La poetica del piccione

7 12 2015

 

Avevo promesso nel mio ultimo post sul tema che avrei parlato, finalmente, di qualche media che parla efficacemente di eroismo e grandi valori. E lo farò. Prima, però, vorrei fare una cosa che avrei dovuto fare un po’ di tempo fa e che ancora mi resta come sassolino nella scarpa.

Povia.

VI lascio cinque minuti per ridere e risistemarvi, poi tornate qui e parliamo un po’ di Povia.

Il grande artista e sismologo noto per aver scoperto che i terremoti li causano le persone camminando, ultimamente è caduto non in disgrazia ma peggio, è ormai sostanzialmente la parodia di se stesso; ma si fa comunque risentire ogni tanto. Oggi, in particolare, leggevo di una sua lamentela: da quando ha scritto “Luca era gay” gli sbattono tutti le porte in faccia.

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In realtà è perfettamente naturale che, se introduci consapevolmente nel corpus della tua produzione “artistica” un’opinione gravemente offensiva a uno strato significativo della popolazione, la tua fama e il tuo successo ne risentano. Ma puoi consolarti, Giuseppe: hai perso fan gay, amici dei gay, genitori dei gay, simpatizzanti dei gay; però ti sei fatto un sacco di amici nei circoli di Forza Nuova. Voce girava, ai tempi di Luca era gay, che i neofascisti di cui sopra ti avessero dedicato anche un santino. Peccato che Forza Nuova con le sue percentuali dello zerovirgola sia una fetta di mercato così poco appetibile … ma la vita è fatta a scale; e poi quando tutto manca c’è Salvini.

Ma visto che Povia, dopo aver tentato di spaccare il mondo con Luca era gay tentando di farne il suo personale “Citizen Kane”, si lamenta del fatto che viene ricordato solo per quello, gli farò un favore, e per quanto difficile sia parlare di questo personaggio seriamente, ci proverò: oggi parleremo dunque della poetica di Povia, e ne parleremo senza citare Luca era gay.

Che non è così difficile, visto che Luca era gay artisticamente parlando non è niente e non è mai stato niente. Povia era bravino a comporre musiche orecchiabili e a elaborare una certa poetica degenerata che approfondiremo qui a breve; ma in Luca era gay non ha fatto questo, bensì si è limitato a scrivere un manifesto politico antiomosessuale; perfino la musica era una specie di pseudo-rap fecale del tutto dimenticabile, e che infatti non è sopravvissuto alle lyrics propagandistiche che accompagnava. Peraltro, che l’avversione di Povia verso gli omosessuali abbia tratti di rancore personale è ormai più che un’illazione, quindi mettiamola così: Povia ha scritto un pezzo che era per metà un semplice pamphlet omofobico, e per metà il resoconto della sua avversione nevrotica per gli omosessuali. Artisticamente, non ci dice niente; io invece, non me ne voglia l’Arte, ma qui voglio dare un giudizio artistico su Povia, quindi atteniamoci all’arte che ha prodotto, anche se è un’arte degenere, e ignoriamo completamente Luce era gay.

Dopotutto, ben prima che arrivasse Luca era gay, tutti canticchiavano “i bambini fanno oh”; perfino io ce l’avevo sull’mp3, accanto ad “Asereje” ed altra musica commerciale utile solo a scopo di auto-narcosi intellettuale. E tutti quanti erano innamoratissimi, oltre che della musichetta carina, del meraviglioso, poetico testo.

Tutti?

No. Attenzione, ho detto che la musichetta era orecchiabile e non credo possiamo negarlo, per questo la ascoltavo. Ma io anche ai tempi del liceo era già intellettualmente più maturo e riflessivo di un buon 60% della popolazione italiana, ed era dunque naturale che quelle lyrics mi puzzassero di marcio lontano un chilometro.

Puzzavano, sì, ma ancora eravamo ben lontani dagli abissi dell’orrore che ci propinò con “Siamo italiani”, e anche dal divertente trash autoreferenziale dei suoi ultimi exploit complottari, quindi la mia critica a Povia a quei tempi si riassunse in un unico commento che, ricordo, proposi alla riflessione di una compagna di classe mentre tornavamo a casa da scuola, usando suppergiù queste parole: “a me il testo di quella canzone non piace. Mi pare che tutta questa esaltazione dell’innocenza del bambino, come se il bambino fosse migliore dell’adulto solo perché non capisce le cose, alla fine si riduca ad una celebrazione dell’immaturità e basta”.

La fanciulla non era esattamente un carattere riflessivo, per cui non mi rispose nemmeno. Ma quanto avevo ragione! Povia confermò tutto nel suo seguente successo, ma prima di parlare di piccioni restiamo un attimo sui bambini. Povia celebrava i bambini; potremmo essere tentati di paragonarlo, in questo (e solo in questo), a un Carroll o a un Saint-Exupery. Tuttavia … cos’è che nel bambino viene celebrato da Povia?

Fa “oooh”. Questa è la cosa principale. Si stupisce di ogni cosa e vede la meraviglia in ogni cosa: poi è spontaneo; fa la pace e non fa la guerra; tutte cose che per gli adulti, ci dice Povia, non valgono, soprattutto se parliamo di lui stesso che infatti “se ne vergogna un po’”. Ma per quanto Povia possa avere tantissime cose di cui vergognarsi, non è affatto vero né che le cose che ci ha presentato siano esclusive dei bambini né che tutti i bambini le abbiano. Certo, il bambino si stupisce di tutto e ogni cosa gli sembra nuova, ma questo perché è nuova; un bambino si appassiona al topolino la prima volta che lo vede, e magari dopo fa i capricci perché i genitori gli comprino un topolino; ma nella maggior parte dei casi rapidamente si scoccerà del topolino e alla fine si scorderà pure di dargli da mangiare. La meraviglia, nel bambino come nell’adulto, è collegata all’esperienza del nuovo e nell’inusuale; l’adulto può dunque perderla, o può forse anche non averla mai avuta, ma può benissimo anche conservarla. Io da bambino amavo il senso della meraviglia, del nuovo e dell’inusuale, così sono diventato scienziato: ora ogni giorno ho qualcosa di nuovo in questo mondo di cui meravigliarmi, e sono sicuro che il mondo non finirà mai di stupirmi e di farmi dire “oooh”. In più, rispetto a quando avevo dieci anni, sono più maturo, più intelligente, più colto, più forte, più responsabile, più spigliato nei rapporti umani e posso fare molte più esperienze … insomma, ora sono di più.  Ho perso qualcosa per strada? Forse sì, ma crescere significa anche lasciarsi dietro certe cose per guadagnarne altre, e siamo tutti chiamati a crescere: il bambino è fatto per crescere, è fatto per diventare di più di un bambino.

L’esaltazione del bambino nelle parole di Povia è un’esaltazione di un’innocenza che più correttamente si delinea come semplicità, o meglio ancora, semplicismo. Un bambino non avrebbe la più pallida idea di come risolvere i problemi della guerra o della fame, non sarebbe in grado di gestire un matrimonio, di coordinare un lavoro e un migliaio di altre cose che da adulto potrà fare; per questo deve crescere. Il non saper fare queste cose è una sua minorità rispetto all’adulto, e se vogliamo celebrare qualcosa del bambino, direi che non è certo la sua minorità. Al massimo la sua assenza di pregiudizi, il suo polimorfismo, il suo possedere un potenziale grezzo non ancora realizzato, ma proprio per questo anche non ancora sprecato.  Non è quello che ha fatto Povia, che invece ha compiuto il proprio grande debutto nel mondo del cantautorato con un’esaltazione della minorità intellettuale travestita da esaltazione della purezza. Ma potremmo considerarlo semplicemente un passo falso, una bambinata; oppure si potrebbe dirmi che ho frainteso ciò che intendeva, che sto vedendo cose che non esistono, che sto stiracchiando l’interpretazione. Si potrebbe dirlo, se non avessimo sentito a seguire la fantastica canzone del piccione, “Vorrei avere il becco”, che se ben ricordo vinse il festival di Sanremo.

Andiamo al nucleo della canzone: l’elogio del piccione. Un elogio, peraltro, molto orgoglioso; Povia sceglie il piccione proprio perché è il piccione, e sono pronto a scommettere che lo ha fatto con la piena consapevolezza che nessuno avrebbe mai dedicato una canzone al piccione, e comunque non per le ragioni per cui l’ha fatto lui.

Chiariamo prima di tutto che animale è il piccione, o più precisamente cosa rappresenta nell’immaginario collettivo.
Il piccione si è guadagnato presso i cittadini il nomignolo di “topo di fogna con le ali”. È grigio, indiscutibilmente poco attraente sul piano fisico. Ha un’andatura goffa e inelegante. Uno sguardo che non denota intelligenza. Scagazza in testa alle persone, sui cornicioni, sui monumenti. Ha un verso garrulo e sgradevole, come se stesse continuamente per vomitare. Mangia qualsiasi merda che trovi in giro. È superfluo al’ecosistema e strettamente dipendente dagli umani: coevolutosi con l’ambiente urbano, non potrebbe proliferare nella natura selvaggia e dunque anche l’ecosistema non ne ha alcun bisogno. È sostanzialmente inetto, o per lo meno, l’immagine del piccione è quella di un animale inetto. Tutto nel piccione, dallo sguardo vacuo, al portamento dondolante e sgraziato, al verso irritante, e alla sua pessima abitudine di ricoprire di guano strade, monumenti ed edifici, emana mediocrità, fastidio e banalità.

Intendiamoci, si possono trovare motivi di lode e ispirazione per metafore altamente poetiche in tutte le creature viventi; Umberto Saba dedicò a sua moglie una poesia in cui la paragonava fra le altre ad una pollastra, ad una mucca, ad una cagna, perché in ciascuna di queste bestie aveva trovato una bella dote da dedicare all’amata. E probabilmente potremmo trovare qualche grande dote anche nel piccione; che so, è adattabile, prolifera bene, e a ben vedere non è così stupido. Ma questo è assolutamente irrilevante per quanto concerne la canzone di Povia, che non ci svela certo niente sull’intelligenza segreta del piccione.

Il piccione di Povia è perfettamente fedele alla sua immagine popolare: si “accontenta delle briciole”, “vola basso”, infesta i cornicioni, fa perfino quel verso orrendo fra una strofa e l’altra. Lo stesso Povia ammette candidamente che è un “brutto paragone”, ed effettivamente mi riesce difficile immaginare paragoni peggiori del piccione (forse le zecche?) … Insomma, un animale mediocre e fastidioso.

Riprendiamo qui il discorso che feci quando recensivo Troy: c’è qualcosa di male a parlare di cose e persone banali e mediocri? Assolutamente no, non c’è un argomento che l’arte non debba trattare, e la mediocrità è un soggetto molto interessante, perché è realistico, è la vita vera; e questo pesa. Dunque Povia ci presenta i suoi temi, in questo caso l’amore coniugale, nella loro complessità; per questo ciò che ci racconta non è straordinario, per questo sceglie un animale banale e mediocre, perché vuole semplicemente mostrare la realtà, cacciandoci dalla testa quelle cazzate su mariti principe azzurro e mogli pornostar dilettanti.

O almeno, questo è quello che direi per confondere la gente se io fossi Povia. Perché in realtà non è affatto così, non è affatto quella l’immagine. L’immagine è quella della nonna che sta da cinquant’anni col nonno, che non è altro che una favola come quella del principe azzurro: I matrimoni dei nostri nonni erano tutti o quasi combinati, l’amore era d’importanza del tutto secondaria e visto che non erano basati sull’amore andavano avanti anche senza. Oggi metà dei matrimoni finiscono col divorzio, e malgrado sia possibile idealmente arrivare a cinquant’anni di matrimonio felici, è qualcosa di estremamente difficile, e porselo come aspettativa non è “volare basso”, è al contrario fare grandissimi sogni. E dopotutto, lo dice lui stesso, “che ci fanno due piccioni in una favola?”; dunque è confermato, ci sta raccontando una favola disneyana, con tanto di irrealistico lieto fine.

Ma i piccioni non c’entrerebbero per niente, qui. Possono stare benissimo nella realtà, ma nella fantasia non c’è veramente spazio. La fantasia serve per superare i limiti della realtà e per immaginare qualcosa di più grande; le aquile, quelle sono animali da favole, non i piccioni. La decisione di non parlare di aquile ma di piccioni è sensatissima, ma non è compatibile con l’immaginario sognante che ci somministra.

Ora, la questione omofobia, seppure sicuramente abbia aggiunto al mio fastidio per il Povia un forte elemento di avversione personale, nonché l’irritazione particolarmente bruciante nel vedere un propagandista d’odio come quello parlare di bimbi unicorni arcobaleni e altra melassa, arriva insieme ad un senso di stridore estetico fortissimo che già prima i suoi testi mi causavano; quello stesso tipo di stridore che mi ha causato Troy, e più o meno per gli stessi motivi. Povia non racconta la storia vera di un “piccione” nella sua complessità, ma semplicemente celebra la piccionaggine come massimo valore umano. Ovverosia, non solo siamo piccioni nella vita di tutti i giorni, non solo non dobbiamo aspirare ad essere niente di più che piccioni, ma perfino i nostri sogni più sfrenati dovrebbero ricalcare l’ideale della piccionaggine, che rappresenta una specie di stato di perfezione spirituale e il segreto per la felicità. Insomma, per dirla col film Trainspotting:

“Il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai.”

E dirò, non è neanche così male, è quello che cerchiamo quasi tutti nelle nostre vite; ma è chiaramente un’immagine inadeguata a rappresentare una specie di ideale romantico, perché non è altro che banale conformismo piccolo borghese. Chi può mai pensare che una cosa simile possa essere proposta come ideale estetico?

Una persona: Povia. E infatti le canzoni di Povia rappresentano un manifesto con cui cerca di costruire e rafforzare una sua estetica, una tipica estetica piccolo-borghese ridotta veramente ai minimi termini. La musichetta è orecchiabile per essere immediatamente digeribile, le parole sono semplici, i làlàlà qui è lì, i contenuti mielosi e dozzinali … le opere tipiche di Povia ricalcano pelo a pelo tutti gli stilemi delle canzoni fatte esclusivamente per vendere, e in questo senso non sarebbero differenti da un’Asereje qualsiasi o da decine di canzoni che hanno vinto Sanremo, e se Povia si limitasse a quello forse forse sarebbe ancora sul mio mp3 (e non avrebbe scritto Luca era gay). Il punto è un altro, il punto è che tutte le evidenze ormai convergono sulla certezza che Povia non scriva roba melensa, dozzinale, ipocrita e in ultima analisi perfino offensiva per vendere, ma che lo faccia perché ci crede, e che si sia sempre mosso con un preciso intento programmatico e un chiaro e solido messaggio: quella che vi presento è l’essenza della vita, e la mia è un’alta forma d’arte; il piccione è il massimo cui potete e dovete aspirare.

Da qui l’esaltazione acritica di Povia per tutte le bandiere piccolo borghesi sotto cui le persone che si identificano con l’uccello grigio si riuniscono per tubare, e che sventolano da sempre fiere sugli altari della Destra: Dio, patria e famiglia!

Be’, su Dio Povia non si è mai dimostrato particolarmente fervente o esperto di teologia; per quanto riguarda la famiglia, si esibisce al Family Day e non servono altri commenti; per quanto concerne la patria …

Be’ … “Siamo italiani”.

Una canzone dalla bruttezza tale che non può essere descritta a parole, costringendomi a ricorrere ad una formula matematica nel tentativo di rendere l’idea:

Siamo italiani = (Merda12 X Vomito5) + smegmasudore stantio

Nella sua bruttezza, quella canzone rappresenta la conclusione naturale della poetica del piccione, ovvero dell’esaltazione della mediocrità, della celebrazione della mancanza di aspirazioni e di doti umane. Dopotutto, come scriveva Schopenhauer, “Ogni miserabile babbeo, che non abbia al mondo nulla di cui poter essere orgoglioso, si appiglia all’ultima risorsa per esserlo, cioè alla nazione cui appartiene”.
Ma non voglio condannare qui il patriottismo in toto; dopotutto possiamo immaginare la patria non soltanto come il semplice terreno su cui siam nati, ma anche come il sistema socio-politico-economico di cui facciamo parte, e dunque in un certo senso come “la squadra in cui militiamo”. Un giocatore ha tutti i diritti di essere orgoglioso dei successi della propria squadra, e così sicuramente un italiano ha diritto di essere orgoglioso dei successi e della grandezza dell’Italia.

Dunque Povia, che si sente erede di Gaber e De Andrè, adesso parlerà di tutte le grandi cose che hanno fatto gli italiani in passato e continuano a fare nel presente. Ok, mi toccherà di nuovo sentir parlare di pittori rinascimentali, magari di pasta e buon cibo, e perfino forse dei mari e del sole per i quali non abbiamo in effetti alcun merito. Insomma, adesso Povia ci parla di cosa significa essere italiani oggi!

Vediamo un po’ come lo fa (e questa è l’unica canzone che cito integralmente per la particolare profondità della sua bruttezza, che può essere apprezzata in forma pura, così com’è uscita dal cu … ehm, dalla penna dell’artista):

Siamo Italiani su le mani che possiamo conquistare pure il cielo

siamo italiani due parole mente e anima

perché corriamo corriamo tutti quanti verso la libertà

e ci crediamo per questo che lasciamo quasi tutto a metà

Siamo italiani su le mani che ci possono soltanto che invidiare

noi siamo quelli che prendono i pugni ma tanto non cadono

e combattiamo combattiamo perché ognuno il suo dolore ce l’ha

ma superiamo perché la forza ce l’abbiamo nel Dna

e non molliamo mai e non molliamo mai e non molliamo mai

Siamo italiani sogniamo che tutto andrà meglio domani

ma con il cuore sempre qua ma con il cuore sempre qua

siamo italiani su le mani

Siamo Italiani siamo quelli siamo quelli che hanno dentro la speranza

che i nostri figli vivranno in un mondo migliore per questo saranno migliori di noi

ed è vero perché noi siamo ancora troppo furbi lo so

ed è vero ed è vero che ci piace arrotondare un po’

ed è vero ma la vita qui è dura e come si fa

ed è vero ma ci crediamo che l’amore ci salverà

e non molliamo mai e non molliamo mai e non molliamo mai

ed è ora ed è ora di cambiare questa storia

Ci meritiamo di vivere un mondo che abbiamo inventato noi

perché siamo positivi nonostante tutto siamo positivi eh sì… siamo italiani puoi dirci quello che vuoi

e non molliamo mai e non molliamo mai e non molliamo mai

Siamo italiani sogniamo che tutto andrà meglio domani

ma con il cuore sempre qua ma con il cuore sempre qua

siamo italiani su le mani

 

Ok, trovatemi nella canzone qui sopra un riferimento concreto a qualcosa che noi italiani facciamo di bello e buono, o abbiamo fatto di bello e buono, o anche solo abbiamo di bello e di buono.

Niente.

A leggere questa canzone siamo degli sfigati del cazzo che vivacchiano fottendo il prossimo. Abbiamo una generica forza d’animo, tanto amore, altre doti positive nel DNA (e che quindi non abbiamo fatto nulla per meritarci, ma indubbiamente ci sono) sempre molto generiche … Ah, “viviamo in un mondo che abbiamo inventato noi”. Tipo? Elaborare un po’?

No, questa canzone non celebra l’italianità in nessuna maniera. È una specie di lettera d’amore personalizzabile, potresti metterci qualsiasi nome e nessuno potrebbe capire di chi si sta parlando:

Le rose sono rosse le viole sono blu

Ti amo da morire spero tanto anche tu

Coccole coccole coccole

Baci baci baci

Carezze carezze carezze

Sei affascinante e spero di avere un figlio con te

Kiss ❤

 

Da Giuseppe a *inserire nome destinatario/a*

Provateci, nella canzone sostituite a “Italiani” “Spagnoli”, o “Americani”, o “Napoletani”, o “Cinesi” o “Brasiliani”; sarà perfettamente credibile. L’unico riferimento che potrebbe suonare strano se applicato a certi popoli è il fatto che siamo furbetti e arrotondiamo, ovvero il peggiore stereotipo italiano in circolazione. Povia ha scritto una canzone per celebrare gli italiani che contiene un solo vaghissimo riferimento all’Italia, ed è uno stereotipo negativo.

Il patriottismo non è necessariamente negativo, dicevo, perché il sistema Patria può compiere grandi e nobili imprese in grado di ispirare e infiammare. Ma il patriottismo di Povia è invece esattamente quello di cui parlava Schopenhauer: miserabili babbei che festeggiano semplicemente il fatto di essere nati cento metri al di qua del confine invece che cento metri al di là. Ma che stronzata è mai?

Be’, ma è ovvia conseguenza della poetica del piccione: se gli italiani festeggiassero il fatto di avere alcuni dei migliori ricercatori del mondo, il fatto di aver dato i natali e la formazione a venti premi Nobel, di aver fatto del nostro paese la capitale mondiale della moda, di avere una tradizione culinaria e un patrimonio artistico che sono fra i più ricchi del mondo, o qualunque altro dei soliti stantii cliché su quant’è figa l’Italia, sarebbero già in contravvenzione con la poetica del piccione: che, devo confrontarmi con i premi Nobel? Con gli artisti del ‘500? Cosa sono tutte ‘ste cose grandi e belle?! Non se ne parla, io sono un piccione, fare versi striduli e mangiare briciole di pizzetta per terra nel parco è la chiave dell’esistenza, per me. Se proprio devi esaltare qualcosa di me, puoi esaltare questo: che sono un furbetto che vivacchia fottendo il prossimo.  Ecco, ora sì che posso tubare felice! Glu glu o ruu ruu o qualsiasi sia l’onomatopea per quel suono orrendo.

Dio patria e famiglia, dicevamo. Be’, non vado pazzo per nessuna delle tre, ma almeno rappresentano concetti elevati. Cosa ne fa Povia?

Dio? E dove sta in Povia? “Laicamente” lui non lo nomina quasi mai, e quando dedicò l’altra sua stupidissima canzone a Eluana Englaro si espresse in modo molto poco “cattolico” sull’argomento, quindi non si direbbe un fervente credente. D’altro canto, però, se dici di essere ateo Povia immediatamente ti dà contro, e in questo è assolutamente identico al 99% dei credenti di questa terra, che diventano cristiani o musulmani o quello che sia solo quando ciò sia funzionale a dire a qualcuno “io sono migliore di te”.

Famiglia? La famiglia come la intende lui è una cosa nata nella generazione dei miei genitori, ed è già morente nella mia; non rispecchia nessuna tradizione millenaria, ma nemmeno rappresenta una qualche transizione verso forme nuove. È semplicemente la famiglia media cui lui è abituato, quella che ha sempre visto nella sua breve vita. Sa benissimo che non c’è niente di oggettivamente malvagio se uno fa una famiglia diversa da quella, ma il punto è che “gli stona” la diversità. Anche in questo, è uguale al 99% della popolazione mondiale: tutto ciò che serve a dire “sono migliore di te”, purché non richieda di esserlo davvero.

Patria?  Per Povia si tratta di un vuoto “egocentrismo ampliato”, e viene da parte di uno che non è capace nemmeno di infilare da qualche parte la solita banalissima citazione del rinascimento per far capire all’ascoltatore che ‘sta canzone parla d’Italia e non di Slovenia. Non è un patriottismo solido, appassionato e documentato, ma semplicemente il solito tentativo del mediocre di trovare qualche motivo di dignità. Anche qui, roba che serve a dire a qualcuno “io sono meglio di te senza aver fatto nulla per esserlo”.

Quindi non sono nemmeno Dio Patria e Famiglia gli oggetti della Celebrazione di Povia, ma piuttosto rispettivamente il conformismo delle idee, il conformismo dell’identità e il conformismo dei rapporti umani. Che sono poi gli stessi valori sotto cui si riunisce l’estrema destra italiana che fa capo a Salvini, che si ricorda che i crocifissi non vanno tolti e non si accorge che già non ci sono, che vede le famiglie omosessuali e fa finta che non ci siano, che parla di identità nazionale e crede alla Padania.

Povia ben rispecchia questo tipo di elettorato che per lui è tutta potenziale clientela, e infatti per un po’ questa roba che scrive l’ha anche venduta. Credo che tutto sia finito quando abbiamo iniziato a capire quanto prendesse sul serio la sua missione, quando abbiamo iniziato ad intuire che il piccione non era semplicemente una metafora ardita e bruttina o uno scherzo, ma che nell’intento dell’autore era una demenziale proposta filosofico-etica in cui lui crede veramente.

Insomma i piccoli borghesi, o almeno quelli non ancora completamente rincitrulliti, hanno visto Povia che proponeva come Dio il piccolo borghese elevato al cubo, e si sono spaventati o schifati, o anche semplicemente annoiati, perché è prima di tutto una visione noiosa e squallida. Nell’arte la maggior parte della gente cerca qualcosa di diverso che un Osanna verso la banalità della vita di tutti i giorni, e conseguentemente Povia è diventato un fenomeno da baraccone ed è scivolato via via sempre più a Destra, perdendo fra l’altro anche quello smalto e quell’astuzia iniziali che gli avevano permesso di somministrare la propria pillola di “Italiano Medio” con tanto zucchero per farla ingoiare.

Oggi commenta sulle pagine facebook contro il giender, fa i complimenti a quel furbone di Salvini, scatta foto come questa

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E ci spinge a domandarci se non siamo di fronte ad un troll che ci prende da anni tutti per il culo, oppure un androide alieno che fa un esperimento sociale sulla ricezione della stupidità da parte degli umani, oppure se non sia semplicemente … be’ … Povia.

E mi sa che è semplicemente Povia.

 

Ossequi.