “sbagliato”. Mettiamo che stiamo praticando un’eutanasia volontaria: è chiaro che in questo caso il gesto di somministrare un’overdose di barbiturici potrebbe benissimo essere considerato morale.
Ma se noi teniamo in conto anche i fatti psicologici, l’inferenza diventa legittima:

(2) “l’overdose di barbuturici uccide E io non voglio uccidere, DUNQUE non devo somministrare overdose di barbiturici.”

È evidente che l’inferenza ora regge.
È stata una sfumatura a trasformare un’inferenza naturalistica assolutamente illegittima in una assolutamente legittima, mediante la semplice esplicitazione di un assioma valoriale, ovvero di un dato di fatto psicologico che definisce cosa per noi è desiderabile e cosa non lo è. Dall’assioma valoriale passa la differenza fra una fallacia naturalistica e un ragionamento morale perfetto e assolutamente rigoroso.

E non è ancora finita!

Abbiamo visto che l’inferenza morale naturalistica può essere corretta quando siano stati inclusi i fatti psicologici nelle sue premesse; e che può essere impropria quando tali fatti non sono inclusi, ma sottointesi come nella (1), che è valida a patto che si accetti un secondo assioma di partenza, di natura psicologica.
Ma c’è anche un terzo caso, quello in cui essa è completamente insensata. Si tratta del tipico modo in cui la usano gli integralisti religiosi. Ad es:

(3) Un bambino nasce solo da un uomo e una donna, DUNQUE le adozioni a coppie omosessuali sono sbagliate

Qui diventa del tutto evidente che da punto di vista logico ci siamo impantanati nella follia. La premessa non ha nessun legame con la conclusione, nulla può essere derivato dalla nozione di come il bambino nasce su come il bambino sia opportuno allevarlo. Anche se inserissimo l’assioma valoriale “noi vogliamo che i bambini crescano bene”, la formula diventa

(4) Un bambino nasce solo da un uomo e una donna, E noi vogliamo che i bambini crescano bene, DUNQUE le adozioni a coppie omosessuali sono sbagliate

Ed è ancora evidentemente insensata. Si può vedere facilmente dal fatto che, se sostituissi la premessa con un’altra a caso, potrei avere una cosa del tipo:

(5) L’Everest è il monte più alto del mondo, E noi vogliamo che i bambini crescano bene, DUNQUE le adozioni a coppie omosessuali sono sbagliate

Che dal punto di vista logico è equivalente: un’inferenza impossibile.

Dunque la fallacia naturalistica è così complicata da comprendere proprio perché attraverso sfumature apparentemente insignificanti nella sua formulazione può passare dall’essere un ragionamento perfetto, ad un ragionamento improprio ma a volte accettabile in contesti informali, ad una follia priva di qualsiasi significato logico, scientifico o filosofico.
Nel caso della (2) avevamo omesso un passaggio importante, e questo ci aveva portati a deduzioni non rigorose. Nel caso della (3), addirittura, si sottointende un circuito psicologico del tutto diverso ed illogico, che, come spiegavo in questo articolo, passa attraverso l’antropomorfizzazione della natura e l’appello alla tradizione, inanellando dunque non una ma molteplici fallacie logiche (in questo caso si può parlare infatti di una fallacia di tipo diverso: l'”appello alla natura”).

Ed è veramente di sfumature che stiamo parlando; spesso gli stessi filosofi non se ne avvedono…

Dunque non parliamo di cazzatine che tutti possano comprendere da sé in un baleno, e con questo lungo, lungo articolo, oltre a fare chiarezza su una delle fallacie più difficili da comprendere e maneggiare con vera padronanza, voglio mettere in guardia contro tutti gli approcci facili al ragionamento filosofico.
Il ragionamento filosofico non necessita di conoscenze e nozioni pregresse, il che lo rende accessibile ad un pubblico più vasto di quello scientifico. Ma richiede, non meno del ragionamento scientifico, una grande e profonda padronanza del pensiero, con un allenamento ed un approfondimento costanti.

In soldoni: non è che se avete letto il Trattato sull’Euristica di Schopenhauer siete diventati maestri del ragionamento; non è che se leggete un manuale del tennis diventate tennisti, non è che se vi guardate tanti porno diventate atleti sessuali.
Sto riscontrando troppo spesso in giro la tendenza dei più disparati personaggi a improvvisarsi raffinati pensatori gridando “fallacia logica di qua, fallacia logica di là”. In realtà, il più delle volte sono in grado di riconoscere soltanto una superficiale somiglianza fra certi ragionamenti che sentono e i corrispondenti ragionamenti fallaci. Ma una somiglianza superficiale non basta: come vi ho appena mostrato, differenze sottilissime di esposizione e strutturazione del discorso possono trasformare un delirio da manicomio in un argomento degno di comparire su una rivista internazionale di filosofia morale.

Il pensiero logico è frutto di allenamento, approfondimento e ricerca individuale; non c’è la pappa pronta. E chi si illude di averla perché ha letto la pagina di Wikipedia sulle fallacie logiche, tipicamente ne ha ricavato solo arroganza extra.

Ossequi.